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Giannis vs Harden, un MVP per due
11 apr 2019
11 apr 2019
La corsa all’MVP della stagione 2018-19 passerà alla storia come una delle più combattute di sempre.
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Le ultimi stagioni ci hanno dato risposte contrastanti sui motivi per i quali incoronare l’MVP. In una è stato il miglior giocatore offensivo della regular season nella miglior squadra (James Harden nel 2018 e Steph Curry nel 2015) o il giocatore che si carica sulle spalle una squadra decimata e raggiunge traguardi individuali ritenuti impossibili (Russell Westbrook nel 2017). In un’altra è stato il titolare della stagione più efficiente di sempre alla guida della miglior squadra da regular season di sempre (Curry 2016, l’unico unanime della storia), oppure il secondo miglior giocatore del mondo (Kevin Durant 2014) perché ci si è stancati di votare il primo, che da parte sua comunque si è preso una stagione di relativo riposo rispetto ai suoi standard (LeBron James nel 2014). O ancora il miglior giocatore del mondo (LeBron nel 2012 e 2013), o il miglior giocatore della miglior squadra a sorpresa (Derrick Rose nel 2011) perché il migliore non si poteva votare causa Decision, e così via.

Come si decide un MVP?

Quindi: che cos’è un MVP? Come si decide chi debba essere eletto MVP? Quali caratteristiche deve avere chi merita di essere considerato un candidato al premio di MVP? Perché per individuare i papabili vincitori ci dovrà pur essere qualcosa cui far riferimento, una brochure con le linee guida, un libretto di istruzioni per l’assemblaggio, o una soglia di qualche tipo che indichi dei parametri non negoziabili.

Se si trattasse di un concorso enogastronomico sarebbe tutto estremamente più lineare, perché nella maggior parte dei casi a disposizione dei giudici c’è un disciplinare che indica quali caratteristiche debba avere il prodotto e cosa sia necessario, incoraggiato, concesso e vietato in termini di materie prime, ingredienti, processo di produzione, aspetto, aroma, gusto, conservazione e tutto il resto.

Ma ovviamente no, nel mondo sportivo non artistico - perché in quel caso invece i disciplinari ci sono, eccome - non c’è traccia di niente di simile. E tanto meno viene fornito dalla NBA, che anzi ha tutto l’interesse a rendere nebulosa e incerta la questione perché più incertezza significa più discussione, quindi più traffico generato, quindi più interesse, quindi più o meno direttamente più soldi.

La storia personale di Giannis, dalla serie B greca allo stardom NBA è stata raccontata da questo bel documentario su TNT.

Ci sono leggi non scritte, come ad esempio quella di premiare il miglior giocatore di una delle migliori due squadre in base al record di vittorie e sconfitte. Ma sono appunto non scritte, quindi si fa anche fatica a parlare di eccezioni quando non vengono rispettate, perché più di tutto vale la narrativa. Quali siano i candidati da portare al ballottaggio finale è abbastanza intuitivo, ma la decisione ultima dipende dalla storia che si vuole raccontare o dall’onda che si vuole seguire più che da determinati traguardi o parametri statistici.

In questa stagione alla sfida finale si presentano in due, dopo che i recenti risultati di squadra e un problema abbastanza serio alla spalla hanno costretto Paul George a defilarsi a una ventina di partite dal traguardo. All’angolo rosso, colore largamente predominante sulle divise e nei loghi degli Houston Rockets, c’è il giocatore più cerebrale, più tecnico, con lo skillset più ampio, in grado di segnare letteralmente da ogni zona del campo, meno atletico e che quindi gioca sotto il ferro. All’angolo blu, colore largamente predominante sulle divise e sulla bandiera della Grecia con richiesta di licenza poetica inoltrata ai Bucks (perché l’angolo verde non è previsto), c’è l’atleta più incredibile in attività, che vive nei pressi del canestro, spesso andandoci sopra o addirittura dentro, un mostro creato in laboratorio che annienta qualsiasi cosa si trovi sulla sua strada.

E giusto per ribaltare i luoghi comuni e scrivere nuove narrative - premesso ora e per il resto di questo articolo che si tratta di dialettica e ampio uso di figure retoriche, e che a nessuno verrebbe in mente di sostenere veramente davanti a un tribunale alcuni dei paragoni e dei concetti che verranno utilizzati -, capita che quello fisico dei due sia l’International cresciuto alla periferia di Atene, e quello tecnico sia lo statunitense cresciuto sui playground del ghetto di Compton. Viva la globalizzazione e la demolizione dei preconcetti.

I candidati nella metà campo difensiva

Per eleggere un MVP la fase difensiva è quasi sempre irrilevante, volente o nolente, ma stavolta potrebbe non essere così. James Harden nella propria metà campo assomiglia alla tipica ala forte degli anni ‘90, cioè un giocatore non troppo mobile ma anche per questo inamovibile, ruvido, estremamente stabile nella parte bassa del corpo. Quasi tutto ciò che i Rockets fanno in difesa dipende da eccellenti individualità - un dato su tutti: con Chris Paul in campo Houston concede appena 103 punti per 100 possessi, esattamente come Utah con Gobert - e dalla necessità di proteggere l’MVP uscente, cercando di chiamarlo in causa solo nella marcatura dei possessi in post degli avversari, perché in questo specifico fondamentale Harden è eccellente: 2.7 possessi a partita (1° in NBA) e 0.68 punti per possesso concessi, il che significa che solo sei giocatori fanno meglio tra quelli con un campione statistico credibile.

Nikola Jokic è uno dei lunghi più tecnici del pianeta e su Harden ha 15 chili e 15 centimetri di vantaggio. Mismatch ideale per i Nuggets, giusto? Sbagliato.

Tra i sei giocatori non è presente Giannis Antetokounmpo, ma solo perché nessun avversario si sogna nemmeno di provarci: 0.4 possessi a partita, 0.63 punti per possesso e questo è l’unico e ultimo dei punti di contatto tra i due. Harden è un difensore con una singola grande qualità e nettamente sotto media da quasi tutti gli altri punti di vista, mentre Giannis sarà quasi certamente inserito nel primo quintetto difensivo e potrebbe anche vincere il premio individuale per il difensore dell’anno, che spesso va al miglior interprete di uno dei migliori collettivi.

Qualche numerello hipster giusto per rendere l’idea: per stats.nba.com i Bucks concedono 105 punti per 100 possessi, miglior difesa della stagione insieme ai Jazz, che scendono a 100.5 nei 33 minuti a partita giocati da Antetokounmpo e 92 nei 9 minuti in cui è schierato da 5, situazione in cui diminuiscono anche i punti subiti al ferro (da 40 a 36 per 100 possessi) senza che venga compromessa la solidità a rimbalzo (dal 76%, 1° posto NBA, al 73,5%, l’equivalente del rendimento medio dei Thunder, top 10 nella specialità). Giannis è un mostro anche a rimbalzo difensivo, con statistiche di frequenza ed efficienza del tutto comparabili a quelle di Drummond, Embiid, Gobert, DeAndre Jordan e Towns, giocatori che di mestiere stanno nei dintorni nel proprio canestro e non volano sul perimetro a contestare quasi 5 tiri da 3 a partita (top 20 NBA se si aggiusta per minuti e possessi) come fa invece Antetokounmpo mentre difende su due o anche tre avversari diversi nell’arco di pochi secondi.

I candidati nella metà campo offensiva

Per passare all’altra metà campo con la stessa rapidità con cui Giannis trasforma un errore avversario al tiro in un assalto al ferro opposto, c’è un’altra statistica che dice tutto. Da quando sono disponibili i dati sui rimbalzi difensivi, solo quattro giocatori fino ad ora hanno completato una stagione con DREB% (stima percentuale di rimbalzi difensivi catturati dal giocatore rispetto al totale a disposizione della squadra) e AST% (stima della percentuale di canestri totali segnati dalla squadra assistiti dal giocatore) maggiore di 25, e cioè DeMarcus Cousins nel 2016, Kevin Garnett due volte (quindici anni fa, perché era veramente The Revolution), più Jokic e Westbrook in ciascuna delle ultime tre stagioni. Una volta i playmaker facevano i playmaker, le guardie facevano le guardie, le ali facevano le ali e i centri facevano i centri - oggi un po’ meno. Antetokounmpo chiuderà sopra il 30% in entrambe le categorie: viva il basket positionless.

Parlando di assist, si giunge al secondo punto di contatto tra i due candidati MVP. Houston e Milwaukee mettono in campo rispettivamente il terzo e il secondo miglior attacco della regular season alle spalle di quello di Golden State, principalmente grazie all’estremizzazione di tutti i concetti del Moreyball, cioè della ricerca del tiro a più alta efficienza possibile.

I Rockets sono ultimi per frequenza di tiro dalla media distanza, con i Bucks penultimi (a seguire Hawks, Jazz e Nets). I Rockets sono primi per frequenza di tiro da tre, soluzione tentata nel 48.5% di possessi offensivi secondo i dati di Cleaning the Glass; i Bucks anche qui sono terzi, in pratica appaiati ai Mavericks, seppur staccati a debita distanza (38.3%). I Rockets sono nelle prime cinque posizioni per eFG%, punti per possesso a metà campo e punti per possesso in transizione; i Bucks pure.

Le heatmap della distribuzione di tiro di Bucks e Rockets sono pressoché identiche. Unica differenza apprezzabile il minor feeling di Milwaukee con le triple dagli angoli: 11° posto in NBA per frequenza, mentre Houston guida la classifica.

Con attacchi così efficienti ed orientati verso il tiro da tre non stupisce che gli assist di Giannis siano i più pesanti dell’intera NBA, dato che ogni passaggio decisivo di The Greak Freak vale 2.58 punti. Allo stesso modo, non sorprende che quelli di Harden si assesstino al quarto posto con 2.37 punti, appena davanti a Westbrook (2.36) e alle spalle di Ben Simmons (2.42) e Trae Young (2.40), nomi che ovviamente compaiono anche in cima alle classifiche di tiri da tre totali assistiti (Westbrook 278, Simmons 259, Young 258, Giannis 245) e canestri al ferro assistiti (Westbrook 349, Harden 334).

In particolare il 58% degli assist di Antetokounmpo si concretizza in un canestro da tre punti, il 32% un canestro al ferro e il restante 10% in altri tiri da due, mentre per Harden il rapporto è ribaltato: 37% verso i tiri da tre e 57% verso le conclusioni al ferro, grazie soprattutto all’eccezionale intesa con Clint Capela, destinatario di 211 dei 334 passaggi decisivi nei pressi del canestro e di 220 assist totali, la coppia più prolifica della stagione davanti a Augustin-Vucevic dei Magic (183), Westbrook-Adams dei Thunder (183) e Williams-Harrell dei Clippers (174).

Come fanno canestro i candidati

Resta da analizzare un aspetto, quello che alla fine dei conti riguarda l’essenza più profonda del gioco del basket: fare canestro. Tenendo a mente che la presenza di figure retoriche e licenze poetiche è stata dichiarata, si può provare a fare un rapido confronto tra due diversi profili statistici (tra parentesi i dati sui 100 possessi):

GIOCATORE A: 35 punti a partita (43.6), 10.5 tiri liberi tentati a partita (13.1), 54.6 eFG%, 60.3 TS%, 34.1 Usage, 9.8 Offensive Box Plus Minus

GIOCATORE B: 36.4 punti a partita (48.2), 11.2 tiri liberi tentati a partita (14.6), 53.4 eFG%, 61.2 TS%, 40.7 Usage, 10.6 Offensive BPM.

Il giocatore B, a parità di efficienza complessiva, ha un volume di gioco e quindi produzione di punti superiore, ma per il resto si tratta di stagioni decisamente comparabili.

Il giocatore A è il Giocatore Alfa: Michael Jordan del 1988, MVP e Defensive Player of the Year, accoppiata riuscita solo ad Hakeem Olajuwon nel 1994 con l’aggiunta del premio di MVP delle Finali.

Il giocatore B include la B di barba ed è James Harden nel 2019.

No, non significa che Harden sia Michael Jordan anche utilizzando tutte le iperboli del mondo, perché la difesa non è minimamente paragonabile e perché in fondo si tratta solo di statistiche. Però altre stagioni in cui qualcuno abbia raggiunto cifre simili semplicemente non esistono, quindi in fondo si può dire che Harden in questa stagione è stato il miglior sosia possibile (seppur imperfetto) di MJ. E se nei numeri il Barba ha ricordato il Jordan di inizio carriera, nella sostanza è molto più simile a quello 2.0 del secondo three-peat, che aveva smesso di volare sopra il ferro ed era diventato un artista del fadeaway, il tiro in cui per ottenere separazione dal difensore ci si lancia all’indietro, allontanandosi dal canestro.

Ricorda qualcosa, almeno concettualmente? Harden in questa stagione ha segnato 210 triple in step back, cioè allontanandosi dal canestro per prendere lo spazio di cui ha bisogno. Su 540 tentativi, più di metà dei suoi 1.028 tentativi totali da oltre l’arco, cioè con il 38.9% di successo, che è una percentuale superiore alla sua complessiva al tiro da 3 (36.8%). Il secondo giocatore per triple in step back tentate e segnate è Luka Doncic (58/164, 35.4%); il terzo è Steph Curry, che ovviamente si è sentito in dovere di mandare in crash il sistema statistico della NBA: 41/68, 60.3%. No, non è un errore, così come non lo è la presenza nei primi posti anche di Blake Griffin (16/42, 38.1%).

Solo dodici giocatori hanno tentato in questa stagione più di 540 tiri da tre in tutto e di questi solo quattro hanno percentuali complessive migliori di quelle che Harden ottiene in step back: Steph Curry (43.7%), Buddy Hield (42.6%), J.J. Redick (39.7) e Klay Thompson (40.1) - il Monte Rushmore dei tiratori di questa era, senza offesa per Kyle Korver che inizia a sentire il peso dei suoi 38 anni.

Di tutte le giocate di Harden durante la stagione questa rimane senza dubbio la più iconica.

Se James Harden è Michael Jordan che ha effettuato una fusione con Kareem Abdul-Jabbar - perché la tripla in step back è come il fadeaway di MJ e come lo Skyhook, un rebus senza soluzione (per ora) -, Giannis Antetokounmpo invece è Shaquille O’Neal (o Wilt Chamberlain) che si fonde con LeBron James. Come i due mostri degli anni 2000 e 2010, il greco on ha bisogno di allontanarsi dal canestro per ricavarsi spazio, perché gli basta abbassare una spalla ed appoggiarla sul petto del malcapitato difensore per creare il vuoto. E in casi estremi può andare anche sopra agli avversari, letteralmente, tanto è imbarazzante la sua superiorità fisica nei confronti di chiunque altro.

Il miglior Shaq nel 2000 segnò 571 canestri nella restricted area, record fino ad oggi; il miglior LeBron nel 2014 ne segnò 455, ma su soli 581 tentativi, con un assurdo 78.3% di realizzazione. Giannis in questa stagione si pone a 567/769, con il 73.7%. Non esiste un tiro più efficace di una schiacciata e non esiste singola abilità più distruttiva del poter schiacciare ogni volta che lo si desidera, semplicemente facendosi dare il pallone in una posizione qualsiasi del campo e abbattendo tutto ciò che si incontra prima del canestro.

Da quando la NBA ha iniziato a tenere il conto dettagliato delle schiacciate nessun giocatore ne ha mai realizzate più di 100 non assistite in una stagione: il record apparteneva a Dwight Howard nel 2007 (95), seguito da Shaq 2005 (93). Antetokounmpo ne ha già realizzate 114, di cui appena 18 in putback dopo un rimbalzo d’attacco: come a dire che avrebbe battuto il record anche senza l’aiuto dei tabelloni, su cui invece due centri di ruolo potevano contare con discreta costanza. Nelle situazioni di drives, cioè azioni in palleggio che iniziano ad almeno 6 metri dal canestro e si concludono nei pressi dello stesso, Giannis segna con il 63.3%, dato assolutamente inavvicinabile per chiunque altro.

Una sensazione

Per chiudere, la sensazione è che la superiorità in difesa e la narrativa del momento possano premiare il giocatore greco. Ma a prescindere da quale sia il risultato finale, si tratta di una sfida tra due colossi che per sei mesi hanno offerto uno spettacolo fantastico e hanno raggiunto traguardi statistici incredibili.

Valutare a livello storico prestazioni simili è sempre complicato, anche se con metodo e pazienza si possono trovare buone soluzioni per fare la tara di contesto tecnico e regolamenti. Per rendersi conto di essere davanti a due assoluti fenomeni e degnissimi eventuali vincitori del premio di MVP, però, non serve essere eccessivamente puntigliosi: basta mettersi comodi davanti allo schermo, lasciando da parte i preconcetti.

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