L’ombra di Jamal Crawford si allungava sul cortile dietro casa: sembrava la sagoma di un gigante filiforme. Copriva l’erba rada e la terra fresca del giardino come una striscia nera, salendo sul piccolo albero piantato anni prima dalla nonna. La figura si inginocchiò nel buio dietro al tronco e cominciò a scavare con i polpastrelli per fare meno rumore possibile. Il volto si accendeva e si spegneva al passare di qualche auto ed era uguale a quello che conosciamo oggi: liscio, regolare, con gli occhi grandi e apparentemente indifferenti. Sotto la terra c’era un borsone rosso: Jamal lo aprì e ci infilò dentro una felpa, poi chiuse e ricoprì tutto alla svelta, tornando in casa senza fiatare e con le mani luride. La fortuna di abitare a Inglewood, California, è che quando sei un ragazzino di 16 anni e vuoi organizzare una fuga nel cuore della notte c’è l’eterno ronzio di Los Angeles a coprirti le spalle, che anche quando tutti dormono riempie le strade e le case a chilometri di distanza.
Lo stomaco di Jamal Crawford si contorse di paura per la prima volta nel 1996, davanti al barbiere, quando un ragazzo più grande gli disse: “Perché non sei a scuola? Se continui a saltarla non diventerai mai nessuno”. Stranamente quella frase, ripetuta centinaia di volte dalla madre a Seattle e dal padre lì in California, non lo aveva mai scalfito. Quella volta invece provò una fitta di ansia. A scatenare quella reazione fu certamente il peso della persona che l’aveva pronunciata: quel 19enne alto due metri era ormai un nome tra le high school del paese, visto che l’anno prima aveva partecipato al McDonald’s All-American e poi era andato all’università di Kansas. Si chiamava Paul Pierce e sapeva sbatterti la verità in faccia come nessuno. Per lui Crawford aveva “some game”, mentre per Crawford Pierce era “not that good”, ma in cuor suo sapeva che semplicemente quello era un giocatore e lui no. Aveva solo tre anni per ricostruire la sua credibilità a scuola ed entrare stabilmente in squadra. In quel momento si accorse che stava bruciando tutti i suoi sogni e che non poteva tornare indietro: quella cascata di considerazioni lo investì come una folata di vento gelido, mai visto a quelle latitudini.
A 9 anni Jamal cominciò a dormire abbracciato alla palla. Il papà Clyde, che aveva giocato a University of Oregon con il padre di Kevin Love, aveva già visto in lui un certo talento, ma non aveva detto nulla. Jamal andava a fare la spesa nel quartiere di Beacon Hill dove viveva, a Seattle, con la madre e le sorelle. Lungo la strada palleggiava, puntava i passanti e li saltava andando dietro la schiena o passandosela in mezzo alle gambe, aggirava con spin di destro e di mancino le vecchie signore infreddolite e continuava nei negozi ubriacando di crossover i carrelli della spesa e gli uomini di mezza età che lo riconoscevano come quel bambino un po’ matto che non parlava mai. A 11 anni cominciò a tornare a casa tardi, saltava scuola, passava le giornate al campetto e con gli amici. La madre decise che aveva bisogno di disciplina e di una figura maschile, quindi lo mandò dal padre in California. Per il giovane Crawford quel primo distacco fu un trauma: arrivato a Inglewood, nella contea di Los Angeles, scoprì che la vita e la scuola lì erano molto diverse.
To live and die in L.A.
Il codice di vestiario e di colori che caratterizza le gang di Los Angeles è molto complesso e non conoscerlo può crearti dei problemi. Jamal si presentava a scuola vestito come gli pareva, come era abituato a fare a casa sua nello stato di Washington, ma lì non andava bene. Gli ispanici vestono con maglie bianche e con bandana blu o nera. Le storiche bande di neri come i Crips vestono di blu chiaro, mentre i Bloods si distinguono con accessori rossi, come scarpe, camicia o bandana. La Mara Salvatrucha veste di azzurro e bianco, richiamando i colori della bandiera di El Salvador, indossa le Nike Cortez e i membri si tatuano in faccia. I messicani Sureños vestono di blu, nero o marrone e sfoggiano il numero 13, mentre i Norteños usano il rosso ed esibiscono il numero 14 — e tra di loro si ammazzano. Se hai una bandana nella tasca destra e indossi pantaloni militari sei un Vatos Locos. La 18th Street Gang veste blu e nero e mostra il numero 18. E il verde? Il verde è degli spacciatori. Questo nuovo universo creò non pochi problemi a Crawford che venne minacciato e tormentato perché era nuovo, taciturno e non conosceva le regole. Col tempo si dovette adeguare e prese a frequentare ambienti poco raccomandabili, portandosi ancora più lontano dalla normalità che la famiglia sperava per lui.
Attraversando il cimitero di Inglewood si arriva dritti di fronte al Western Forum, lo stadio che ha ospitato i Los Angeles Lakers dal 1967 al 1999. Crawford andò a vedere i Chicago Bulls e l’eccezionale ritorno di Magic Johnson, cinque anni dopo il primo ritiro e quattro dopo l’oro olimpico di Barcellona 1992 con il Dream Team. A fine partita riuscì a strisciare tra la folla urlante e ad arrivare a ridosso del campo. Scottie Pippen aveva appena dominato, Dennis Rodman biondo platino prese 21 rimbalzi in tre quarti, c’era Tupac e soprattutto c’era Michael Jordan. Crawford li vide tutti insieme davanti a lui, poteva allungare un braccio e sfiorargli la maglia, eppure capiva l’illusione del fatto che in realtà erano tutti lontanissimi. Quella sensazione lo schiacciava con una violenza impietosa: lui voleva appartenere a quel mondo e qualsiasi altra eventualità sarebbe stata una tragedia. Doveva cambiare, ma non poteva rimanere in California, perché lì a Inglewood non ce l’avrebbe mai fatta. Voleva tornare a Seattle dalla madre e dalle sorelle, voleva stare a casa, tornare alla sua scuola, studiare, entrare in squadra alla Rainier Beach High School e poi andare al college con una borsa di studio da giocatore.
Le telefonate in lacrime a supplicare la mamma non servirono a nulla, Jamal aveva ormai speso tutto il suo credito a disposizione presso di lei. Quel semestre la sua pagella recitava: Storia americana C-, Spagnolo F, Chimica F, Geometria D-, Inglese F e un mucchio di assenze ingiustificate. La madre e il padre erano d’accordo che, cascasse il mondo, lui sarebbe rimasto in California. In quel momento organizzò il piano per fuggire: seppellì un borsone nel cortile e ogni giorno per due settimane lo riempì, un capo alla volta, per non destare sospetti. Intanto da Seattle, in segreto, la sorella gli avrebbe spedito un biglietto aereo di sola andata. Ogni mattina Jamal si alzava all’alba, preparandosi a sottrarre al postino la sua preziosa lettera, prima che chiunque altro potesse vederla. Poi un giorno era sparito. La nonna trovò un foglio sul tavolo della cucina sul quale c’era scritto:
Cara nonna, mi dispiace molto di averti mancato di rispetto in questo modo. Dovrei mettermi in testa che quello che cerchi di insegnarmi mi servirà per farcela nella vita. Non ho niente contro di te, ma sento che la cosa migliore per me è di tornare a Seattle e di questo ti chiedo scusa.
Ti voglio bene, Jamal
Bring back our Jamal
Immagino il suo primo allenamento alla Rainier Beach, il suo primo allenamento in assoluto in una vera squadra di high school. Deve essere stato piuttosto fulminante, per gli altri. Jamal aveva lasciato il nord-ovest degli Stati Uniti a 13 anni e 180 centimetri di altezza, per tornare tre anni dopo con 15 centimetri in più e un pezzo di vita sui campetti incandescenti di L.A., a ossessionarsi con la pallacanestro. In quella stagione diventò il miglior giocatore dello stato e tra i primi 100 del paese. Il suo modo di giocare portava gente ai palazzetti perché nessun sedicenne di quasi 2 metri trattava la palla in quel modo. Jamal umiliava gli avversari e marcarlo era un dramma: aveva una capacità innata di creare scompiglio tra le difese e di mettere seduti i difensori grazie a un controllo di palla alieno.
All’inizio del suo secondo anno partecipò al “All Hoop, No Hype” Pro-Am League, una competizione organizzata da Doug Christie che mischiava giocatori amatoriali, giovani in rampa di lancio e professionisti NBA. Una grande festa per il basket di Seattle. Jamal era certamente una delle attrazioni più interessanti a calcare il campo. A marcarlo c’era un giocatore più esperto e più grosso che difendeva forte per evitare che un liceale si prendesse gioco di lui. Poi su un contropiede fulmineo si ritrovarono uno contro uno in campo aperto. Crawford racconterà in seguito che non pensava a nulla in quel momento: correva solo a tutta velocità contro il difensore, con la mente vuota, senza un piano. A meno di un metro dall’impatto se ne uscì con un movimento velocissimo e complicato, che fece sparire la palla per una frazione di secondo, teletrasportandolo alle spalle dell’avversario, che perse totalmente la posizione sbandando sul lato della finta. Jamal era lanciato così veloce a canestro che fece appena in tempo a mettere il sottomano prima di schiantarsi sul muro della palestra, alle spalle del tabellone. Tutti impazzirono.
Dopo la partita gli chiesero cosa aveva fatto mai lui non ne aveva idea, dimostrando ancora una volta, se ce ne fosse stato il bisogno, che era (ed è) un ball handler naturale, istintivo. Il movimento, rivisto al rallentatore, è composto dall’arresto a un tempo (importante per non fare passi) andando dietro la schiena verso sinistra, con il difensore che si sposta sulla finta, e da un secondo salto a destra, grazie il quale Crawford si libera dell’uomo ritrovandosi dall’altra parte. Sì, esatto, noi lo abbiamo visto centinaia di volte, è lo shake and bake, marchio di fabbrica del nostro beniamino, che da quella sera non se lo è più dimenticato. Oggi, quasi 20 anni dopo, quella manifestazione è stata presa in mano da Jamal Crawford, che sulle orme di Doug Christie si spende per tenere viva la passione per il basket a Seattle dopo l’addio ai Supersonics. Il nome che gli ha dato è molto significativo: The Crawsover.
Alla fine, guardando indietro, i conti che si era fatto in California erano giusti. Fece due anni di high school e uno di college, a Michigan. Poi nel 2000 venne selezionato con l’ottava scelta al Draft NBA. Quel pianeta che gli sembrava così dolorosamente lontano, ora era il suo. Oggi sappiamo bene chi è: un giocatore atipico, individualista, che gioca a un ritmo sincopato, tutto suo, l’unico eletto tre volte Sesto uomo dell’anno, mai considerato per l’All-Star Game, re dei giochi da quattro punti, difensore insostenibile, uno che ha cambiato tante squadre (non perdetevelo mentre elenca a memoria tutti e 17 gli allenatori che ha avuto) ma che quando appare a bordo campo, pronto a entrare, ci fa ancora provare un brivido elettrico.
Quello è Jamal Crawford, adesso tutto può succedere.