Gullit

Il Westminster City Council ha la fama di saper ritrovare i cani smarriti. Una volta ha riportato Emily, un labrador, alla sua padrona Liz Hurley. Hanno detto che se riescono a trovare il cane del Signor Mourinho contatteranno la stazione di polizia di Belgravia. Il problema è che il cane andrebbe messo in quarantena perché si ritiene che abbia fatto avanti e indietro con l’estero senza le opportune vaccinazioni. Un portavoce di Scotland Yard ha dichiarato che “Un uomo di quarantaquattro anni è stato arrestato col sospetto di aver ostacolato la polizia ed è stato portato in una centrale di West London”.

La dinamica: raggiunto telefonicamente dalla moglie con la notizia che degli agenti di polizia si erano presentati a casa loro per prelevare Gullit, il loro minuscolo yorkshire terrier, Mourinho è tornato a casa, ha spiegato che c’era un malinteso sui documenti, ha strappato il cagnolino dalle mani degli agenti. È entrato in casa con la scusa di una telefonata ma quando è uscito ha detto agli agenti che Gullit era ormai libero per le strade di Belgravia e potevano provare a prenderlo. Il Signor Mourinho è stato portato in centrale, gli sono state prese le impronte digitali. È uscito su cauzione.

Sono stati appesi cartelli Avete visto Gullit? Dicevano: Noto anche come “Special One” / Ama la bella vita ed essere il numero uno / È sempre pulito e in ordine / Odia: I russi / Gli arbitri / Arsene Wenger/

Il terrier, che portava un fiocco rosso, è stato ritrovato sano e salvo il giorno dopo e restituito ai figli di sei e dieci anni dell’allenatore del Chelsea, che in conferenza stampa ha detto: “Niente mi fa soffrire, specie nel calcio, niente mi fa soffrire perché la mia famiglia, a confronto… Non c’è confronto, ovviamente. Ma per me, nel calcio, niente mi fa soffrire. Ciò che mi fa soffrire è quanto accaduto ieri alla mia famiglia: non a me. Alla mia famiglia”.
Il cane è stato vaccinato.

Ma io non sono un pirla.

Fallo laterale

Nello studio di Monday Night Football c’è Jamie Carragher in piedi con una penna in mano e uno schermo touchscreen a disposizione. È inquadrata da molto in alto una situazione di gioco. Non la si può definire una fase saliente: è una rimessa laterale sulla fascia destra, cinque metri prima della linea di centrocampo. L’esterno destro di difesa del Chelsea deve decidere a chi lanciare il pallone. Il centrale di destra non si schiaccia verso la riga di fondo per ricevere la rimessa all’indietro. Del centrocampo a tre del Chelsea, il cosiddetto Trivote, i due arretrati non stanno cercando di farsela passare, e nemmeno Lampard, il terzo, in posizione più avanzata. Infatti il terzino rimette la palla molto forte, in avanti, lungo la fascia destra: sulla trequarti, a un attaccante che la protegge dal difensore rosso, dandogli le spalle, guardando la tribuna.

Sembra una rimessa approssimativa, grossolana, frutto della mancanza di idee, fin quando Carragher non fa notare una cosa, cominciando a evidenziare con la penna sul touchscreen i vari giocatori coinvolti implicitamente in questa maniera di lanciare una rimessa laterale: “Mourinho non farà mai una rimessa a centrocampo che gli faccia rischiare di prendere un contropiede. Se fai una rimessa lunga in avanti, hai sempre i tuoi giocatori dietro la palla”. Toccati dalla finta penna, nel momento in cui la palla è arrivata in avanti lungo la fascia, i giocatori del Chelsea dietro la linea della palla formano un cuneo di circoletti azzurri, un 4-2-1 di giocatori: “Hai sempre la linea a 4 della difesa intatta. I due centrali arretrati di centrocampo non si muovono, e anche Lampard è dietro la palla. In questo modo”, anche avventandosi sulla seconda palla e conquistando il possesso, “il Liverpool non può mai prendere ampiezza”. È un modo di attaccare che è sostanzialmente un modo di difendere. Crea un campo magnetico nel centrocampo, la rende una zona disagio per la squadra di casa, perché non sente mai di poterla conquistare.

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Altra analisi di Carragher: altra fase di gioco non esattamente definibile highlight, anzi proprio il contrario di “saliente”. Il portiere, Schwarzer, tiene la palla per una ventina di secondi, senza fretta di cominciare il gioco. Lo schermo mostra vari giocatori del Chelsea che puntando verso terra i palmi delle mani si fanno cenno a vicenda di rallentare il gioco: Ivanovic, Cole, Lampard, poi anche Matic, mentre Suarez applaude ironicamente, infastidito.

Uno dei concetti chiave del sistema di allenamento di Mourinho è che si deve riposare proprio mentre si controlla la palla. Lo scopo è mantenere energie fisiche e psichiche, che per M. vanno sempre insieme. Non si deve pensare tutto il tempo ad attaccare. Ci dev’essere un possesso palla di tipo difensivo, dichiaratamente fine a se stesso piuttosto che alla penetrazione offensiva per novanta minuti. Lo scopo è mantenere le energie e la concentrazione, rimanere concentrati.

Alla fine Schwarzer rinvia la palla lontano: sul lancio, Carragher mostra di nuovo il 4-2-1 a protezione della palla che scavalca le teste dei giocatori, con la fase offensiva che comincia direttamente dai tre giocatori offensivi, e gli altri sette giocatori di movimento già automaticamente sistemati a protezione. Le ripartenze sono impossibili. Carragher mostra il diagramma con i rinvii di Schwarzer: sono quasi tutti lunghi, l’attacco è basato sulla conquista della seconda palla fra il centro e la trequarti.

Viene spesso definito noioso, ma il gioco di Mourinho diventa avvincente quando lo si inquadra al rallentatore. Probabilmente un giorno qualche scoppiato ripeterà i movimenti delle partite di JM al subbuteo come i malati di soldatini riorganizzano Waterloo su dei tavoli in cantina.

Il motivo per cui diventa avvincente è che è normale che i gol delle squadre di JM siano la conseguenza di queste soluzioni difensive esasperanti: “La cosa ironica è che i due gol dei Chelsea nel recupero sono creati proprio dal Chelsea che rallenta il gioco”. Il Chelsea vince la partita con due gol: uno nel recupero del primo tempo, uno nel recupero del secondo tempo. Gli allenamenti di M. sono tutti finalizzati alla conservazione delle forze mentali e fisiche fino ai momenti finali della partita, e si spera della stagione – ci ricordiamo l’Inter del 2010, concentrata sui tre fonti fino a fine maggio, progressivamente sempre più lucida. Il Liverpool ha attaccato un Chelsea chiusissimo in modo inefficace, con una trentina di cross “unrealistic” perché sempre sparati a caso verso uomini coperti. Non hanno mai cercato Suarez sul limite dell’area per lasciargli l’uno contro uno.

Il primo gol del Chelsea, nel recupero del primo tempo, nasce da un frustrato tentativo del Liverpool di cominciare l’azione davanti a un centrocampo paralizzato. Sakho, sulla sinistra, porta palla, quasi a centrocampo, la passa al centro a Gerrard, che dovrebbe allungarla sulla fascia destra, ma ha un momento di indecisione che lo fa scivolare: Demba Ba si avventa e gli ruba palla, corre e segna. Mentre Scharzwer innervosiva il Liverpool, spingendolo all’attacco arrembante, l’attacco del Chelsea riposava i nervi.
I tifosi di Anfield si arrabbiano, Carragher difende la scelta: “L’abbiamo fatto anche noi. Io l’ho fatto col Liverpool. Ricordo quando siamo andati a Barcellona, volevamo lo 0-0, abbiamo fatto esattamente lo stesso. siamo andati per lo 0-0. Ci hanno detto Siete una vergogna per il calcio”.

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In 457 partite giocate da allenatore fino a quel giorno di fine aprile, JM. ha perso solo nove volte dopo essere andato lui in vantaggio. Si pensa che Mourinho sia perfetto per il calcio ipermediatico, ma nonostante sia un personaggio, è vero il contrario. Per essere apprezzato davvero avrebbe bisogno di telecronisti che commentano la partita come gli storici scrivono delle guerre. Qualunque livello di narrazione sportiva meno puntuale di quello di Carragher farà sembrare JM la morte del calcio. Il suo calcio punitivo, sadomaso, è un piacere sottile e raffinato, purché chi lo racconta abbia un touchscreen, una penna, e un cervello.

Quella sconfitta di aprile ha aiutato Gerrard a perdere la Premier League che non ha mai vinto.

Ranieri è stato per 5 anni in Inghilterra e ancora faceva fatica a dire buongiorno e buonasera.

Mister Mister Mister!

Abel Rodriguez è un addetto alle pulizie della metropolitana di Los Angeles. Quando il primo Chelsea di Mourinho viene per la prima volta in tour estivo in America e si assicura le strutture di UCLA per l’allenamento, Rodriguez, poco più che trentenne e molto appassionato di calcio europeo, ottiene, grazie un amico impiegato all’università, l’onore di lavorare gratis per la squadra: lui e il fratello attaccano alle cinque, aiutano a sistemare i coni, le bandierine, le porte, i palloni. Rimangono a disposizione tutto il giorno anche come raccattapalle. A fine allenamento mettono a posto tutto e verso le undici tornano a casa, per ricominciare il giorno dopo.

La cosa funziona e si ripete ogni estate: due col Chelsea, due con l’Inter, tre col Real.

A questo punto, ormai quarantunenne, Rodriguez decide di realizzare il suo sogno di vedere del calcio europeo dal vivo, in Europa. Mette i soldi da parte, ma avendo moglie e due figli non se la sente di usare tutto quel denaro per un viaggio da solo in Europa.

“Ero indeciso, ma mia moglie mi ha dato il coraggio, ha detto Devi andare, è sempre stato il tuo sogno. Anche mia figlia mi ha detto Devi andare”.

28 febbraio, due giorni prima del Clàsico di campionato del 2 marzo, arriva a Madrid con l’aereo e come prima cosa prende un taxi per andare alla cittadella sportiva di Valdebebas. Purtroppo, gli allenamenti sono già cominciati, non può sperare di essere riconosciuto da giocatori e tecnici che entrano al centro. Viene allontanato dalla sicurezza.

“Menomale che avevo un giaccone che mia moglie mi aveva detto di portare. Avevo le dita congelate… O aspettavo o me ne andavo a cercare un albergo. Aspetto cinque ore. So che si allenano dalle undici all’una. Si attardano un po’… I giocatori escono rapidi”.

Poi esce il mister nel Range Rover di Rui Faria. “Mister Mister Mister!... Mi guarda, dice a Rui Faria Fermati!”

Mourinho lo riconosce. L’allenamento per lui è il cuore del calcio. Gli prenota una stanza nell’albergo dove si riunisce la squadra, lo invita all’allenamento alle undici il giorno dopo. Rodriguez riceve i biglietti per la partita e la fascetta per la zona vip. Scatta le foto ricordo con Maradona, ospite speciale, e Cristiano Ronaldo.

Dopo, chiacchierando, JM gli dice: “Amico, vuoi venire a Manchester?” Poi si mette al telefono: “Pablo, voglio che organizzi tutto. Voglio che il mio amico venga con la squadra, mi prendo la responsabilità”.

Vola con loro, come magazziniere aggiunto. Viene dichiarato amuleto magico della squadra, che in un rituale propiziatorio si mette in fila e, un giocatore dopo l’altro, gli accarezza la pancia prima di scendere in campo e vincere con gol di Modric e Ronaldo in rimonta, in tre minuti a metà del secondo tempo. All’andata era finita pari. Gli regalano la maglia verde di Kaka, Ozil, Chicharito, le scarpe di Kakà: esibisce le reliquie a Naciòn ESPN.

L’interprete

Finita l’università, dopo due anni da insegnante di educazione fisica nelle scuole, Mourinho fa il corso UEFA e nel 1989 diventa allenatore delle giovanili del Vitoria Setubàl, club di seconda divisione. Fernandes, l’allenatore, lo vuole con sé anche all’Amadora, in prima divisione. Retrocedono. Rimane all’Amadora con il nuovo allenatore a cui serve un fitness coach.

Nel 1992 Bobby Robson arriva allo Sporting Lisbona dal PSV, serve un interprete. “Il presidente portò con sé un giovane in gamba di nome José Mourinho, che disse di essere il mio interprete. Bel ragazzo. Gli dissi di non farsi vedere troppo spesso accanto a me! Sapevo che aveva ambizione e sapevo che un giorno mi avrebbe lasciato”. Diventano amici. JM gli compila un elenco di frasi portoghesi di calcio. Viene coinvolto nei lavori e diventa allenatore dei portieri, membro aggiunto per gli esercizi con la palla, e ovviamente parlava con la stampa e i giocatori, infiorettando o per meglio dire integrando.

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Dopo un’eliminazione dalla Uefa contro il Salisburgo, Robson viene licenziato sul volo di ritorno con un messaggio all’interfono da parte del presidente. Robson offre a Mourinho di seguirlo al Porto. Poi viene chiamato dal Barcellona nella primavera del 1996 in sostituzione di Johann Cruijff. Porta con sé il traduttore: all’inizio lo pagano diecimila pesetas al mese e dorme nella stanza d’albergo del Mister: la società si rifiuta di pagare per un interprete aggiunto oltre a quello fornito dalla società.

Mourinho consiglia a Robson di vendere Jordi Cruijff, calciatore figlio dell’ex, per evitare che racconti al padre i segreti dello spogliatoio: finirà al Manchester United. Lo stipendio viene aumentato. Robson insegna a JM a non disperarsi nella sconfitta, che significa sempre grande gioia nello spogliatoio accanto. Guardano film di Anthony Hopkins insieme, vivono nello stesso comprensorio. Un giornalista di AS chiede a Robson se Mourinho è il suo fidanzato. Mourinho risponde che se portava la sorella avrebbero visto se era vera. (Ibra risponderà la stessa cosa una ventina d’anni dopo quando a Barcellona sospetteranno un suo amore col compagno di squadra Piqué.)

“Secondo alcuni giocatori che capivano l'inglese, le istruzioni di José dopo la traduzione di quello che aveva detto Robson risultavano sempre un po’ più acute di quelle del tecnico, con l'aggiunta a volte di qualche ‘extra’. I suoi video, in cui esponeva e sottolineava le debolezze e i punti di forza degli avversari, erano ben costruiti e il suo rapporto con Ronaldo lo aiutava a guadagnarsi qualche apprezzamento nel gruppo. Divenne presto la spalla su cui piangere quando si veniva lasciati fuori squadra, visto che Robson manteneva di proposito un distacco professionale dalla squadra. Astutamente, José superava quella linea costantemente e liberamente”. (Luís Lourenço, Mourinho, Mondadori, 2008).

Dopo la vittoria della Copa del Rey nel 1997 disse, in catalano: “Oggi, domani, sempre col Barca nel cuore”.

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Rimane col Barca anche quando arriva Van Gaal, di cui è l’assistente ufficiale: “José era un giovane arrogante che non rispettava l’autorità. Non era sottomesso e mi contraddiceva quando pensava mi sbagliassi. Ho finito con l’ascoltarlo più di quanto ascoltassi gli altri assistenti. Se dovevo fare una sessione di allenamento e non avevo le idee chiare, chiedevo a lui”. (Ciaran Kelly, The Rise of the Translator, Bennion Kearny Limited, 2013).

Posso lavorare di più. Quello che non posso fare sono i miracoli: io non sono Merlino o Harry Potter.

El puto jefe

Barcellona contro PSG, finale di Coppa delle coppe a Rotterdam. Barcellona in completo verde petrolio e maglie a sbuffi da tardi anni novanta: Ronaldo I, Stoichkov, Figo, Luis Enrique con Pep Guardiola, allenati da Bobby Robson. Vincono, esultano. Pep si alza da un abbraccio in ginocchio con Ivan de la Pena, fanno per andare sotto la curva, Guardiola però vede sulla destra l’assistente-traduttore di Robson, lo punta col dito e il braccio teso, si vengono incontro, si abbracciano. L’assistente lo stringe, lo solleva, lo incoraggia a saltellare rimanendo abbracciati.

“Parlavamo di molte cose quando entrambi avevamo dei dubbi, e ci scambiavamo idee, ma non la ricordo come qualcosa che definisse il nostro rapporto. Lui era l'assistente di Mister Robson e io un giocatore”.

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Undici anni dopo, è il 2008, Mourinho, nell’anno sabbatico dopo il Chelsea, va dai dirigenti del Barca a presentare la sua idea di come allenerebbe la squadra se venisse assunto per il dopo Rijkaard. Ha una penna usb con la presentazione: il 4-3-3 tradizionale catalano va reimpostato con centrocampisti di tipo nuovo come Essien, Makélélé e Lampard. Come assistente vorrebbe avere Luis Enrique o Pep Guardiola.

Il vicepresidente delle finanze, Ferran Soriano: “Il ‘brand Mourinho’ associato al brand del Barça, ha il potenziale per rendere enormi i nostri prodotti sul mercato”.

Qualche imbarazzo invece sull’avvertenza del candidato: sarà necessario scatenare il caos mediatico perché è un aspetto della dimensione psicologica del calcio, un male necessario.

La panchina viene affidata a Guardiola, Mourinho va all’Inter. Si incontrano nella fase a gironi della Champions League nel 2009; il Barca è campione in carica. Si ritrovano in semifinale: l’andata è a Milano, e gli ospiti ci mettono tredici ore a raggiungerla per colpa di un vulcano islandese che riempendo di calcinacci l’aria d’Europa ha interrotto il traffico aereo e costretto il Barcellona a viaggiare in pullman. Vince l’Inter 3-1.

JM: “È sempre difficile perdere, specialmente per chi non ci è abituato”.
PG: “Lo rispetto molto e non sprecherò nemmeno un secondo per rispondere a una cosa come quella”.
JM: “Noi stiamo inseguendo un sogno; il Barcellona sta inseguendo un’ossessione. Loro hanno questa ossessione chiamata Bernabéu”.
PG: “Il mio stato d'animo è di enorme felicità, di indescrivibile gioia. È un onore e un privilegio giocare una semifinale di Champions League”.
JM: “Criticarlo vorrebbe dire ignorare quello che ha fatto l’Inter, e non sarebbe giusto”.

A Barcellona l’Inter perde 1-0 in dieci uomini una partita che dovrebbe avere, invece degli highlight, un timelapse della difesa interista geometrica e stretta con lo sciame catalano che si affaccenda tutto intorno. L’Inter si qualifica, poi vince la finale.

Guardiola e Mourinho si rivedono all'incontro per gli allenatori UEFA a Nyon all’inizio della stagione successiva: Mourinho va incontro a Guardiola, si mettono a chiacchierare. Dopo, Guardiola incontra pure Ferguson, che pensando all’impatto che avrà l’ex allenatore dell’Inter e del Chelsea nella Liga dice a Pep: “Mourinho sta venendo a prenderti!”

“Non può essere tanto malvagio”.

“Io vivo meglio ora”.

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Comincia la stagione, prima conferenza stampa: “Mourinho mi renderà migliore come allenatore. È importante che lui lavori in Spagna perché è uno dei migliori al mondo. Ci renderà tutti migliori”.

Mourinho vede che il Barcellona crea soggezione negli avversari come negli arbitri e si appresta a scatenare la stampa per togliere da sotto i piedi al tiki taka il velluto sui cui è abituato a scorrere. Tra le strategie: far crescere l’erba e non innaffiare il campo prima della partita; provocare in campo e in conferenza stampa, trasformando il Real in una squadra poco regale di sfidanti affamati, come già gli è riuscito all’Uniao Leiria, al Porto, al Chelsea e all’Inter: ognuna di queste squadre aveva un buon motivo per sentirsi sfidante e cenerentola: il Leiria perché lo era, il Chelsea perché la Premier apparteneva a Man Utd e Arsenal, l’Inter perché si diceva che vincesse solo perché non c’era la Juve e solo l’Europa poteva confutare questa teoria. Il madridismo però non è pronto.

Perde il primo Clàsico di campionato 5-0. Pareggia il ritorno, ma è metà aprile, il Barca è quasi campione. Quattro giorni dopo, il 20, le due squadre giocano la finale di Copa del Rey al Mestalla di Valencia. Mourinho alza il trivote di centrocampo e fa un pressing più alto, con un insolito Ozil falso nove. Partita paralizzata, gol di testa di Cristiano Ronaldo nei supplementari, quando di regola i giocatori di JM hanno ancora le forze e gli altri meno. Guardiola perde la prima finale da allenatore, alla decima occasione. Mourinho ha creato un’atmosfera per cui i nazionali spagnoli di entrambe le squadre, che vengono dalla vittoria all’europeo e quella al mondiale, a malapena si salutano.

Rientrato in spogliatoio, Messi si siede per terra e comincia a piangere.

L’indomani, Guardiola parla a un amico: “Non hai idea di quanto sia difficile tutto questo”. A un altro: “Smetto qui, ne ho abbastanza”.

Una settimana dopo sono costretti a sfidarsi per l’andata della semifinale di Champions. Guardiola si lascia trascinare nella polemica sulla selezione degli arbitri. JM capisce che l’avversario sta perdendo la calma e alza il livello: “A parte la nomina dell'arbitro e la pressione che ha fatto affinché Proença non venisse scelto, la cosa più importante è che siamo di fronte a una nuova era. Fino ad ora c'erano due tipi di allenatori. Un gruppo molto, molto piccolo di allenatori che non parlano di arbitri e un grande gruppo di allenatori, del quale io faccio parte, che criticano gli arbitri quando commettono errori – gente come me che non sa controllare la sua frustrazione, ma che è anche felice di valutare positivamente un lavoro ben fatto da parte dell'arbitro. Ora, con la dichiarazione di Pep dell'altro giorno, stiamo entrando in una nuova era con un terzo gruppo, che per il momento include solo lui, che critica la decisione corretta di un arbitro. Questa è una cosa che non si è mai vista nel mondo del calcio”. Qui JM alza molto la posta perché Guardiola aveva solo commentato che l’avversario sarebbe stato felice della eventuale designazione dell’arbitro Proenca.

Quando è il suo turno, Guardiola non può fare a meno di notare il passaggio al soprannome: “Siccome il Signor Mourinho ha menzionato il mio nome, chiamandomi Pep, io lo chiamerò José”. Si guarda intorno. “Non so quale sia la telecamera del signor José. Probabilmente lo sono tutte. Domani alle 20:45 giocheremo una partita su quel campo. Fuori dal campo, lui vince sempre, da tutto l'anno, da tutta la stagione e lo farà anche in futuro. Gli concedo la sua personale Champions League fuori dal campo. Mi sta bene. Che se la goda, gliela lasceremo. Può portarsela a casa e godersela… Potremmo stilare anche noi la nostra lista di lamentele. Potremmo tirare fuori Stamford Bridge o 250.000 altre cose, ma noi non abbiamo segretarie ed ex arbitri o dirigenti nel nostro staff che tengono nota di certe scuse. Per questo... ci resta solo la possibilità di andare in campo in questo stadio domani alle 20:45 e cercare di giocare il miglior calcio possibile.

“In questa stanza, lui è el puto amo, il fottuto boss, el puto jefe, il fottuto capo.

“Lui sa come funziona il mondo meglio di chiunque altro. Non voglio competere con lui in questa arena neanche per un secondo.

“Vorrei solo ricordargli che siamo stati insieme, lui e io, per quattro anni. Lui conosce me e io conosco lui. Questo è abbastanza per me. Se preferisce lasciarsi andare a dichiarazioni e accuse di giornalisti della carta stampata e della stampa amica del presidente Don Florentino Pérez sulla Copa del Rey e dare più importanza a quello che loro scrivono rispetto all'amicizia, be’, no, non proprio l'amicizia, ma la relazione lavorativa che lui ed io abbiamo avuto, è nei suoi diritti”.

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Il Barca va in finale e vince la Champions. Il Real non arrivava in semifinale dal 2003, l’anno dopo aver vinto la nona coppa dei campioni.

Si rivedono l’estate in Supercoppa, poi ai quarti di Copa del Rey, infine ad aprile del 2012: il Real vince a Barcellona e va a sette punti di vantaggio con quattro giornate rimaste. Poco dopo Guardiola perderà la semifinale di Champions contro il Chelsea, e darà l’addio alla squadra. Mourinho vincerà la Liga.

Guardiola dirà poi: “Non ne ho un ricordo piacevole, sia nelle vittorie che nelle sconfitte. Ci sono sempre stati dei motivi non legati al campo che rimarranno per sempre incomprensibili, almeno per me”. E anche: “Non sono partite che ho apprezzato particolarmente, né nella vittoria né nella sconfitta. C’era sempre qualcosa che mi lasciava un retrogusto amaro in bocca”. A un amico ha detto: “Mourinho ha vinto la guerra”.

Wenger ha un vero problema con noi. Penso che lui sia quello che in Inghilterra chiamano Voyeur.

Documentario

Al terzo anno di Mourinho, il Chelsea non ha vinto la Premier ed è uscito dalla Champions in semifinale, di nuovo col Liverpool, stavolta ai rigori. La quarta stagione al Chelsea comincia più lenta del solito, e Mourinho, seguace delle idee di Bela Guttman, allenatore che teorizzava che il periodo ideale per un ciclo allenatore-squadra è di tre anni, sente che la tensione della squadra sta sfuggendo.

Dopo un 1-1 di coppa in casa col Rosenborg, a metà settembre, la dirigenza del Chelsea indice una riunione con JM nell’ufficio di Peter Kenyon a Stanford Bridge. La riunione viene sospesa per andare con i giocatori alla prima di Blue Revolution, al Vue Cinema di Fulham. Mourinho abbraccia forte i suoi giocatori senza spiegarsi.

Guardano il film: il documentario celebrativo si apre con un tassista della zona che racconta la sua storia personale di tifoso. Atmosfera britpop, tante immagini di quartiere. Dice il tassista: “Il Chelsea era percepito come una squadra di star players che giocano un grande calcio ma non vincono… Tanti anni di delusioni, di promesse mai mantenute”.

Poi titolo di pagina che annuncia l’acquisto della squadra da parte di Roman Abramovic. Peter Kenyon lo ricorda con trasporto. In una ricercata ripresa bassa da bordocampo, un cameraman riesce a inquadrare sia Ranieri in piedi nell’area tecnica, sia Abramovic in tribuna. Kenyon: “Il mio primo lavoro è stato valutare cosa avevamo a disposizione, e onestamente, dopo la prima partita ho pensato che Ranieri non fosse adatto. Abbiamo preso Jose Mourinho. That guy was different”. Segue la celebre conferenza stampa: “Please don’t call me arrogant… sono campione europeo… I am a special one”.

Dopo il film, la riunione riprende e Mourinho accetta la proposta di separazione consensuale. Abramovic gli sta per regalare una Ferrari Scaglietti, la sola Ferrari a quattro posti, per la famiglia. Tra le nove e mezzo e l’una di notte Mourinho telefona a tutti i giocatori, uno per uno, per dare personalmente la notizia.

A me non piace la prostituzione intellettuale, a me piace l'onestà intellettuale.

Metti la cera, togli la cera

I libri su di lui di solito sfiorano o l’agiografia o la calunnia pura e semplice, ma tra quelli che ho letto ce ne sono alcuni che si distaccano dal solito racconto più o meno approssimativo delle imprese di un allenatore. Alcuni sono lezioni di leadership date a partire da come JM gestisce la sua squadra e l’opinione pubblica. Alla base di questa leadership, però, c’è una lezione difficile da replicare fuori dallo sport: la creazione, attraverso l’allenamento, di una certa struttura mentale, psicofisica, nei suoi giocatori. La lealtà che molti di loro gli dimostrano, e l’affetto, nasce dalle attenzioni che JM ha per i suoi giocatori (l’abbraccio con Materazzi a Madrid dopo la finale di Champions dipende anche dal fatto che JM l’ha fatto entrare negli ultimi minuti perché Materazzi potesse dire di aver giocato la finale dei mondiali e ora questa), ma tutto si consolida nel modo in cui gestisce l’allenamento. Gli allenamenti di JM sono concepiti per creare una tensione psicofisica e un rapporto con la squadra e il suo leader. Due libri molto interessanti discutono del modo in cui Mourinho allena le squadre: L’alieno Mourinho di Sandro Modeo (Isbn) e Mourinho. Questione di metodo (Marco Tropea), di Oliveira, Resende, Ameiro, Barreto.

JM è l’unico vero allenatore personaggio. Forse, non avendo mai goduto della fama di un calciatore – come invece i suoi rivali Guardiola e Ancelotti – vuole godersi un po’ del glamour che gli dona tanto. Ma la prefazione di Questione di metodo è scritta da un neuroscienziato. D’altra parte, Modeo, autore di L’alieno Mourinho, è anche saggista scientifico.

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Antonio Damasio è noto per delle scoperte nel campo dei circuiti corticali e sottocorticali che ci permettono di riconoscere volti e oggetti. È chiamato in causa per un libro sul metodo di Mourinho perché ha studiato gli aspetti neuroanatomici e neurobiologici che connettono emozione e processo decisionale. Secondo lui, Mou imposta il lavoro con la squadra su questa “associazione neuropsicologica (localizzata nella corteccia prefrontale)”. I suoi allenamenti sono “un’avventura carica di affetti e stati emotivi”.

Damasio ritiene Mourinho una specie di applicazione pratica delle sue teorie neuroscientifiche: gli allenamenti di JM muovono dall’idea che la mente conosca e capisca (gli schemi, il gioco) attraverso il corpo e attraverso l’emozione. JM è contrario a un tipo di allenamento schematico, astratto, alienante, perché nell’allenamento il calciatore prepara la combinazione di emozione, gesto atletico e decisione tattica che in partita produce una grande performance. Perciò l’allenamento dev’essere teso, stimolante, e sempre col pallone, fin dal riscaldamento.

Nel suo TED Talk sulla mappatura del cervello, Damasio cerca di presentare a un pubblico non esperto l’idea fondamentale dei suoi studi. “Nel tronco encefalico ci sono … moduli che creano mappe cerebrali dei diversi aspetti … del nostro corpo. Sono squisitamente topografici e sono squisitamente interconnessi secondo schemi ricorsivi. Ed è da questo stretto accoppiamento di tronco encefalico e corpo che credo – e potrei sbagliarmi, ma penso di non sbagliarmi – che noi generiamo questa mappatura del corpo che fornisce il fondamento del sé, e questo fondamento prende la forma di emozioni, di emozioni primordiali”.

Il corpo e la mente sono collegate, secondo Damasio e Mourinho, dall’emozione. “La corteccia cerebrale … fornisce il grande spettacolo delle nostre menti, con la profusione di immagini che sono, in effetti, i contenuti delle nostre menti e le cose a cui di solito prestiamo più attenzione, ed è giusto che sia così, perché quello è proprio il film che scorre nelle nostre menti. … Non potete avere una mente cosciente se non avete l’interazione tra corteccia cerebrale e tronco encefalico. Non potete avere una mente cosciente se non avete l’interazione tra tronco encefalico e corpo”. Quindi le nostre immagini mentali e il nostro corpo lavorano molto strettamente. Questa triangolazione di corpo, emozione e mente ha convinto Mourinho che “la struttura degli eventi dell’allenamento deve riflettere la struttura degli eventi della partita”.

Non sono il migliore del mondo, ma penso che nessuno sia meglio di me.

Gli allenamenti di Mourinho sono simulazioni della partita, durano novanta minuti, contro il concetto di carichi di lavoro. Mai isolato lavoro fisico e calcistico. Intensità più che quantità, perché l’intensità produce una risposta emotiva nel calciatore. L’esercizio deve durare novanta minuti al massimo di esercizi di squadra, perché l’esercizio deve preparare alla dimensione emotiva della partita e bisogna creare una specie di memoria fisica della partita intesa come contesto e sua durata precisa.

Ad accompagnarlo nell’organizzazione degli allenamenti da sempre c’è Rui Faria. Si sono conosciuti così: hanno studiato entrambi Scienze dell’Attività Fisica e dello Sport. Rui, più giovane di dodici anni, telefona al Barcellona, JM è allenatore in seconda e gli risponde al telefono: “Per quanto ti spieghi al telefono, è più utile che tu lo veda… Sarà più facile. Vieni a Barcellona e potrai osservare il nostro lavoro con i tuoi occhi”. Faria vuole scrivere una tesi sui metodi di allenamento.

Poi lo invita a spedirgli la tesi. A Mourinho piace. Appena diventa allenatore dell’Uniao Leiria, lo chiama come preparatore di allenamento. È il 2001-02, da allora hanno sempre lavorato insieme.

Faria: “Ha mai visto un pianista correre intorno al piano? Allora non bisogna correre intorno al campo. Bisogna lavorare sulla tattica”.

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Con Mourinho si lavora sulla “memoria di lavoro”, sull’inconscio operativo, quello che ti fa ricordare come si va in bici o sugli sci. Stipare schemi nel cervello è alienante. Il giocatore va allenato a prendere decisioni nello stretto, con gli avversari addosso e i compagni intorno a dettare il passaggio. Bisogna imparare a usare naturalmente un sistema, a interiorizzarlo. “Lo schema in sé (combinazioni fisse, scalate sistematiche, tagli e incroci seriali in attacco) conferisce sicurezza finché tutto fila liscio, ma non allena alla plasticità situazionale…” È una “ginnastica della previsione mentale”.

Questa ginnastica va curata bene, con una gradazione delle sedute. Bisogna allenarsi al risparmio di energie fisiche ma pure di energie mentali (il gol preso da Gerrard… il gol nei minuti finali, saper tenere il vantaggio).

Se si gioca nel weekend, e non c’è l’Europa, il mercoledì e giovedì si fanno le sedute dure, venerdì quella leggera, tutta dedicata all’esecuzione motoria. “In ogni azione individuale sul campo, due terzi del tempo sono impiegati dalla presa di coscienza e dalla decisione, un terzo dall’esecuzione. È come se Mourinho allenasse il mercoledì e il giovedì i due terzi iniziali, il venerdì il terzo rimanente”.

Il giovedì ci si allena alle situazioni di gioco più complesse, che richiedono attenzione e concentrazione, concentrazione decisionale. “I processi decisionali comportano un consumo non solo cognitivo ma anche emotivo, dato che sollecitano circuiti cerebrali estesi e dispendiosi … a cui va sommato il consumo delle aree specifiche dell’attenzione (lobo parietale posteriore, campi oculari frontali, e altre ancora).” “il cervello razionale sbaglia quando è ‘stanco di pensare’, così come i giocatori male allenati sbagliano a fine partita o nei supplementari” (Gerrard che scivola).

Il metodo è diviso in due: gioco con la palla ed esercizi aerobici. Mou non ama la corsa perché è di “complessità nulla”. Le sessioni di controllo palla, con combinazioni diverse di squadre, spesso non in parità numerica. Sono queste che durano novanta minuti.

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Un esercizio stupendo degli allenamenti di M: due squadre si confrontano in uno spazio stretto con lo stesso numero di giocatori. Una squadra rimane in inferiorità numerica, a un certo momento, mentre il giocatore chiamato fuori deve correre fino a un punto lontano del campo d’allenamento e tornare indietro, mettendoci il meno possibile per poter restituire quanto prima la parità numerica ai compagni, che intanto devono aumentare l’intensità per giocare in inferiorità.

I giocatori sono abituati ad allenarsi in dieci contro undici. Pepe su una espulsione nel 2010/11 di Casillas a due minuti dall’inizio, contro l’Espanyol: “Quando Iker è stato espulso, Mourinho ci ha detto di applicare una tattica che avevamo provato in allenamento. Ci siamo chiusi in una specie di piramide e sono stati costretti a giocare sull’esterno, a passare sempre la palla indietro e fare le diagonali”.

Il venerdì, sessioni leggere per riposarsi da tutto ciò ed evitare l’accumulo di stress, si praticano gli esercizi di esecuzione motoria, che “sollecitano prevalentemente la corteccia motoria e premotoria (in una dinamica in cui è attivo soprattutto il cervelletto), in modo da preservare quella prefrontale e i relativi sforzi ‘associativi’”.

Pensiero magico e scienza

Vitor Baia racconta un Benfica Porto del 2002-03: “Prima della partita arrivò a dire quale sarebbe stata la formazione del Benfica e che cosa sarebbe successo nel caso in cui avessimo segnato per primi. ‘Sapete già che Camacho (…) mette sempre Sokota quando si trova in svantaggio, perciò dobbiamo adattarci di conseguenza…’ E aggiunse: ‘Nel caso che un giocatore rivale venga espulso, ecco cosa faremo’.” Il Porto segna con Deco nel primo tempo, Camacho fa entrare Sokota dieci minuti dopo, il Porto vince uno a zero.

Nel campionato italiano 2009-10, contro il Siena a inizio gennaio, l’Inter sta perdendo 2-3 in casa. È la 19° giornata di un campionato che si deciderà all’ultima giornata con un vantaggio dell’Inter sopra la Roma di soli due punti.

Negli ultimi minuti, per aumentare la pressione Mourinho sposta Walter Samuel in attacco. All’ottantottesimo segna Sneijder su punizione.

Dopo il gol, Samuel chiede se può tornare dietro. JM gli urla: “No, resta lì! resta lì!” Al novantatreesimo, riceve la palla al limite dell’area, sul sinistro e spalle alla porta, ma mentre la aggancia ruota col corpo in senso antiorario per guardare il portiere e staccarsi dal marcatore: raggiunta la visione, incrocia con il sinistro, palo gol. Finisce 4-3. Vedere il filmato fa diventare interisti.

Sempre quel mese di gennaio, il derby: nell’intervallo sono in vantaggio vincono 1-0, con Lucio ammonito e Sneijder espulso per aver contestato il giallo a Lucio. Moratti scende in spogliatoio e li trova stranamente tranquilli. Il discorso dell’allenatore è il seguente: “Quelli del Milan si innervosiranno, perché non riusciranno a farci gol in 11 contro 10; allora noi approfitteremo dell’occasione, faremo un altro gol e vinceremo 2-0”. Nella ripresa segna Pandev su punizione.

Calcio per ragazzi

Nel 2008 JM ha registrato un programma televisivo portoghese di un’ora abbondante in cui è ripreso sul campo con dei ragazzi e insegna e mette in pratica alcuni dei suoi esercizi di squadra. Il Mourinho pedagogo è il Mourinho più assorbito dal calcio. L’ambiguità della sua posizione pubblica, dove non si capisce mai se le esagerazioni sono una strategia per allontanare l’attenzione dai giocatori o un mezzo per ottenere attenzione, si allontana sullo sfondo e troviamo finalmente il JM studioso del rapporto corpo-mente, il JM insegnante di educazione fisica.

La trasmissione si chiama Football for Kids. In apertura, JM dichiara qualcosa che riporta tutta la sua formazione a seconda dei punti di vista sana o conservatrice, di famiglia salazarista ultracattolica. “Credo sia importantissimo in futuro avere un buon giocatore, o almeno un buon uomo, pronto ad avere successo in qualunque area. Non essere frustrati perché erano concentrati solo sul calcio. Devono godersi il gioco. Parlo per me. Quando [ero piccolo] non sognavo di essere un bravo allenatore. Sognavo di essere un bravo calciatore. E non lo ero. E la vita non era un sogno. Cercai nuove motivazioni e ora sono quello che sono”. JM ha smesso di giocare a calcio intorno ai venticinque anni, quando era leader dello spogliatoio di una squadra che non lo pagava per giocare. “E anche se non fossi stato un bravo allenatore avrei potuto avere successo in una vita diversa mantenendo l’amore per il gioco. A questo livello una cosa è chiara: non tutti i ragazzi coinvolti in una squadra di calcio diventeranno calciatori. Ma tutti diventeranno uomini. Tutti loro a prescindere dal loro futuro professionale in qualunque area avranno bisogno di cooperare con la gente, di comunicare, sostenere gli altri. Credo che sia questo ciò che il calcio può darti. E ti rimane per la vita”.

Si parte subito da un esercizio di riscaldamento, con coppie di giocatori disposti in tre angoli di un triangolo: si corre da un punto all’altro, ci si passa la palla. “se [ti riscaldi] solo correndo (riscaldamento), perdi tempo a non praticare il palleggio”.

“Credo sia sbagliatissimo quando coi ragazzi cominci con quindici venti minuti di riscaldamento: così fai praticamente quello che i ragazzini fanno a scuola. A scuola hanno educazione fisica, fanno quello, ma quando vai in una squadra è perché ami il gioco e vuoi sviluppare le qualità nel gioco”.

“Un altro aspetto cruciale è la ricerca rapida [del compagno]. Sento sempre che uno dei grandi problemi del gioco è quando il gioco diventa intenso e non c’è molto tempo per i giocatori per decidere… Quando le squadre accorciano gli spazi e l’intensità è alta è più difficile pensare, è più difficile scegliere bene, essere corretti di fronte alle opzioni. Questo è un esercizio molto semplice ma con un contesto molto ricco”.

L’esercizio che mi piace di più è il terzo: un quadrato di una ventina di metri per lato è diviso in 4 quadrati entro un quadrato più grande. Due squadre da quattro mettono ciascuna un giocatore in ogni settore: devono giocare quattro contro quattro a togliersi la palla a vicenda. Ognuno resta nel proprio quadrato. Ma ci sono due giocatori in più, due jolly, che stanno di volta in volta con i 4 che hanno il possesso. I due jolly, con una maglia di un terzo colore, possono correre in tutte e quattro le zone per andare a creare superiorità numerica per la squadra che ha il possesso. “I due in blu, i jolly, sono quelli che hanno tendenza al gioco di centrocampo: più tocchi, più capacità di organizzare”. È come un torello dinamico. “È un esercizio tattico, ma anche tecnico (richiede controllo e coordinazione), e fisico (è impegnativo)…”

“Ho bisogno di molto movimento per creare superiorità… Scattano, cambiano direzione, non si possono fermare. Anche i giocatori non coinvolti direttamente con la palla devono essere in movimento permanente per ricevere la palla o controllare il movimento dei giocatori che vogliono ricevere la palla”.

Sarei un mediocre? Rispetto le opioni di tutti. Anche quelle di Zeman. Scusi, ma dove gioca questo Zeman? Lo Cercherò su Google.

Vuoi dell'acqua, vero?

Il suo primo lavoro da allenatore è al Benfica, che rileva da Jupp Heynckes nell’autunno del 2000 quattro giornate di campionato. Per schiarirsi le idee, organizza un’amichevole d’allenamento fra la squadra B e quelli della prima squadra che non avevano giocato l’ultima di campionato. Fra loro c’è Maniche, ventiduenne, unico prodotto del vivaio. Comincia la partita e Maniche entra da dietro su un avversario della squadra B che gli ha rubato palla. L’arbitro, cui è stato chiesto di prendere l’allenamento come una partita a tutti gli effetti, lo espelle.

Dalla tribuna, dove ha preso posto per guardare la partita dall’alto, JM manda via cellulare l’ordine che Maniche faccia dei giri di corsa intorno al campo. Maniche si rifiuta, poi dopo dieci minuti si arrende, ma corre così lento che trequarti d’ora dopo viene mandato sotto la doccia.

Il giorno dopo JM parla alla squadra: “Maniche sta male fisicamente”.

“Non è vero, Mister”

“Sì invece. Un giocatore che fa due giri di campo in 45 minuti non può giocare, sta molto male fisicamente, perciò d’ora in poi ti allenerai a mezzogiorno [da solo] finché non torni in forma e rientri nel gruppo”.

Secondo un’altra versione della storia – sono entrambe apocrife – l’allenatore avrebbe detto: “Ieri ci hai messo quarantacinque minuti per correre ottocento metri. Ciò significa che hai o un problema mentale che va risolto oppure un problema fisico ugualmente da risolvere. Perciò ti alleni con la squadra B e quando ritieni di non avere più nessun problema mentale o fisico vieni a trovarmi”.

Questa seconda versione, del biografo ufficiale di JM, Lourenco, tiene maggior conto della teologia mourinhana: il problema di Maniche è trattato olisticamente, come problema del corpo e della mente insieme.

Dopo quattro giorni nella squadra B, Maniche va a chiedere scusa al Mister. Viene multato e reintegrato in squadra. Nella partita del suo ritorno, si ritrova segnato sulla lista come capitano. Siccome stenta a crederci, riceve il sermone di JM: è importante essere l’unico del vivaio, deve dare l’esempio.

“Mi ha aiutato a prendermi la responsabilità. Quella punizione mi ha fatto riflettere e cambiare modo di essere”. Aveva 22 anni. Avrebbe rigiocato con JM nel Porto, nel Chelsea, nell’Inter.

Damasio: “Nelle circostanze più felici di leadership, si trova anche un altro fattore che solo in parte è attribuibile alla preparazione e alle intenzioni del leader: il desiderio di ripagare la fiducia del capo e quello quasi infantile di dedicargli la vittoria. È un desiderio che rinforza e potenzia quello di non deludere il gruppo. Ne consegue che i grandi leader sono anche, con una certa frequenza, manipolatori delle emozioni di coloro che sono guidati”.

JM lascia il Benfica dopo otto partite perché non va d’accordo con il nuovo presidente eletto. Lo assumono all’Uniao de Leiria. Appena arrivato, abolisce la tradizionale partita amichevole con la squadra di giornalisti locali. Per motivare i giocatori – non potendo promettere trofei come in futuro farà sempre ovunque andrà – dichiara: “State sicuri che prima o poi andrò in un grande club. E quando ci andrò, alcuni di voi verranno con me”. Ai giornalisti chiosa: “Con quattro giocatori della Uniao de Leiria renderei campione il Benfica”, dando a intendere che potrebbe tornare nella squadra dell’anno prima.

Damasio: “A prima vista, il funzionamento di un’orchestra, di una squadra sportiva, di un’equipe scientifica o di una nazione sembrerebbero incomparabilmente diversi. Ma può anche darsi che alcuni meccanismi che si celano dietro alle apparenze così differenti si assomiglino più di quanto sembri. Si tratta del modo in cui una pluralità di attori si comporta nei confronti di un progetto comune, come se fossero una singola entità, pur mantenendo le rispettive caratteristiche individuali”.

Porterà l’Uniao per la prima volta al quinto posto del campionato portoghese. L’anno dopo andò al porto e si portò dietro Maniche, Nuno Valente e Derlei.

Al Porto introduce la “bibbia”, un powerpoint motivazionale: “Il concetto di club è superiore a qualsiasi giocatore”. “Ogni allenamento, ogni partita e ogni minuto della vostra vita sociale deve ruotare intorno all’obiettivo di essere campioni”. “Motivazione + Ambizione + Squadra + Spirito = SUCCESSO”. “Titolare non sarà la parola corretta. Ho bisogno di ciascuno di voi. Voi avete bisogno ciascuno degli altri. Siamo una SQUADRA”. Convince il presidente Pinto da Costa a non ribattezzare il nuovo stadio “Stadio da Costa” Ma “Stadio del Drago”, che è il simbolo della squadra. Vince la Champions.

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Al Chelsea nei primi colloqui prende da parte i giocatori e capita che a uno dica: “Ehi, nelle ultime due stagioni solo undici partite: perché? Giochi niente, non ti alleni, non dormi, sei sempre infortunato. Dici che l’allenatore era una merda, era razzista e gli stavi antipatico?”

A Lampard dice che è il centrocampista più forte del mondo. A Drogba ancora giocatore dell’Olympique Marsiglia, dice che se viene a giocare al Chelsea farà di lui uno dei più forti attaccanti.

“José Mourinho utilizza tutte le armi della persuasione … inserendole nella narrazione emotiva del suo training proprio per plasmare le emozioni e i sentimenti dei suoi giocatori. È un punto controverso perché sebbene lo stesso Damasio [rassicuri] sul fatto che utilizzare questi metodi sia lecito in ogni ambito ‘moralmente neutrale’, la manipolazione di emozioni in Mourinho è al servizio dell’imperativo categorico amorale per definizione: la vittoria”.

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Ultima partita della stagione 2008-09, l’Inter è campione da due giornate al primo anno di JM. Sta serenamente perdendo in casa 2-3, ma Ibra ha bisogno di un secondo gol contro l’Atalanta per diventare capocannoniere, superando il parimerito a 24 gol con Di Vaio e Milito, che l’anno dopo lo sostituirà e segnerà la doppietta decisiva nella finale di coppa dei campioni.

Rui Faria: “Ricordo che … Balotelli invece di passare la palla a Ibra, che era in buona posizione, ha tirato in porta. La reazione immediata dello svedese è stata di chiedere il cambio. L’ha chiesto diverse volte. Sembrava un comportamento immaturo e forse con un altro allenatore sarebbe arrivata la sostituzione immediata e una punizione.

“In panchina, Zé [il nomignolo di JM] ha reso abbondantemente chiaro che non capiva cosa stesse chiedendo il giocatore. Poi è venuto verso di noi e ha detto: ‘Guardatelo un po’, cosa vuole?’ Quando Ibrahimovic si è avvicinato alla panchina per mettere in parole quel che aveva ripetuto diverse volte a gesti, Zé gli ha detto: “Vuoi dell’acqua, vero?’. E gli ha lanciato una bottiglietta. Ha ignorato la sua richiesta ancora. Ibrahimovic è rimasto confuso e poco dopo, all’ottantunesimo, ha segnato il gol che gli serviva per diventare capocannoniere”.

Rui Faria non aggiunge due dettagli ognuno fantastico a suo modo: Ibra segna di tacco dentro l’area in cui aveva ricevuto palla fronte alla porta, fra due difensori, per poi voltarsi, proteggere la palla e tirare alla cieca. Secondo dettaglio: a JM serviva un attaccante concentrato perché erano rimasti per un pezzo sul 2-3 e quella sconfitta, per quanto inutile, avrebbe interrotto la striscia di risultati utili consecutivi in casa che in tutto sarebbe invece durata nove anni e 151 partite, concludendosi naturalmente nel velenoso Santiago Bernabeu, quasi due anni dopo.

Lo Monaco? Io conosco il monaco del Tibet, il principato di Monaco, il Bayern di Monaco, il Grand Prix di Monaco, non ne conosco altri.

Happy

Non è un caso che sia finita lì. Il complesso sistema di motivazione e creazione del mito della squadra si interrompe nella società sportiva troppo grande per essere mai squadra. Il Real Madrid, dove gli eroi locali come Valdano, Casillas, Sergio Ramos, non hanno mai aspettato un salvatore della patria (e infatti l’anno dopo l’uscita di Mou, il secondo in finale di Champions ha fatto una papera che è stata decisiva fino alla fine del tempo regolamentare e alla fine però non ha perso, il terzo ha segnato il pareggio al terzo minuto di recupero e hanno vinto la Decima coppa ai supplementari) hanno contraddetto il suo metodo.

Se n’è andato per la prima volta da un posto che non lo ha riconosciuto come leader anche se il presidente aveva per lui cacciato Valdano. Lo scrittore Javier Mariàs, noto sulla pagina per la sua sensibilità, attacca Mourinho su El Pais: "È uno sciamano da sagra… Un individuo che non sa di calcio e che tratta il Madrid senza attenzione, che non ha remore nel tradire la sua centenaria tradizione né nello sporcarlo con una macchia che sarà difficile cancellare. Il suo Madrid è una squadra con buoni giocatori ai quali chiede di giocare in maniera brutta e cattiva; con attaccanti eccellenti a cui, nelle partite chiave, non permette di attaccare; con giocatori d’onore – la maggioranza – che obbliga a comportarsi in maniera brutale e disonesta; giocatori che, grazie al suo noto e infinito risentimento e al suo potere quasi assoluto, schiaccia sotto un regime di terrore”.

La notte dell’uscita dalla Champions in semifinale per il terzo anno su tre al Real, stavolta con il Borussia Dortmund, e dopo una rimonta quasi riuscita nel ritorno, intervistato da Gabriel Clarke di ITV, dopo averlo ascoltato guardando in alto e stringendo le labbra, preparandosi a dirla grossa, all’incoraggiamento dell’inglese, “Magari la prossima stagione”, Mourinho risponde “Magari no…” e poi: “Voglio essere dove amo essere e dove la gente ama che io sia”. E dopo, in conferenza stampa: “So che in Inghilterra sono amato. Sono amato dai fan, sono amato dai media che mi trattano in modo corretto, criticandomi ma pure dandomi credito quando lo merito. So che sono amato da alcuni club, uno in particolare, e in Spagna la situazione è un po’ diversa, perché la gente mi odia. Tra cui molti di voi che siete in questa stanza”.

Solo uno tra ventuno non voleva darmi la laurea honoris causa. È normale, neanche Gesù piaceva a tutti.

Odio la mia vita sociale

“Odio la mia vita sociale. Odio non poter essere un padre normale che va col figlio a vedere le sue partite, insieme agli altri padri… [Se ci vado] la gente viene a farmi le foto, a insultarmi, a mettersi dietro la porta di mio figlio per insultare lui…

“Lo dico sempre: quando vinco, e quando perdo. Dico questo, sulla Champions League. C’è un limite in cui la differenza tra vincere e non vincere si fa molto sottile, per cui non lo considero un fallimento. Ma [se non vinco la Champions con il Real] il mondo lo vedrà come un fallimento. Perché ho vinto tante volte, e portato tanti successi alle mie squadre”.

Tempo dopo, prima della semifinale del Chelsea contro l’Atletico del 2014, il 29 aprile, il giorno prima della partita di ritorno a Londra, dopo lo 0-0 a Madrid, il Guardian titola sadicamente: Not so special: I cinque flop di José Mourinho nelle semifinali di Champions.

Il Chelsea perderà in casa 1-3 il giorno dopo, ma tra il 2003-04 e il 2014-15, in dodici stagioni, JM è arrivato alle semifinali di Champions League, ossia tra le prime quattro squadre d’Europa, otto volte.

C’è un limite in cui la differenza tra vincere e non vincere si fa molto sottile. “Il mondo il calcio è un’industria in cui la gente ha la memoria corta. Per cui per me la misura del mio successo è se vinco la prossima partita”.

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A marzo del 2015 vince il suo primo trofeo dopo quasi tre anni e viene criticato per averlo festeggiato con troppo entusiasmo. È la Capital One Cup, la coppa di lega, terzo trofeo nazionale per importanza: il premio è di centomila sterline contro i due milioni della FA Cup.

Ho cominciato nel 2000. Ho vinto la coppa Uefa nel 2003, la Champions League nel 2004. Non ho avuto tempo per rendermi conto. Ora sono andato in una direzione diversa, con due stagioni senza un trofeo, e mi sono parsi vent’anni. È un bel problema da avere, la sensazione che due anni siano tanti. È una bella sensazione.

“Per me è importante sentirmi un ragazzino. Prima della partita avevo le stesse emozioni della mia prima finale, anche se sono passati tanti anni. È importante sentire la stessa felicità dopo una vittoria e sentirsi un ragazzino a cinquantadue anni.

“So che ho una squadra da costruire, che è quel che stiamo facendo, ma per me è difficile vivere senza titoli, anche con tutto il lavoro che stiamo facendo per conquistare stabilità. Devo nutrirmi di titoli. È importante per me e per i ragazzi. Per il club è solo un’altra coppa, ma è la prima di una nuova squadra”.

Due mesi dopo, con tre giornate d’anticipo, vince la Premier League.

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Francesco Pacifico scrive su IL e Repubblica e il suo ultimo romanzo è "Class - Vite infelici di romani mantenuti a New York" (Mondadori 2014).

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Letture consigliate

  • Guillem Balagué, Pep Guardiola. Un altro modo di vincere, Libreria dello Sport, 2013
  • Ciaran Kelly, The Rise of the Translator, Bennion Kearny Limited, 2013
  • Luís Lourenço, Mourinho, Mondadori, 2008
  • Luís Lourenço, José Mourinho, Special Leadership: Creating and Managing Successful Teams, Prime Books, 2014
  • Sandro Modeo, L’alieno Mourinho, ISBN Edizioni, 2010
  • Martì Perarnau, Herr Pep, Libreria dello Sport, 2015
  • Diego Torres, The Special One, HarperSport, 2014
  • Juan C. Cubeiro, Leonor Callardo, Coaching Mourinho. Tecniche e strategie vincenti del più grande allenatore del mondo, Avallardi, 2012
  • Luis Miguel Pereira, Nuno Luz, Mourinho, Happy & Special: The Secrets Behind His Success, Prime Books, 2014
  • Bruno Oliveira, Nuno Amierio, Nuno Resende, Ricardo Barreto, Antonio Damasio, Mourinho. Questione di metodo, Marco Tropea Editore, 2009