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Mourinho chiedeva calma, la Lazio ne ha avuta di più
27 set 2021
27 set 2021
La squadra di Sarri aveva idee più chiare.
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14 min
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Si dice che il derby a Roma “duri tutto l’anno”, come se la sua idea fosse incrostata sulle sedie di plastica dei bar, e da lì, come una muffa tossica, finisca per abitare i pensieri e le voci di chi ci si siede. È una di quelle riflessioni iperboliche con cui si vuole sottolineare l’importanza simbolica e psichica della partita, ma che a volte finisce per sminuirla. Se la città è presa in un derby che scorre eternamente tra le strade, come fare a rivestire della giusta gravità il singolo derby che si gioca in un singolo giorno, e cioè la partita in sé?

Se il derby dura tutto l’anno, questo derby - i contorni dei suoi significati - è cominciato in un momento preciso. Il 9 giugno la Lazio annuncia Maurizio Sarri come nuovo allenatore, al termine di una trattativa faticosa e seguita con preoccupazione ed emoji di sigarette dai suoi tifosi, ancora scossi dal “tradimento” di Simone Inzaghi. A quel punto la guerra ideologica tra Sarri e Mourinho è servita: il romantico rivoluzionario contro il cinico stratega, l’idealista offensivo contro il pragmatista difensivo, lo scorbutico fumatore contro lo scaltro comunicatore. Alla sua conferenza di presentazione Mourinho esordisce citando Marco Aurelio, nella sua Sarri ci tiene a dire che citerà soltanto sé stesso. La notte del 10 giugno alcuni tifosi della Lazio coprono il murales dedicato a Mourinho a Testaccio. Sopra la testa di Josè, sorridente e in vespa, compare una nuvola di fumo di sigaretta sbuffata da Sarri, in una dialettica di disegno e immagini tipica della furia iconoclasta di Roma. Le figure dei due allenatori si legano in modo contraddittorio all’immaginario dei due club: Mourinho alla Roma, una squadra legata a una narrazione fatalista di bella e perdente, anti-sistema per vocazione; Sarri alla Lazio, una squadra sempre attaccata a un certo realismo, che non ama ricoprirsi di eccessive storie e simbologie, che guarda con sospetto ai voli pindarici.

La stagione era iniziata come da sceneggiatura. La Lazio che fa 3 gol all’Empoli e 6 allo Spezia, che promette una stagione leggera e spettacolare; la Roma che vince soffrendo ma con carattere. Sarrilandia e dall’altra parte Mourinho che catalizza tutte le attenzioni, stende discorsi chilometrici in conferenza stampa, usa le parole col bilancino, in equilibrio precario tra l’alimentare l’entusiasmo e spegnerlo. Poi è arrivata la sosta a raffreddare gli animi, e quando sono arrivate 4 partite in 10 giorni sono sembrate troppe per le ambizioni di entrambe le squadre. La Lazio non ne ha vinta neanche una; la Roma ha subito la sua prima sconfitta, mostrando una condizione psico-fisica sempre più logora. Al termine dell’ultima partita dei giallorossi, un minuto prima del fischio finale, il cataclisma: la Roma che resiste alla pressione offensiva dell’Udinese, cercando di spazzare tutti i palloni lontani dalla propria area; Pellegrini che vede una palla alzarsi, salta col braccio un po’ largo, e quel braccio che incontra fortuitamente la testa di Samardzic, o il collo, non fa differenza: l’arbitro che estrae il secondo giallo, Pellegrini squalificato per la partita successiva. Il derby, a quel punto, è davvero cominciato.

Pellegrini è stato il giocatore più importante dell’inizio di stagione della Roma. Un giocatore tanto influente che Mourinho ne ha auspicato la clonazione. Pellegrini già, in effetti, uno e trino: fondamentale nel cucire il gioco tra fase difensiva e offensiva, nel rifinire l’azione e nel concluderla. 5 gol e 1 assist nelle prime 6 partite stagionali. Quello di ieri è stato il primo derby in assoluto giocato dal primo minuto senza calciatori nati nella provincia di Roma.

L’espulsione di Pellegrini ha aggiunto una nota oscura al volto di Mourinho davanti ai microfoni dopo la partita contro l’Udinese. Mourinho apparso stanco, stanchissimo, mentre si lamentava della crudeltà giuridica del calcio, dove a decidere della squalifica di un giocatore c’è un singolo uomo, ovvero l’arbitro. La Lazio, dall’altra parte, apparsa ancora più esangue dopo la partita con il Torino; demolita dal calcio satanico di Juric e capace di strappare un pareggio fortunoso solo all’ultimo minuto di gioco. Sarri - squalificato dopo il litigo alla fine della partita con il Milan - ha guardato la partita dalla tribuna, con l’aria stressata e la sigaretta in mano. Col passare delle partite ha visto la sua squadra perdere progressivamente il filo, anche solo una debole traccia da seguire: il pressing ossessivo di inizio anno si è via via spento, la costruzione bassa si è incartata sempre di più. Si diceva che la sconfitta col Milan avesse lasciato scorie, e contro il Torino si è consumato il climax di questo periodo negativo, con la squadra che è stata capace di appena 36 passaggi nella metà campo avversaria.

Quando le squadre scendono in campo alle 18 si respira una grande stanchezza. Il cielo sopra la città sembra assorbirne gli umori: un luce grigia proietta il campo in un orario indefinito; i giocatori annaspano in una cappa d’afa tropicale stonata a fine settembre. Dietro quest’angoscia, però, sembra poter divampare un’energia nervosa. Quella che rende in effetti il derby diverso da altre partite: una delle poche capace di sostenere le metafore guerriere con cui il calcio ama raccontarsi. Entrambe le tifoserie hanno approcciato la stagione con entusiasmo, ma sempre col sospetto che l’amarezza e la delusione fossero dietro l’angolo. Dietro quella stanchezza si nasconde la paura di scoprirsi, proprio nel derby, più fragili di quanto si voglia credere.

I venti minuti in cui la Lazio ha vinto la partita

I tifosi sbucano sugli spalti ed è quasi una sorpresa dopo un anno e mezzo di derby desertificati. La Lazio stende il vessillo dell’aquila imperiale, e sotto compare una strana scritta “ROMA”: gialla, con il font della Roma antica. Un richiamo così esplicito all’immaginario visivo dei rivali che per un momento sembra una strana coreografia mista. La prima coreografia del gemellaggio Roma-Lazio. Al centro di questa cornice, però, era difficile immaginare che partita attendersi.

Il tema può essere quello del pressing e dell’aggressività. La Lazio l’ha sofferta contro il Milan e ancor più contro il Torino. A tratti è sembrata davvero senza soluzioni: incapace di muovere il pallone velocemente avanti e indietro tra mediano, centrali e terzini, la manipolazione più classica dei triangoli di Sarri. Dall’altra parte però la Roma non ha nella riconquista alta del pallone una propria caratteristica. Ci prova in momenti particolari e senza grande organizzazione, spezzandosi in due tra difesa e centrocampo.

Mourinho prima della partita ha detto che senza palla «si deve rispettare l’avversario», ma il confine tra il rispetto e la paura in un derby è sottile, e la Roma ha finito per rispettare la Lazio fin troppo. Il rispetto è diventato passività. La Roma si è sistemata con un blocco medio che lasciava massima libertà ai difensori di impostare: Mkhitaryan schermava Lucas Leiva, Cristante era su Milinkovic-Savic e Veretout su Luis Alberto. La Lazio poteva palleggiare serenamente con i difensori centrali, e senza scomporsi ha iniziato a esercitare un controllo tecnico mellifluo sulla partita. Quel controllo ha preso, come spesso capita, la forma di Luis Alberto. Lo spagnolo ha iniziato a fare quello che fa da sempre: abbassarsi fino ai difensori per ricevere palla in zone basse. Veretout lo lasciava andare e Luis Alberto poteva girarsi e giocare a palla scoperta, spesso combinandosi con Pedro che si accentrava nel mezzo spazio. Non un meccanismo molto “sarriano”, ma è una Lazio che cerca di trarre il buono dal compromesso.

Varie situazioni in cui Luis Alberto si è abbassato per consolidare il possesso palla della Lazio sul lato sinistro.

La Lazio continuava a far girare il pallone e, pur senza riuscire a giocare molto alle spalle delle linee della Roma, ha atteso il suo momento. E quel momento, al nono minuto, è arrivato. Milinkovic si smarca alle spalle di Cristante e, defilandosi nel mezzo spazio di destra, apre una traccia verticale per Immobile, servito da Luiz Felipe. Il centravanti gioca uno scambio stretto con il serbo, che poi si butta in area in attesa del traversone di Felipe Anderson. Mancini nel frattempo rompe la linea invadendola zona di competenza di Ibanez, aprendo una voragine alle sue spalle. Anderson - autore di una partita sontuosa, 4 dribbling e 2 passaggi chiave, di cui 1 assist - crossa una palla tagliata, dove Milinkovic anticipa Rui Patricio in uscita e segna il gol del vantaggio.

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Nel caos emotivo del derby, la Lazio è stata la squadra che ha più provato a controllarlo, giocando con maggiore razionalità e ambizione. La Roma, senza Pellegrini, si è scontrata con una difficoltà strutturale a far avanzare il pallone. Messi sotto pressione, i difensori si sono rifugiati spesso nel lancio lungo, evitando uno scarico più semplice verso i centrocampisti, anche quando avevano a disposizione tracce di gioco comode. Forse un’indicazione di Mourinho, che da quando è arrivato ha provato a semplificare l’uscita dal basso della Roma, invitando i suoi giocatori a uscite più dirette e verticali, anche per evitare i ripetuti errori in impostazione della gestione Fonseca.

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Tre occasioni in cui Mancini lancia in avanti pur senza particolare pressione. Nei primi venti minuti il centrale della Roma ha tenuto uno sconfortante 62% di passaggi riusciti.

Senza Pellegrini la Roma si è ritrovata con un centrocampista in meno. Mkhitaryan - schierato trequartista centrale - si defilava molto verso sinistra, trasformandosi in un doppione di El Shaarawy, e i due mediani si ritrovavano a coprire una porzione enorme di campo, anche con il pallone. Cristante e Veretout sono stati autori di una piccola maratona, con rispettivamente 12 e 11 chilometri percorsi; Abraham ha provato a venire incontro per legare il gioco, ma ha avuto una presenza sfocata sulla partita: 18 passaggi giocati, il minimo tra i giocatori in campo, solo 2 due aerei vinti su 7, e diversi errori tecnici. La Roma nei primi venti minuti tiene meno del 40% di possesso palla.

Dopo il gol la Roma ha continuato ad accelerare e a perdere lucidità, e al 19’, in seguito a una palla persa in attacco, ha subito il secondo gol. Cristante gioca un passaggio complicato verso Zaniolo in area, Hysaj lo pressa da dietro, Zaniolo va giù. Tutta la Roma è ferma con le braccia allargate a reclamare il rigore, mentre Pedro parte in conduzione. Quando Immobile riceve è ancora dietro la linea del centrocampo, isolatissimo e all’apparenza innocuo. Non è in un gran momento di forma, ma la gestione delle transizioni rimane una qualità che brilla anche nei suoi periodi più opachi. Mentre porta palla nella metà campo avversaria, i difensori della Roma indietreggiano incerti e spaventati. Mancini non riesce a decidersi a intervenire, temporeggia, perde il contatto con l’attaccante, che nel frattempo ha atteso l’arrivo dei compagni. Passa una palla comodissima a Pedro, lasciato libero da Ibanez, e lo spagnolo con un piatto di prima di grande qualità tecnica segna il 2-0.

Pedro passato dalla Roma alla Lazio in estate, che quindi diventa il primo giocatore della storia a segnare in due derby consecutivi con due maglie diverse. Pedro epurato da Mourinho, che corre con l’indice puntato verso Sarri, e che in questa stagione si sta scoprendo un giocatore ancora integro e decisivo: uno degli incubi peggiori dei tifosi della Roma.

La prudenza della Lazio e l’ambizione di Zaniolo

Mourinho nelle interviste non fa che chiedere “tempo”, ma una cosa è riuscita a migliorarla, almeno in questo inizio di stagione: la Roma nei momenti di difficoltà non si sgretola assecondando il proprio istinto autodistruttivo, non perde mai del tutto la convinzione di rimettere in piedi anche le partite che più somigliano a incubi. Anche quando non ha molte idee, sa che può essere pericolosa aggrappandosi alla forza fisica e al talento tecnico dei suoi giocatori migliori. Zaniolo colpisce un palo su calcio d’angolo. Un palo identico spiccicato a quello colpito qualche giorno fa contro l’Udinese: è il terzo, oltretutto, che colpisce nei derby. Su un altro calcio d’angolo la Roma accorcia le distanze con Ibanez e va al riposo con un punteggio tutto sommato accettabile, vista l’enorme sofferenza dei primi venti minuti. Dopo il gol Mourinho guarda la telecamera, indica l’orologio e invita alla calma.

Quando si ritorna in campo per il secondo tempo, dopo dieci minuti interlocutori, la Roma alza la pressione offensiva e la Lazio si abbassa, ricalcando un po’ la forma che prendeva di solito con Simone Inzaghi in panchina. Una squadra paziente e formidabile nel cogliere i momenti per attaccare in transizione. La forma di controllo che esercita non è più nella gestione del pallone ma in quella degli spazi. Mentre la Roma si incarta nella ricerca di combinazioni offensive sempre stanche e fuori fase, perde una palla sulla trequarti offensiva. Luis Alberto può girarsi e, seguendo un riflesso incondizionato, guarda Immobile; quello è già scattato.

La Roma è messa male e Mancini finisce in uno contro uno, di nuovo, con l’attaccante della Lazio. La palla di Luis Alberto lo taglia fuori. La differenza di velocità tra Immobile e Mancini è impressionante sui primi passi, e quando il difensore riesce a rimontare è così disperato che viene preso in contrattempo quando Immobile rientra. Anche ieri l’attaccante della Lazio è stato stranamente impreciso sotto porta, e forse anche per questo invece di tirare scarica su Felipe Anderson, che segna il gol del 3-1. Uno di quei gol in cui la Lazio dimostra la semplicità del calcio, quando hai un grande passatore Luis Alberto e un attaccante bravo a muoversi negli spazi come Immobile.

La stanchezza che la Roma aveva mostrato nelle ultime partite ricomincia a prendere le gambe dei giocatori. Si nota soprattutto nella povertà dei movimenti senza palla dei giallorossi, nell’incapacità di trovare soluzioni offensive. Quando la Roma si inaridisce e sembra svuotata, Veretout comincia a occupare tutti i buchi, a prendersi tutte le responsabilità. Ma alla volontà, ieri, non è riuscito ad abbinare precisione tecnica.

È Veretout che prova a sdoppiarsi per colmare la lacuna di Pellegrini.

Ma proprio nel momento in cui la Roma pareva non avere armi, ne ha scoperta una che pareva perduta. Zaniolo fino a quel momento aveva giocato una partita maledetta. Aveva colpito un palo e combinato poco: quando provava ad accelerare, sembrava la versione al ralenti del giocatore devastante pre-infortuni. È dall’inizio della stagione che pare sbattere sui propri limiti, che cerca di liberarsi dei suoi impacci fisici senza riuscirci.

All’inizio del secondo tempo era stato protagonista di un’azione manifesto. Aveva sgasato lungolinea sulla fascia ma, arrivato in fondo, si era visto rimontare da Pedro. Quello lo aveva dribblato con il tacco, e poi l’aveva dribblato di nuovo con uno scavetto giocato a testa alta. All’ora di gioco però Zaniolo prende il volo. Gioca un’azione individuale dietro l’altra e cinque minuti dopo il gol della Lazio si guadagna un calcio di rigore.

Nella Lazio nel frattempo era uscito un Luis Alberto scettico, e il controllo sulla partita era peggiorato. A livello posizionale la Lazio è più fragile dello scorso anno: sta più stretta ed è più fragile sugli attacchi in ampiezza. Al 72’ Zaniolo riceve una sponda di Abraham, ha due difensori della Lazio addosso, quindi alza la testa ma Abraham non ha ancora fatto un movimento in area. La palla rallenta, è sul destro, il suo piede debole, e l’azione sembra sfumata, invece fa una finta a rientrare, se la allunga un po’, e carica un tiro di destro potente a incrociare. Un tiro di assoluta perfezione tecnica. Reina però fa una delle parate più incredibili della storia recente dei derby di Roma, allungandosi con una mano sola.

Mancano ancora venti minuti, e alle squadre è rimasta solo confusione e stanchezza. La Lazio vince il primo derby stagionale, giocandolo con più razionalità e più ambizione della Roma, soprattutto nei venti minuti iniziali. Ha tentato di controllare di più la partita, è stata più brillante fisicamente e ha creato occasioni migliori. Cosa ancora più importante nei derby, ha vinto i duelli individuali decisivi, in particolare quello di Immobile su Mancini.

Finisce con Mourinho in mezzo al campo che motiva i giocatori, e poi li porta a ringraziare i tifosi in curva. Sa che deve bonificare subito le scorie del derby, per evitare che possano intossicare le prossime partite. Finisce con Sarri sotto la curva nord con l’aquila Olimpia sul braccio, nel tentativo di fondersi con un ambiente rispetto a cui finora è sembrato un po’ alieno.

La Lazio è ancora distante dalla sua forma ideale, ma ha avuto il pregio di continuare a giocare con la testa, di non lasciarsi trasportare troppo dall'emotività nervosa e stanca della partita. Mentre Mourinho chiedeva calma alla sua squadra, è stata la Lazio di Sarri ad averne di più.

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