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La vita è bella al Monte Carlo Country Club
26 apr 2022
26 apr 2022
Racconto dal torneo più glamour della stagione.
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Quando nel 1985 le vennero presentati i progetti della nuova metropolitana di Bucarest, Elena Ceaucescu, moglie del dittatore della Romania Nicolae, si oppose alla costruzione di una stazione in Piața Romană, sede principale dell’università. A suo dire, quella stazione avrebbe avuto una cattiva influenza sulla gioventù romena in decadenza, cui la comodità di giungere fin sotto all’università in metro, invece che camminando, avrebbe certo contribuito.

Consapevoli che opporvisi sarebbe stata una follia tanto grande quanto l’obiezione stessa, i progettisti decisero di costruire la stazione in segreto, convinti che, prima o dopo, sarebbe tornata utile — e così è stato. Il risultato è che ancora oggi a Piața Romană la banchina della stazione della metropolitana è larga meno di un metro e mezzo, asimmetrica, scomodissima, ma funzionante.

È la prima immagine che mi viene in mente quando scendo dal treno alla stazione temporanea "Monte Carlo Country Club", il circolo che ogni anno, ad aprile, ospita il Masters 1000 di Montecarlo, uno degli appuntamenti più attesi dell’intero anno tennistico. Esattamente a metà tra la vera stazione di Monaco e quella successiva di Roquebrune-Cap-Martine, in territorio francese, questa fermata temporanea sembra proprio ideata da dei progettisti di nascosto a un potente e sanguinario dittatore: un rivolo d’asfalto accompagna sullo sterrato che conduce, quasi di nascosto, all’entrata del circolo vero e proprio.

La stazione ferroviaria provvisoria del Monte Carlo Country Club (Google Maps).

Studiando la sera precedente il programma, ho scoperto con disappunto che la partita di secondo turno tra Sinner e Ruusuvuori sarà il terzo incontro sul Court des Princes, il campo secondario, giusto a poche decine di metri da quello per cui ho il biglietto, ovvero il Court Ranier III, intitolato al principe costruttore, il sovrano che nella seconda metà del Novecento ha contribuito a cambiare per sempre l’estetica urbanistica di Montecarlo.

Non c’è da lamentarsi, per carità: sul Ranier III, il programma prevede in apertura l’incontro tra Sebastian Korda e Carlos Alcaraz, giovani che si sono incontrati l’ultima volta nella finale delle Next Gen Finals dello scorso novembre, vinta dallo spagnolo. Meno affascinante il derby scandinavo tra Casper Ruud e Holger Rune, mentre il destino tricolore mi ha ricompensato di avermi sottratto Sinner regalandomi l’incontro interessante tra Lorenzo Musetti e Felix Augier-Aliassime, prima che Alexander Zverev, numero 3 al mondo, chiuda la giornata contro Federico Delbonis.

Con davanti un’intera giornata di tennis, il pubblico se la prende comoda e durante i primi game sembra affollare più il negozio di souvenir che gli spalti. Mi concedo un cappellino dal valore sì commemorativo, ma anche strettamente necessario ad affrontare le lunghe ore di sole che mi aspettano. Accanto intravedo uno stand che propone qualche sfizio culinario; leggo nella prima riga di arancini a 7€, e mi manca il coraggio di scorrere più in basso.

Se Monte Carlo è un posto per ricchi, il suo club di tennis — che per necessità geografiche sorge in realtà tecnicamente in Francia — ne è la sublimazione. I prezzi, arancini a parte, sono in realtà alti ma all’interno di una loro sensatezza; è l’atmosfera a essere preziosa, aristocratica.

In Una cosa divertente che non farò mai più, David Foster Wallace racconta di una sua settimana in crociera e di come l’organizzazione tenti di imporre il divertimento ai propri clienti, con l’ambizione ultima di sostituirsi alla percezione stessa dell’esperienza: il passeggero viene convinto di essere nel miglior posto possibile, e questa narrazione finisce per annebbiare ciò che prova effettivamente. A Montecarlo va in scena una simile opera di convincimento, anche se implicita. Tu non stai soltanto andando ad ammirare i giocatori migliori del mondo: tu sei anche il pubblico migliore del mondo.

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Con questa lusinga nell’animo, mi muovo tra gli scalini in pietra e i cartelli ben proporzionati in un clima a metà tra l’incanto di Disneyland e il posticcio di Porto Cervo, fino a raggiungere il mio posto nella grande tribuna provvisoria in ferro sul lato lungo del campo, in grado di raccogliere migliaia di persone in assoluta controtendenza con l’esclusività morfologica del luogo.

Può succedere sempre, ma ha particolarmente senso che succeda quando costruisci un circolo di tennis incastonato tra il mare e la roccia che si inerpica a pochissimi metri dalla costa: c’è molto vento. Il primo ad accorgerne forse è Sebastian Korda, in grande difficoltà nel lancio palla e in generale con il servizio, dal quale guadagnerà 2 ace a fronte di 9 doppi falli, contro i 4 di Alcaraz. La partita è tesa, e il servizio smette di essere un vantaggio. A cavallo tra il primo e il secondo set Korda lo cede per cinque game consecutivi, pur vincendo il tiebreak.

Alcaraz sembra patire la prima partita su terra della stagione e non è dominante come negli Stati Uniti la settimana prima. Eppure lotta, spreca qualche occasione (convertirà solo il 30% delle sue palle break) e insieme a Korda diverte il pubblico che ogni due game, durante il cambio di campo, viene lasciato affluire e pian piano riempie gli strettissimi seggiolini delle tribune, come quei video rilassanti (certamente finti), dove migliaia di palline colorate finiscono, dopo mille rimbalzi, ognuna al proprio posto.

Alla fine di tre ore spettacolari e combattute, piene di incertezze, quando Korda alza entrambe le braccia al cielo e impone al proprio volto un’espressione di gioia e incredulità, tutte le tribune sono piene e in piedi per applaudirlo — e per sgranchirsi.

E così, mentre un anziano signore in divisa spolvera con precisione le righe del campo in vista dell’incontro tra Ruud e Rune, decido che è il momento adatto per sacrificare un po’ di tennis e andare un po’ in giro per circolo. Non era un'idea originale, e solo per emergere dalla pancia delle tribune ci mettiamo un quarto d’ora abbondante. Lo spazio impone regole severe allo spettatore. Nel muoversi per il circolo, bisogna sfilare in mezzo alle impalcature che sorreggono le tribune, perché altra possibilità non c’è: sembra di muoversi nella pancia di una nave da crociera, come quella che si intravede in mare oltre la tribuna, sottocoperta, consapevoli e solo temporaneamente distanti dall’atmosfera glamour che scintilla tutto intorno. Per quei pochi passi percepisci di camminare a fianco di un Atlantide di bulloni, silenzioso ma necessario spettatore e sostenitore.

Mentre inizio a muovermi per il circolo ripenso al tifoso che da qualche fila indietro incoraggiava Korda con incitamenti in italiano, che difficilmente l’alto e smilzo americano avrebbe mai potuto decifrare. Eppure, mentre esploro le scalinate in pietra e i corridoi che portano alle sale di commento per i giornalisti di radio e televisione, mi rendo sempre più conto che l’italiano, invece che l’eccezione, è la regola. Nelle istruzioni delle mamme ai loro bambini, nelle telefonate, nelle considerazioni più o meno tecniche del pubblico, Montecarlo sembra in provincia di Imperia.

Passeggiando tra i campi secondari, il tennis emerge dalla terra che sfora i recinti e si deposita sui marciapiedi: qualche decina di persona si accalca per assistere a Stefanos Tsitsipas rispondere alle battute del fratello per preparare il doppio contro Metkic e Pavic, poi perso in poco più di un’ora di gioco. Più in là De Minaur si allena in vista del suo incontro di singolo con Rublev (perso anche quello, in tre set, non è che porto sfiga?), mentre Hubert Hurckaz è stato ridotto dagli organizzatori a gioire di fronte a una minuscola tribuna della sua non semplice vittoria contro Pedro Martinez. Nel frattempo, per arrivare ai campi più remoti, con chi mi accompagna abbiamo dovuto accomodare il pendio della montagna che già sale con convinzione. Da qui riusciamo finalmente a dare una dimensione compiuta e un confine definito al brusio e al movimento disordinato di persone che si sviluppa qualche metro più in giù, come una colonia di formiche allungata fin quasi al mare.

Me la prendo comoda, e rientro al mio posto quando Ruud sta già controllando il secondo set contro Rune, dopo un tiebreak in cui il danese era andato avanti 3–0. Dopo qualche pallettata contrattuale e un saluto al pubblico che torna a farsi numeroso, l’atmosfera si scalda quando Lorenzo Musetti entra in campo per il terzo match di giornata sul Ranier III contro il canadese Auger-Aliassime.

A quel punto l’ipotesi che la percezione del numero di italiani fosse ingigantita da un bias linguistico svanisce. Musetti parte alla grande e il mio sguardo si perde lungo lungo la vorticosa tensione verticale che abbraccia quell’angolo di mondo. Oltre la tribuna davanti a me intravedo la sagome di Carreno-Busta che riceve le palline dai raccattapalle per il suo incontro (vinto per ritiro) contro Alexander Bublik. Spingendo il naso ancora più in su, oltre i confini del club, si intravede la parte superiore di qualche camion passare lungo strade invisibili vicino a costruzioni eleganti. Ma sono due gli elementi architettonici che spiccano. Un parallelepipedo verdognolo incastrato nella montagna, inspiegabile residuo industriale in un angolo del mondo dove il lavoro pare non esistere e, a picco sulla roccia, il Maybourne Riviera, un hotel sbrilluccicante che sembra uscito da uno di quei rendering futuristici e quasi mai realizzati. Fateci un pensiero, se quest’estate ve la sentite di dedicarci 1'800€ a notte.

Chissà che proprio dal Maybourne Riviera qualche nababbo col binocolo non abbia deciso di partecipare, dalla sua sua suite, alla Musetti Magic che nel frattempo sta effondendo duecento metri più in giù un rovescio lungolinea dopo l’altro, e che sta trascinando il pubblico verso il puro delirio. La connessione tra Musetti e gli spettatori è assoluta, mentre le onde emotive del primo seguono e contemporaneamente causano quelle del secondo. Auger-Aliassime non sembra sapere che farsene di tutta questa energia che gli vibra attorno, e finisce per concedersi nello stile e nella sostanza a Musetti, mentre il pubblico pian piano si rilassa, cosciente che il più è fatto.

Nella tribuna opposta al giudice di sedia (cioè la mia), c’è una finestra di una dozzina di seggiolini da cui, grazie a un fortunato allineamento, è possibile osservare il tabellone del Court des Princes, dove nel frattempo Sinner ha iniziato il suo incontro contro il finlandese Ruusuvuori. Un quindici alla volta, le due partite scorrono in parallelo: una sotto i nostri occhi, reale e tangibile, l’altra immaginata, ancorata alla nostra realtà solo dal progressivo evolvere nel punteggio, in cui presupponiamo senza vederle le fatiche di Sinner in un incontro ostico e non giocato bene, risolvendo il primo set soltanto nel finale. Gli aggiornamenti dal Court des Princes si diffondono attraverso la tribuna come inchiostro nell’acqua nelle pause dell’incontro sul Ranier III, quando gli occhi più acuti aggiornano quelli meno brillanti che quello che sembra un cinque è invece un sei, e che sì, Ruusuvuori ha a disposizione una palla break.

Forse consapevole dell’attenzione che il pubblico sta riservando all’altra partita, la regia approfitta del cambio di campo per mandare sul tabellone i due match point che ci vogliono a Sinner per chiudere anche il secondo set e accedere agli ottavi di finale. E così, mentre Musetti si appresta a chiudere un match che ha ormai in pugno, i cori “Sinner, Sinner” che si alzano dagli spalti certificano, dopo circa ottocento anni di indipendenza, la conquista — culturale e temporanea — del Principato di Monaco.

Quando Musetti esce dal campo dopo essersi preso tutti gli applausi di questo mondo, la temperatura degli spalti scende vertiginosamente. E così, al primo cambio campo dopo il break al terzo game di Alex Zverev contro Federico Delbonis, come se fosse un flash mob metà pubblico si alza e abbandona il proprio posto per tornarsene a casa complice anche, ma questo lo scoprirò più tardi, l'imminente partenza dell’ultimo treno dalla stazione. Neanche la famiglia tedesca nella fila davanti a me sembra scaldarsi più di tanto alla vista del suo connazionale, facendomi a questo punto perdere ogni attrattiva per il mio punto d’osservazione, e spingendomi a sfidare l’ordine costituito scendendo di volta in volta lungo le tribune ormai semivuote, abbandonate da spettatori che a un incontro apparentemente senza storia, e in cui Zverev vince 6-1 il primo set, preferiscono tornare in fretta al proprio focolare.

Ritrovatomi nel giro di qualche game dalla diciottesima alla terza fila, realizzo che il colpo grosso è alla portata quando vedo una coppia muoversi dal propri seggiolini comuni alle logge ancora più sotto, quelle dedicate a ospiti e sponsor, senza che nessuno opponga la minima resistenza. E così, insieme ai miei compagni di avventura, ci spingiamo anche noi fino alla terza fila di logge, con i seggiolini imbottiti e a una distanza finalmente accettabile l’uno dal l’altro. Un elegante cartello segnaposto indica che i seggiolini sarebbero teoricamente riservati a Richelieu: chiedo scusa per la mancanza di rigore professionale, ma non rovinerò con una ricerca su Google la speranza di essermi seduto nei posti riservati ai discendenti del celebre cardinale e primo ministro francese del ‘600.

Decisi ad arrivare fino in fondo, abbandoniamo i posti di Richelieu e giungiamo finalmente alla prima fila delle logge, appena sopra la testa dell’angolo di Delbonis, che dopo aver cominciato a sorpresa il secondo set con ammirabile ardore sta infine cedendo sotto i colpi meccanici di Zverev, quasi innervosito dal doversi impegnare dopo un inizio senza sforzo.

La stretta di mano tra i due dopo il 6–1 7–5 finale viene accompagnata da un applauso del pubblico che si tinge di una nota malinconica, o forse ce l’aggiunge la mia percezione. Il sole è tramontato dietro i grattacieli di Monaco alle nostre spalle, le luci artificiali hanno trasformato il rosso del campo in un arancione chiaro come certo cuoio, e i nostri passi si dirigono verso l’uscita, verso le nostre vite che rispetto a questa giornata, inevitabilmente, saranno un po’ più normali, un po’ meno glitterate, un po’ meno glamour.

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