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La stagione sulle montagne russe di Carmelo Anthony
16 apr 2018
La parabola di ‘Melo a Oklahoma City, da stella a giocatore di ruolo fino a capro espiatorio.
(articolo)
16 min
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Prologo

La famosa trade che ha portato Carmelo Anthony dai New York Knicks agli Oklahoma City Thunder si è conclusa da poco più di 24 ore. Il nuovo numero 7 di OKC è seduto nella sala stampa a fianco del suo nuovo spogliatoio casalingo, quello della ChesaPeake Arena. La prima domanda scomoda non ci mette molto ad arrivare.

“Sei disponibile a giocare da ‘4’? Ed, eventualmente, a partire dalla panchina?”. A porla è Erik Horne, beat writer dei Thunder per NewsOk.

Who, me?

Quel “Chi, io?” detto in modo incredulo e con una sfumatura sarcastica nel tono racchiude molto del personaggio Carmelo Anthony, del suo approccio alla stagione e delle sfide che lo attendono in questa sua nuova avventura. Il modo in cui avrebbe potuto affrontarle e come invece sono andate ora che la stagione regolare per OKC si è chiusa con il quarto posto nella Western Conference, invece, è argomento piuttosto articolato. Un classico quando si parla di un giocatore che divide come pochi altri in tutta la NBA.

Olympic Melo

Per la stagione 2017-18 il piano dei Thunder era incredibilmente semplice: replicare in un contesto NBA i successi che Anthony aveva avuto nelle competizioni FIBA. Il ragionamento è stato: le sue percentuali storiche sugli scarichi sono sempre state ottime (43% nella sua ultima stagione a New York) e, quando ha avuto occasione di giocare in squadre dove non fosse il realizzatore di riferimento come nel contesto olimpico con Team USA, Melo si è trasformato in una macchina da canestri estremamente efficiente, prendendo quasi esclusivamente tiri in situazioni di catch and shoot o battendo dal palleggio ogni recupero difensivo, partendo quindi da una situazione di vantaggio creato da altri. Nelle Olimpiadi del 2012, ad esempio, Melo aveva realizzato 115 punti in 86 possessi di tiro, ovvero 1.34 punti per tiro. Numeri irreali.

La mappa di tiro delle prime 20 partite stagionali di Carmelo Anthony (immagine ChartSide).

Con Russell Westbrook e Paul George come opzioni primarie e Steven Adams come bloccante, l’idea era allettante e il potenziale offensivo devastante. A preoccupare semmai era il lato difensivo, dove il prodotto dell’università di Syracuse era e rimane decisamente carente anche quando spostato in posizione di “4”.

Eppure, la storia delle prime venti partite della stagione è stata l’esatta antitesi di quanto immaginato. I Thunder sono partiti con un record 8-12, segnalandosi come una delle cinque migliori difese della NBA e finendo invece tra le ultime dieci per quanto riguarda l’efficienza offensiva. George, Andre Roberson e Adams formavano un trio incredibilmente versatile ed efficace in difesa, capace di sopperire alle mancanze di Anthony; in attacco, invece, massimizzare il suo talento dal punto di vista individuale sembrava assai semplice. Donovan lo utilizzava spesso come fulcro della second-unit giocando un basket a ritmo inferiore rispetto a quello del quintetto base guidato da Westbrook. I classici isolamenti in post e i suoi tiri dalla media distanza, con il resto del quintetto a spaziare e difendere, sembravano in qualche modo funzionare.

Il problema piuttosto pareva essere il rapporto di Anthony con gli altri titolari. La sua tendenza a prendere isolamenti su isolamenti rendevano l’attacco di OKC lento e prevedibile e, nonostante la percentuale da dietro l’arco dei tre punti fosse in crescita rispetto alle sue medie in carriera, questi tiri arrivano soprattutto dalla zona centrale del campo - notoriamente meno efficace rispetto agli angoli, sia come percentuali di realizzazione che come effettivo spazio generato.

Se a ciò si aggiungono la presenza di Roberson (offensivamente deleteria, soprattutto quando l’ex Colorado tendeva a rimanere fermo in angolo ad aspettare un eventuale passaggio) e le continue ricezioni di Melo in post basso, diventava inevitabile che improvvisamente lo spazio a disposizione di Westbrook si riducesse ai minimi termini: la produzione offensiva del numero 0 in quelle 20 partite è stata la peggiore della carriera, anno da rookie escluso.

Come prevedibile, Carmelo e il suo modo anacronistico di giocare a pallacanestro sono stati immediatamente presi di mira dalla critica locale e nazionale. La soluzione proposta da molti è stata di far partire ‘Melo dalla panchina, con Patrick Patterson (38% da tre in stagione) in quintetto per massimizzare le spaziature del quintetto titolare con l’effetto di rendere la second-unit ancora più Melo-centrica.

Role player

Le cose non sono andate esattamente così. Coach Billy Donovan, nel tentativo di migliorare la fluidità dell’attacco del quintetto base e massimizzare la sua efficacia offensiva, ha infatti scelto di prendere la strada opposta: i minuti in second-unit di Anthony sono stati di fatto eliminati facendolo giocare esclusivamente con Westbrook. Contestualmente, ha chiesto a ‘Melo di ridurre i suoi tiri in favore di una distribuzione di tiro più centrata sullo stesso Westbrook e su George, con più tocchi per Steven Adams e con più attenzione per i tagli e i movimenti senza palla di Roberson.

Dopo l’ennesima sconfitta pesante (108-121 in trasferta ad Orlando il 29 novembre), Anthony ha tirato solo sette volte nella successiva vittoria dei Thunder contro i Minnesota Timberwolves. In quattordici anni di carriera NBA, nelle partite in cui ha giocato più di venti minuti, Anthony ha tirato meno di dieci volte solo in dodici occasioni: cinque di queste sono con la maglia degli OKC Thunder.

Il cambiamento è stato rivoluzionario, lo dicono sia i numeri sia l’approccio alla partita, e i primi risultati dopo gli assestamenti hanno fatto ben sperare: Melo ha ridotto drasticamente i tiri provenienti da isolamenti in post basso in favore di occasioni sugli scarichi e, nelle trenta partite che seguono la debacle in Florida, i Thunder iniziano a giocare in modo differente, accumulando un eccellente record di 23-7.

L’apparente successo di squadra non frena però ‘Melo dal rilasciare una delle dichiarazioni più emblematiche della stagione. È il 23 dicembre e i Thunder hanno appena sconfitto gli Utah Jazz a Salt Lake City quando dice: “È solo questione di accettare quel ruolo, realizzare che è così che giocherò. Questo è il tipo di tiri che potrò prendermi, questo è l’attacco che useremo. Accettare e lavorare su questo ruolo è quanto sto facendo nell’ultima settimana. Permettere a me stesso di accettare questo ruolo e fare qualsiasi cosa per far vincere questa squadra”, si racconta in questo articolo.

Sebbene sembri la classica formuletta ripetuta altre centinaia di volte in carriera, la scelta delle parole usate merita attenzione, specialmente quando dice “permettere a me stesso di accettare questo ruolo”. Per essere il 19° realizzatore nella storia della NBA con più di 25.000 punti segnati, nonché una delle personalità più magnetiche e polarizzanti sia come giocatore che come personaggio al di fuori della pallacanestro, Carmelo Anthony è un giocatore che nella sua carriera non ha mai dato l’impressione di essere toccato dalle critiche esterne né di aver mai messo in discussione le proprie scelte, il suo modo di approcciare il Gioco. Forse, Melo è un giocatore che non ha mai voluto mutare il suo modo di intendere la pallacanestro.

Eppure, dopo due mesi di insuccessi a Oklahoma City, dopo il cambio di ruolo e i successi che ne sono derivati, Melo ha forzato se stesso a mettere in discussione la sua essenza: “Just allowing myself to accept that role”. Il cambiamento e l’accettazione del nuovo ruolo sono andati esattamente nel verso auspicato da Billy Donovan e il suo staff, ovvero un aumento dei tiri da tre piedi a terra, con buone/ottime percentuali e soprattutto dall’angolo destro, come si vede dalla mappa qui sotto.

Mappa di tiro di Anthony, partite dalla 21 alla 50 (immagine ChartSide).

Per dare un’idea quantitativa precisa di quanto Melo abbia cambiato il modo di giocare da quando è a OKC, è sufficiente prendere le percentuali di tiri presi in catch and shoot: nelle ultime tre stagioni ai Knicks, Melo si era preso tra il 26% ed il 30% dei suoi tiri in tali situazioni; quest’anno la percentuale è salita al 42.4%. L’equilibrio trovato però non era stabile: sebbene ci fossero segnali incoraggianti, le vecchie abitudini faticano a morire. Su tutte quella più nota e peculiare, ovvero la tendenza dell’ex New York a posizionarsi all’interno della linea dei tre punti per ricevere eventuali scarichi.

Nella clip vediamo quattro azioni in cui Anthony si posiziona male e finisce per generare un “long two” invece di una tripla aperta. Un altro fattore che contribuisce a peggiorare l’efficienza individuale è la sua propensione ad abbassare molto il pallone prima di “entrare nel tiro”, il che rallenta di molto l’esecuzione, permettendo agli avversari di contestare il tiro stesso.

A questo si aggiunge il magnetismo che sembra attrarre Carmelo verso il gioco spalle a canestro senza ragioni empiriche a sostenere tale scelta: gli 0.8 punti per possesso generati in tali situazioni sono estremamente sotto la media della Lega. Eppure, anche tenendo conto di questi risvolti negativi, la scelta fatta da Sam Presti sembra pagare i suoi dividendi.

Lost

Il 28 gennaio 2018 la stagione dei Thunder, dei Big Three e di Carmelo Anthony (sì, Steven Adams è il terzo, nel caso vi steste domandando) cambia definitivamente. Arriva infatti la conferma che per Andre Roberson la stagione è finita per via di un brutto infortunio al tendine rotuleo e con essa crolla il delicato equilibrio che Donovan e il suo staff avevano creato.

Le nove partite che seguono sono le peggiori della stagione di OKC e di Carmelo: sei sconfitte e solo tre vittorie che arrivano contro Golden State e due volte contro Memphis. Anthony, però, gioca solo quattro minuti contro gli Warriors, salta la debordante vittoria casalinga contro Memphis e tira abbastanza male (7/18) nella risicata vittoria in trasferta in Tennessee. Nella striscia che precede l’All-Star Game, ‘Melo sarebbe stato nettamente il peggiore titolare se Donovan non avesse deciso di mettere in quintetto Terrance Ferguson, che all’anagrafe ha poco più di 19 anni e sul parquet gioca un basket acerbo, nonostante i lampi di talento.

Dopo la pausa, complice anche la firma di Corey Brewer, tutto sembra però andare per il verso giusto. Come pubblicamente affermato più volte anche dallo stesso Anthony, la cosa importante è giocare il miglior basket a Marzo ed Aprile per arrivare ai playoff nel migliore stato di forma possibile. I Thunder sono reduci da una striscia di sei vittorie consecutive culminata con la trasferta a Toronto, dove ‘Melo ha fatto esattamente quello che il suo nuovo ruolo richiede: 15 punti con 3/4 da 3, due sole occasioni in post up e un isolamento (2/3 da due in tali situazioni).

La partita successiva contro una rimaneggiata Boston sembra l’occasione perfetta per portare l’attacco definitivo alla terza posizione nella Western Conference; invece, complice la totale assenza di energia dei Thunder, la partita si complica tremendamente e con essa tutto il futuro prossimo della franchigia: sul finire del quarto quarto le due triple consecutive di Melo e l’assist regalato a Brewer nell’angolo sembrano chiudere il match, 93-87 con 1’53 da giocare. Poi, a 8 secondi dalla fine, Anthony si trova in lunetta sul punteggio di 99-97 e, forse per la prima volta in stagione, si ritrova a dover ricoprire il ruolo dell’eroe. Purtroppo la sorte, il ferro e forse qualcosa di più personale lo tradiscono: il suo 0/2 e la fortunosa tripla di Marcus Morris nel possesso successivo significano vittoria Celtics e striscia di vittorie bruscamente interrotta.

È solo una partita, e trarre conclusioni eccessive da essa è senza dubbio azzardato. Eppure - coincidenza? - le due settimane che seguono sono forse il momento peggiore dell’intera carriera di Carmelo. Nella sessione con i media dopo la vittoria contro Miami, dove non entra mai in partita (2/8 dal campo con 0/4 da tre), Anthony si presenta con due ore di ritardo all’appuntamento con la stampa. Alla domanda “Ti capita di guardare la situazione di classifica di OKC?”, risponde in modo molto strano: “Ho perso di vista la classifica. So che siamo nel mix… in qualche mix. Guardare la classifica mette troppa pressione”. La sua espressione pare quasi distante, come se il pensiero di poter mancare i playoff dopo aver scelto di giocare a OKC rinunciando alla sua no-trade clause fosse così inaccettabile da essere completamente rimosso, negato.

Foto di Thearon W. Henderson/Getty Images.

Il giorno successivo, nella partita di cartello contro Portland, i Thunder si giocano quasi tutte le chance di chiudere al terzo posto nella Western Conference, eppure i primi 15 minuti di gioco sono al limite dell’imbarazzante. I Blazers volano sul +18 e Paul George è il protagonista principale del disastro difensivo di Oklahoma City, con Anthony a contribuire.

In attacco le cose non vanno meglio, anzi. Nonostante la second-unit riesca a ricucire lo svantaggio e a portare la squadra addirittura in vantaggio sul 98-95 a 6’25” dalla fine dell’ultimo quarto, Donovan decide di sostituire Jerami Grant - principale trascinatore della rimonta con 17 punti in 18 minuti - con Anthony che, fino a quel momento, non aveva prodotto granché (3/9 dal campo). Il risultato è tragico: Anthony sbaglia quattro triple completamente libero, perde un pallone sanguinoso e OKC viene sconfitta 105-108.

Sebbene George fosse stato autore di una partita decisamente peggiore (4/15 dal campo, 0/7 da 3 e due perse con un -17 di plus-minus), nel post partita le domande si concentrano solo su Anthony e sul perché Grant non fosse rimasto sul parquet nei minuti conclusivi. La risposta di Donovan non lascia spazio ai dubbi: “I trust Melo”. Anche nelle interviste singole, stranamente, solo ad Anthony vengono fatte domande relative alla sua serata al tiro, mentre a George viene chiesto di commentare la partita in generale.

La situazione si presenta nuovamente due partite più tardi, contro Denver. La scelta di Donovan è simile, seppur non uguale: Carmelo viene mandato al tavolo per entrare in campo quando mancano 2 minuti e 40 alla fine della partita, ma la sostituzione non si materializza. Anthony ritorna dal suo allenatore e dopo un breve scambio di battute si siede in panchina. Il “Lascialo giocare” del labiale è ovviamente riferito a Jerami Grant, che aveva appena segnato un canestro da tre punti. L’esito della partita però è identico, con i Thunder incapaci di chiudere i conti dalla lunetta nei tempi regolamentari e destinati poi a perdere di una sola lunghezza nel supplementare. Il periodo nero di Anthony si chiuderà “in bellezza” con uno 0/9 da 3 contro Golden State per l’ennesima sconfitta di OKC. Nel mezzo, due buone prestazioni contro New Orleans e San Antonio.

È l’emblema di una stagione, durante la quale il numero 7 ha sacrificato del suo modo di giocare più di ogni altro membro dei Thunder, ed è forse cambiato più di quanto ci si potesse aspettare alla vigilia, ma i risultati attesi non si sono concretizzati. Se è vero che a livello tecnico questo cambiamento ha portato Antony a giocare in modo più moderno e teoricamente efficiente, i risultati in definitiva non sono stati positivi.

La debordante stella del Madison Square Garden si è trasformata in un giocatore di ruolo mediocre e non, come ci si aspettava, in un realizzatore efficiente capace di emergere nei momenti stagnanti delle partite come arma offensiva di scorta. Questa, probabilmente, è la ragione per cui spesso ‘Melo e la trade che lo ha portato ai Thunder sono stati oggetto delle critiche più severe.

Ingiustamente, forse. Analizzando i due periodi di enorme difficoltà dei Thunder, ovvero l’inizio di stagione e le partite successive all’infortunio di Roberson, si nota come siano giunti in corrispondenza dei peggiori momenti della stagione delle altre due stelle. Tra ottobre e novembre infatti, Westbrook ha raggiunto i minimi storici in termini di efficienza e da metà febbraio in poi George ha smesso di segnare con costanza (37% dal campo e 29.5% da tre dopo l’All-Star Game). È facile odiare Melo e addossargli tutte le colpe, ma le responsabilità vanno condivise anche con gli altri.

Hoodie Melo

Durante le classiche partitelle giocate durante la scorsa estate, Anthony aveva iniziato ad indossare una maglia con cappuccio, hoodie appunto, e le sue prestazioni erano diventate immediatamente virali, trasformando il personaggio “Hoodie Melo” in un brand vero e proprio. Carmelo ha spiegato la genesi del suo alter ego usando queste parole: “I just wanted to find a way that I can just focus in, and that's when Hoodie Melo was created”, che tradotto diventa: volevo trovare un modo per concentrarmi, e così è stato creato Hoodie Melo.

Eppure questa concentrazione e questa dedizione non sembrano aver trovato la loro via sul parquet. L’imbattibile super eroe dei pick-up games newyorkesi pare un lontano ricordo. Così come sembra perso dalla memoria collettiva ciò che ha reso e rende Melo un giocatore speciale, per non dire unico: l’estrema fiducia nei suoi mezzi, la totale estraneità alle critiche e quel sensazionale talento che ne hanno fatto uno dei più grandi realizzatori della storia della NBA, con un posto nella Hall of Fame ad attenderlo.

Un ricordo appannato, capace però di riemergere dal nulla quando meno te lo aspetti: è il 22 novembre e OKC affronta per la prima volta in stagione i campioni in carica dei Golden State Warriors. Anthony è straordinario: segna 9 punti in fila nel primo quarto e dà il via al primo allungo della squadra, il tutto con il difensore dell’anno in carica, Draymond Green, attaccato alle calcagna. Anthony chiude la partita a quota 22 e i Thunder ottengono la prima vittoria contro Durant da quando veste la maglia degli Warriors.

A lasciare a bocca aperta non sono tanto le cifre (8/17 dal campo e 3/7 da 3) quanto l’estrema facilità con cui Anthony riesce a creare un tiro contro Green. Prima in isolamento con il suo classico jab step, poi, fingendo lo stesso movimento, lascia Green sul posto e va ad appoggiare al tabellone.

Il 7 aprile la stagione stagione dei Thunder è sul punto di trasformarsi in un completo fallimento: Westbrook e compagni devono vincere due delle tre partite che rimangono per garantirsi l’accesso alla post season e gli avversari sono gli Houston Rockets e i Miami Heat, prima di chiudere in casa con i Memphis Grizzlies.

Houston è reduce da venti vittorie consecutive in casa e, sebbene Eric Gordon non sia della partita, è nettamente favorita. Il primo quarto di Anthony è impressionante: 6/7 dal campo, 2/2 da 3 con una schiacciata a chiudere il parziale sul 36-30 che manda OKC in vantaggio a fine primo quarto. Mike Breen, commentatore per ESPN/ABC, dice: “Un classico primo quarto alla Carmelo Anthony”, anche se il termine usato - classic - sembra un richiamo al passato con una nota che sa tanto di vintage.

Tiro in sospensione con jab step, tripla sullo scarico, transizione con arresto e tiro dal palleggio, e infine una schiacciata partendo da situazione statica: tutto il repertorio di Anthony in poco più di 7 minuti di partita.

I Thunder strappano una vittoria insperata a cui si aggiungono le due debordanti contro Miami e Memphis, arrivata ad Oklahoma City senza nessun titolare a disposizione. Sono tre vittorie che valgono il vantaggio del fattore campo e che, di fatto, salvano la stagione di OKC.

Ieri Anthony è sceso in campo in Gara-1 contro gli Utah Jazz nella vittoria 116-108 dei Thunder, la sua prima apparizione della post-season in maglia Thunder e la prima negli ultimi cinque anni. I playoff, con la loro atmosfera unica e un basket estremamente differente da quello giocato nei mesi precedenti, sono l’occasione perfetta per mostrare la vera essenza di Carmelo Anthony, della sua travagliata metamorfosi cestistica e personale vissuta durante la stagione. Il momento di ripartire da zero, senza che le troppe sconfitte in regular season abbiano alcun peso o significato. Un foglio bianco su cui il talento, la concentrazione, il carisma e l’incoscienza di “Hoodie Melo” possono scrivere un nuovo capitolo della sua travagliatissima storia a Oklahoma City.

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