Ufficialmente l’Italia è uscita dalle final 6 dei mondiali alle ore 21.40 di venerdì 28 settembre, al termine del primo set perso malamente con la Polonia (14-25). In pratica era una sorta di "dead man walking" già dalla sera precedente, quando il 3-0 dei polacchi sulla Serbia – che in precedenza avevano superato gli azzurri con un perentorio 3-0 (15, 20, 18) - qualificava i balcanici in virtù di un miglior quoziente set sui polacchi, a cui a quel punto sarebbero bastati 60 punti complessivi, a prescindere dal risultato finale (i campioni del mondo 2014 e 2018 sarebbero passati anche perdendo 3 set 20-25). La formazione di Heynen però è riuscita a ottimizzare i tempi, qualificandosi già dopo un parziale, vinto contro un’Italia addirittura ancora più logora di quella che mercoledì si era sciolta con la Serbia. I polacchi ne hanno approfittato per far riposare i titolari e mandare in campo le riserve, sconfitte 2-3 in un match ormai svuotato di significati.
La tensione in un'immagine.
Fattore tecnico, fattore mentale
Dopo aver raggiunto le final 6, l’obiettivo minimo per gli uomini di Blengini, che nelle gerarchie iniziali si ritrovavano in un gruppo più o meno omogeneo con altre 7 nazionali, l’Italia è sembrata schiacciata dalle aspettative generate dai risultati ottenuti nei due turni precedenti, come dalla possibilità concreta di andare in semifinale in virtù di un sorteggio sì ostico, ma comunque meno proibitivo rispetto all’altra pool con Russia, Brasile e Stati Uniti. Se contro la Russia la Nazionale era stata in grado di reagire alle difficoltà emerse in ricezione e a muro, tanto da rimontare i campioni d’Europa nel quarto set (5-1, 6-8, 16-21, 19-25) e costringerli al tie break, mercoledì sera, per riprendere le parole di Giannelli “la Serbia non ci ha permesso di entrare in partita”, nella classica gara da 3-0 in cui una a squadra le riesce tutto e si esalta, mentre l’altra sbaglia l’approccio, interpreta male le situazioni e si affievolisce rapidamente.
Facendo del revisionismo si potrebbe affermare che contro gli uomini di Shylapnikov gli azzurri erano già sicuri del passaggio del turno e probabilmente avevano la mente più sgombra, in più la Russia in questo torneo non si è confermata quella formazione irreprensibile che nell’ultimo anno aveva conquistato europeo e Nations League. Ma al di là delle speculazioni, l’Italia quando non ha potuto giocare la sua pallavolo ordinata, segnata da un cambio palla regolare in attacco ed equilibrato nella distribuzione, oltre che un servizio incisivo, ha deragliato.
Una volta che la ricezione ha iniziato a staccarsi da rete (appena il 17% di ricezioni perfette con la Serbia, 26% nel primo set con la Polonia) la qualità del cambio palla è peggiorata, compromettendo a cascata tutti gli altri fondamentali. «Il tema principale con la Serbia è stato quanto ci hanno messo in difficoltà in ricezione» ha ammesso Blengini dopo il match di ieri sera, «senza quella, zoppicavamo molto sul cambio palla e rimanere attaccati a loro è diventato complicato». Ricezione che, dopo un rendimento sorprendentemente positivo nelle prime due fasi (34,1% di rice perfetta nelle prime 8 uscite), ha subito 10 ace dalla selezione di Grbic e 3 nel primo set con la Polonia tre volte campione del mondo. Ha sofferto nello specifico le 3 rotazioni con Juantorena e Lanza l’uno di fianco all’altro, in affanno nel coprire la zona di conflitto tra posto 5 e 6, ma ancora più in imbarazzo nel ricevere comprimendosi a terra.
Sul servizio di Podrascanin, il difetto di comunicazione nella gestione della zona di conflitto tra un timido Juantorena e un Lanza che abbozza un’accosciata.
In più la regia di Giannelli, almeno inizialmente, aveva come primo obiettivo quello di mettere in partita i due riferimenti di palla alta, Juantorena e Zaytsev - che però sommando i 3 set con la Serbia e il primo con la Polonia, non sono andati oltre, rispettivamente, il 33% su 18 palloni attaccati e il 29% su 34, anche a costo di alzare qualche palla in meno al centro (Anzani mercoledì ha attaccato solo 3 palloni, tutti nel secondo set, mentre Mazzone contro i serbi ha trovato più continuità solo negli ultimi due parziali, in cui ha siglato 5 punti su 6 attacchi).
Il rendimento di Anzani (53,7%) e Mazzone (73,5%), che alla vigilia rappresentava una delle possibili criticità, specie se rapportata alla qualità dei centrali delle altre big, si è rivelato invece la sorpresa più lieta di un cambio palla, a cui è mancato però l’S2 per ottenere una maggior imprevedibilità anche quando il palleggiatore doveva lavorare lontano da rete e non poteva andare al centro.
Lanza, probabilmente condizionato dall’infortunio al ginocchio che gli ha fatto saltare il match con la Finlandia, ha disputato un mondiale negativo, in linea con l’ultima stagione a Trento, in tutti i fondamentali. Il neo schiacciatore di Perugia in attacco ha sofferto soprattutto la compostezza del muro in posto 4, specie quando gli difendeva la parallela, il suo colpo preferito, e doveva forzare la diagonale stretta. I numeri finali sono impietosi: 44,5% di positività in attacco ed efficienza che scende a un misero 16,8%, 27/54 errori al servizio e solo il 16,43% di ricezioni.
Ma al di là delle criticità nel cambio palla, il più grande limite di questa squadra nelle final 6 è stato quello di non adattarsi al contesto imposto dagli avversari. Un’Italia a disagio nell’attaccare con ricezione staccata e allungare gli scambi, giocando colpi interlocutori e sporcando le azioni, come nell’organizzare un muro che già nella prima parte del torneo aveva evidenziato problemi di posizionamento.
I 10 break point conquistati dall’Italia contro i 26 del sestetto di Grbic descrivono in maniera fedele lo scarto tra le due formazioni a livello di muro-difesa e contrattacco: la Serbia, che in fase punto ha toccato dei picchi di perfezione assurdi, forse irripetibili - mai visto nei 5 anni a Perugia un Atanasijevic così volitivo in difesa - ha costruito la vittoria su un muro estremamente composto, capace di orientare gli attacchi dell’Italia, su una difesa che ha recuperato una caterva di palloni, con il terzo di rete e il posto 1/5 (a seconda della zona da cui gli azzurri schiacciavano) sempre vicini e pronti a difendere la traiettoria di diagonale e lo spazio dietro al muro, ma soprattutto su un contrattacco impreziosito dalle variazioni di colpi dei lucidissimi Kovacevic (59% in attacco) e Atanasijevic (57%).
L’Italia, a differenza dei match precedenti, non è stata in grado di giocare sulle mani del muro avversario e, nonostante il commissario tecnico abbia insistito molto su questo aspetto nei time out, ha perso la maggior parte degli scambi lunghi. Certo, ha totalizzato 9 muri vincenti contro i 6 della Serbia, ma quando non è andato a segno si è tradotto con scarsa continuità in un tocco positivo per una ricostruzione.
Pareva quasi che l’intensità e la qualità del gioco si esaurissero all’allungarsi dell’azione: in altre parole, l’Italia è mancata in termini di resilienza e nelle gare più disordinate ha smarrito la sua pallavolo, difettando nella gestione dei momenti e finendo per farsi prendere dalla frenesia prima e dalla frustrazione poi. Sensazioni affiorate con la Serbia e confermate contro la Polonia, in cui la squadra, più che scendere in campo con poco o niente da perdere, è rimasta paralizzata dalla tensione per tutto il primo set.
Uno dei tanti scambi lunghi perso dalla nazionale con la Serbia. Qui Maruotti chiude troppo il colpo e viene murato.
Capri espiatori?
I suoi uomini di maggior talento, Giannelli, Zaytsev e Juantorena, hanno avuto il demerito di non essere riusciti a giocare sopra le difficoltà e condurre l’Italia fuori dalle stesse: i due uomini di palla alta non hanno saputo disordinare il muro difesa, con Zaytsev in apnea nella scelta delle direzioni d’attacco e Juantorena che psicologicamente contro i serbi è uscito presto dal confronto. Giannelli poi (il giocatore più costante in queste 10 partite), pur di continuare a velocizzare il gioco e smarcare i compagni, nei momenti caldi ha diminuito la sua precisione, con primi tempi forzati o aperture da posto 3-4 verso posto 2 troppo corte.
Tuttavia sarebbe comodo e pretestuoso puntare il dito contro quei tre - autori comunque di un mondiale positivo - specie per una selezione che è venuta meno in termini di collettivo e che avrebbe avuto bisogno di mantenere alto e costante la qualità in tutti i fondamentali per arrivare in semifinale. Allo stesso modo accusare Blengini di aver messo mano tardivamente alla formazione nei momenti complicati sarebbe una critica gratuita. Il commissario tecnico ha cambiato poco semplicemente perché in panchina non aveva alternative al livello dei titolari.
Lanza in questo mondiale è stato sostituito 4 volte da Maruotti, ma il differenziale di prestazioni tra i due non è mai stato così significativo. O almeno non tale da giustificare un eventuale ingresso di Maruotti nel sestetto titolare.
Ad ogni modo resta la delusione per aver fallito una qualificazione che alla vigilia sembrava nelle proprie corde, ma anche la consapevolezza di essere usciti contro due avversari che si sono rivelati superiori. «Forse non eravamo pronti a salire sul podio: abbiamo incontrato due squadre forti come Russia e Serbia, e abbiamo subito perso» il commento di Juantorena, molto vicino all’addio alla Nazionale.
A prescindere dal futuro del volley azzurro, occorre prima una riflessione sul format di questo Mondiale: in una pallavolo in cui le nazionali rappresentano il traino del movimento e i mondiali diventano la vetrina principale, la Fivb ha deciso di valorizzare il suo prodotto, proponendo ben 94 partite, con le prime che 4 arrivano a disputare 12 partite in 21 giorni. Un torneo logorante, composto da una final 4 preceduta da 3 gironi eliminatori, organizzati verosimilmente per limitare l’episodicità delle partite e permettere così alle squadre più forti di imporre sul medio-lungo termine la propria superiorità, in modo che arrivino in fondo alla competizione e regalino al pubblico un epilogo incerto e spettacolare. Il problema è che, abolendo gli scontri diretti fino alle semifinali, nell’ultima giornata di ogni pool si offre alle selezioni più avanti in classifica la possibilità di fare calcoli o un ampio turnover, minando la regolarità del mondiale stesso.