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Daniele V. Morrone
Morte al Tikinaccio!
03 lug 2018
03 lug 2018
La sconfitta contro la Russia ha certificato il fallimento del conservatorismo di Hierro, e delle idee della Federazione spagnola.
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Daniele V. Morrone
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“Non siamo stati all’altezza. Non è stato il migliore addio, quello che speravo. Il calcio e la vita sono così”


Andrés Iniesta



 

L’eliminazione della Spagna è stata un’esplosione maturata in tre fasi. 
La scelta di Florentino Pérez di contattare Lopetegui a pochi giorni dal Mondiale è stata la miccia, la scelta di Lopetegui di accettare l’offerta è stata la fiamma, la scelta del presidente federale Rubiales di licenziare Lopetegui a due giorni dal Mondiale è stato lo scoppio.

 

Così si è incenerita l’ultima occasione per la generazione d’Oro del calcio spagnolo. Florentino Pérez si è dimostrato egoista, Lopetegui ingenuo e la scelta di Rubiales ha salvato l’orgoglio della Federazione Spagnola, ma è costata la coppa. Una la sensazione arrivata dopo il licenziamento e rivelatasi esatta. Tutto il lavoro di Lopetegui per rendere la Spagna competitiva rispetto alle versioni precedenti è stato bruciato in poche ore. Quella vista in Russia è una squadra più vicina all’Europeo 2016 che alle qualificazioni per questo Mondiale.

 

Doveva essere una squadra fluida, brava a recuperare il pallone e con a disposizione un piano B, quello della verticalità, in caso di difficoltà. È stata una squadra conservatrice, che ha inchiodato i giocatori alle loro posizioni e non ha sfruttato le alternative coerenti aperte da Lopetegui (Saúl a centrocampo e Odriozola terzino offensivo).

 

Per dare l’idea di quanto sia stato conservativo l’approccio di Hierro: in nessuna partita il cambio è arrivato prima del minuto 65 ed è sempre stato ruolo per ruolo. Contro la Russia sono bastati pochi minuti di giocatori abili a muoversi senza palla come Rodrigo e Aspas a mostrare quante potenzialità inesplorate aveva questa Spagna. A fine partite Koke non si è trattenuto: «Ci hanno tolto il leader, che era Lopetegui, e Fernando Hierro ha fatto quello che ha potuto».


 

Mantenere lo stile, è stato il mantra di Hierro. Lo stile è quello che la Spagna ha cambiato con Aragonés nel 2006, abbandonando l’ideale di “Furie Rosse” con cui la Spagna si identificava da tempo immemore, per diventare la “Roja”, la squadra che ha posto la tecnica sopra ogni cosa. Un cambio epocale che porterà l’Europeo 2008 - grazie a una squadra impostata col gioco di posizione -, il Mondiale del 2010 e l’Europeo 2012 - con la squadra del possesso puro di Del Bosque. Nel mezzo è cresciuta la generazione successiva vincendo gli Europei di categoria due volte consecutivamente, seguendo lo stile dei più grandi. Lo stesso stile che però ha portato al fallimento del 2014, del 2016 e ora del 2018. Gira una battuta dopo l’eliminazione con la Russia: «la partita è finita, ma la Spagna sta ancora passandosi il pallone a centrocampo».

 

I vertici della Nazionale spagnola non sembrano aver imparato dal passato: il movimento non è andato avanti dopo gli anni di uscite anticipate. Sembra che solo Lopetegui avesse capito che bisognava farlo. La stessa Federazione, che lo avevo messo al comando, lo aveva fatto per un’idea di continuità e non per andare avanti, come lui aveva poi fatto col suo lavoro. Uscito di scena Lopetegui sono tornati i soliti difetti strutturali che ha portato il post-generazione d’oro a raccogliere zero. Nel modo di agire di tutto l’ambiente spagnolo al Mondiale c’era un confine sottile tra la paura di finire come in passato e l’arroganza di pensare che il modello avrebbe comunque vinto.

 

La Spagna delle giocate

La Spagna è tornata un monolite di idee sempre più elementari da ripetere ossessivamente. Una squadra incapace ad adattarsi al contesto mutato degli ultimi anni. La Spagna arrivava al Mondiale con uno stile di gioco basato sui princìpi, con alcuni meccanismi tattici studiati ad hoc (come le triangolazioni tra l’esterno che viene incontro e la mezzala nel mezzo spazio, che aprono spazio al taglio di un altro compagno da trovare col filtrante). L’arrivo di Hierro ha semplificato ulteriormente la Spagna, aumentando l’importanza delle prestazioni dei singoli.

 

Sin dalla prima partita è stato chiaro che l’equilibrio su cui si reggevano le ambizioni della Spagna era fragile e risiedeva nelle capacità di sfruttare i talenti individuali a disposizione. Doveva essere una squadra più di giocate che di gioco: Isco nel muoversi e creare superiorità numerica su di un lato, Diego Costa nel duello diretto col centrale, Iniesta nell’equilibrare il sistema dando quello che serviva, Busquets nel fare lo spazzino, Sergio Ramos nel difendere a tanti metri dalla porta. La squadra è durata fin quando sono arrivate queste giocate, contro la Russia il solo Isco non è bastato e nulla si è messo in mezzo tra la manovra sterile e i calci di rigore.



 

Volendo cercare uno spiraglio di cosa sarebbe potuta essere la Spagna in questo Mondiale forse i minuti successivi al gol di Cristiano Ronaldo nella prima partita possono essere la risposta. Solo lì ne abbiamo visto le potenzialità, perché solo lì il carisma dei singoli ha deciso di rimettersi in gioco senza retro pensieri o piedi sul freno. Solo lì si è visto il potenziale della Spagna e il tanto talento a disposizione. 45 minuti non fanno le 7 vittorie che servono per alzare la coppa.

 

Come già detto sotto l’epoca Del Bosque: il maggiore rischio per la Spagna era l’idea di non prendere rischi. Così ha sì vinto il suo primo e unico Mondiale, ma così sono anche arrivate le delusioni successive. Contro la Russia Hierro ha impostato una partita come se lo spirito di Del Bosque si fosse infilato nel suo corpo. La Spagna era consapevole della sua superiorità e ha voluto evitare sorprese. Per farlo ha deciso di non rischiare mai nei movimenti, nella gestione del pallone, nelle decisioni per chi non si chiama Isco. Una sconfitta sia di metodo che degli interpreti.

 








 



 



 





 



 






 



 



 



 





 



 



 



 

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