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Morte al Tikinaccio!
03 lug 2018
La sconfitta contro la Russia ha certificato il fallimento del conservatorismo di Hierro, e delle idee della Federazione spagnola.
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“Non siamo stati all’altezza. Non è stato il migliore addio, quello che speravo. Il calcio e la vita sono così”

Andrés Iniesta

L’eliminazione della Spagna è stata un’esplosione maturata in tre fasi. La scelta di Florentino Pérez di contattare Lopetegui a pochi giorni dal Mondiale è stata la miccia, la scelta di Lopetegui di accettare l’offerta è stata la fiamma, la scelta del presidente federale Rubiales di licenziare Lopetegui a due giorni dal Mondiale è stato lo scoppio.

Così si è incenerita l’ultima occasione per la generazione d’Oro del calcio spagnolo. Florentino Pérez si è dimostrato egoista, Lopetegui ingenuo e la scelta di Rubiales ha salvato l’orgoglio della Federazione Spagnola, ma è costata la coppa. Una la sensazione arrivata dopo il licenziamento e rivelatasi esatta. Tutto il lavoro di Lopetegui per rendere la Spagna competitiva rispetto alle versioni precedenti è stato bruciato in poche ore. Quella vista in Russia è una squadra più vicina all’Europeo 2016 che alle qualificazioni per questo Mondiale.

Doveva essere una squadra fluida, brava a recuperare il pallone e con a disposizione un piano B, quello della verticalità, in caso di difficoltà. È stata una squadra conservatrice, che ha inchiodato i giocatori alle loro posizioni e non ha sfruttato le alternative coerenti aperte da Lopetegui (Saúl a centrocampo e Odriozola terzino offensivo).

Per dare l’idea di quanto sia stato conservativo l’approccio di Hierro: in nessuna partita il cambio è arrivato prima del minuto 65 ed è sempre stato ruolo per ruolo. Contro la Russia sono bastati pochi minuti di giocatori abili a muoversi senza palla come Rodrigo e Aspas a mostrare quante potenzialità inesplorate aveva questa Spagna. A fine partite Koke non si è trattenuto: «Ci hanno tolto il leader, che era Lopetegui, e Fernando Hierro ha fatto quello che ha potuto».

Mantenere lo stile, è stato il mantra di Hierro. Lo stile è quello che la Spagna ha cambiato con Aragonés nel 2006, abbandonando l’ideale di “Furie Rosse” con cui la Spagna si identificava da tempo immemore, per diventare la “Roja”, la squadra che ha posto la tecnica sopra ogni cosa. Un cambio epocale che porterà l’Europeo 2008 - grazie a una squadra impostata col gioco di posizione -, il Mondiale del 2010 e l’Europeo 2012 - con la squadra del possesso puro di Del Bosque. Nel mezzo è cresciuta la generazione successiva vincendo gli Europei di categoria due volte consecutivamente, seguendo lo stile dei più grandi. Lo stesso stile che però ha portato al fallimento del 2014, del 2016 e ora del 2018. Gira una battuta dopo l’eliminazione con la Russia: «la partita è finita, ma la Spagna sta ancora passandosi il pallone a centrocampo».

I vertici della Nazionale spagnola non sembrano aver imparato dal passato: il movimento non è andato avanti dopo gli anni di uscite anticipate. Sembra che solo Lopetegui avesse capito che bisognava farlo. La stessa Federazione, che lo avevo messo al comando, lo aveva fatto per un’idea di continuità e non per andare avanti, come lui aveva poi fatto col suo lavoro. Uscito di scena Lopetegui sono tornati i soliti difetti strutturali che ha portato il post-generazione d’oro a raccogliere zero. Nel modo di agire di tutto l’ambiente spagnolo al Mondiale c’era un confine sottile tra la paura di finire come in passato e l’arroganza di pensare che il modello avrebbe comunque vinto.

La Spagna delle giocate

La Spagna è tornata un monolite di idee sempre più elementari da ripetere ossessivamente. Una squadra incapace ad adattarsi al contesto mutato degli ultimi anni. La Spagna arrivava al Mondiale con uno stile di gioco basato sui princìpi, con alcuni meccanismi tattici studiati ad hoc (come le triangolazioni tra l’esterno che viene incontro e la mezzala nel mezzo spazio, che aprono spazio al taglio di un altro compagno da trovare col filtrante). L’arrivo di Hierro ha semplificato ulteriormente la Spagna, aumentando l’importanza delle prestazioni dei singoli.

Sin dalla prima partita è stato chiaro che l’equilibrio su cui si reggevano le ambizioni della Spagna era fragile e risiedeva nelle capacità di sfruttare i talenti individuali a disposizione. Doveva essere una squadra più di giocate che di gioco: Isco nel muoversi e creare superiorità numerica su di un lato, Diego Costa nel duello diretto col centrale, Iniesta nell’equilibrare il sistema dando quello che serviva, Busquets nel fare lo spazzino, Sergio Ramos nel difendere a tanti metri dalla porta. La squadra è durata fin quando sono arrivate queste giocate, contro la Russia il solo Isco non è bastato e nulla si è messo in mezzo tra la manovra sterile e i calci di rigore.

Volendo cercare uno spiraglio di cosa sarebbe potuta essere la Spagna in questo Mondiale forse i minuti successivi al gol di Cristiano Ronaldo nella prima partita possono essere la risposta. Solo lì ne abbiamo visto le potenzialità, perché solo lì il carisma dei singoli ha deciso di rimettersi in gioco senza retro pensieri o piedi sul freno. Solo lì si è visto il potenziale della Spagna e il tanto talento a disposizione. 45 minuti non fanno le 7 vittorie che servono per alzare la coppa.

Come già detto sotto l’epoca Del Bosque: il maggiore rischio per la Spagna era l’idea di non prendere rischi. Così ha sì vinto il suo primo e unico Mondiale, ma così sono anche arrivate le delusioni successive. Contro la Russia Hierro ha impostato una partita come se lo spirito di Del Bosque si fosse infilato nel suo corpo. La Spagna era consapevole della sua superiorità e ha voluto evitare sorprese. Per farlo ha deciso di non rischiare mai nei movimenti, nella gestione del pallone, nelle decisioni per chi non si chiama Isco. Una sconfitta sia di metodo che degli interpreti.

Senza rischiare non si vince

Senza voler mettere il dito nella piaga, ci sono tanti esempi di cosa significhi giocare per non rischiare e quello che porta ad una squadra come la Spagna. Ad esempio contro la Russia le transizioni difensive avversarie sono state gestite inserendo Koke, ma non come pensato da Lopetegui da mezzala destra, piuttosto spingendolo direttamente al centro per fare a tutti gli effetti un doble pivote con Busquets. A quel punto si è rotta quindi l’idea degli scambi di posizione tra le linee che erano alla base del lavoro di Lopetegui.

La Russia è riuscita a risalire il campo solo lanciando lungo per la testa di Dzyuba. Con la posizione di Koke si è però mascherato un difetto per peggiorarne un altro. È stato Koke, poi, ad aiutare la difesa per l’uscita della palla, con Busquets davanti alla difesa. A quel punto la Spagna non poteva più attaccare con il movimento continuo tra le linee e gli scambi di posizione - il 7 fuori e 3 dentro pensato da Lopetegui. Con due centrocampisti bloccati dietro il centrocampo, e Silva che non riusciva mai a trovare la posizione per ricevere tra le linee, tutto sta nel rimanere fermi a vedere dove andrà Isco a prendere la palla.

In questo modo non si può evitare che una difesa che copre gli spazi può permettersi di rimanere ferma e aspettare che sia il pallone a finire nella propria zona. Il contesto ideale per la Russia. Nessuno doveva uscire dalla sua zona di competenza, se non quando la palla finiva ad Isco che partiva in conduzione. Per il resto il pallone è circolato lento e in orizzontale, disegnando sul campo una grande U. Quello che viene chiamato per capirci "Tikinaccio". Il possesso palla fine a sé stesso, con una squadra che non fa circolare la palla né occupa il campo per trovare vantaggi posizionali. Diceva Pep Guardiola: «Io odio il Tiki-taca. Lo odio. Il Tiki-taca è passarsi il pallone per passarselo, senza nessuna intenzione e questo non serve a nulla. (...) Ci si deve passare il pallone, ma con intenzione: passarlo per sovraccaricare un lato, per attirare e per risolvere dalla parte opposta».

Le brutte prestazioni dei singoli

Questo sistema disfunzionale ha peggiorato le prestazioni dei singoli, alcune inspiegabili: come quelle di David Silva, mai a suo agio in campo oppure dei tre dei pilastri della squadra, Sergio Ramos, Piqué e De Gea.

Il portiere ha dimostrato di non essere a suo agio in una squadra che lo sollecita meno, ma in modo più risolutivo (ha effettuato solo una parata in tutta la competizione). Per i due centrali la situazione è più complessa: il sistema di Hierro non è mai riuscito riportare la Spagna a recuperare alto il pallone subito dopo la perdita, e ha chiesto ai suoi centrali, in sostanza, di non commettere errori, caricandoli di responsabilità in transizione difensiva. Non c’è stato però un Puyol a salvare tutti con i recuperi lampo. A risultare inspiegabile è però il fatto che in ogni partita ci siano stati errori individuali non forzati in situazioni di difesa posizionale o su calcio da fermo, laddove l’esperienza doveva fare la differenza. Contro una Russia innocua il gol del pareggio è arrivato su un rigore regalato da Piqué.

In questo Mondiale quindi la Spagna si è affidata ai singoli, che però non hanno risposto positivamente. Isco è stato una semplice scialuppa di salvataggio cui aggrapparsi. Lopetegui lo aveva inserito all’interno di un sistema liquido, costruito sul continuo cambio di posizioni. Isco doveva essere il prisma in grado riflettere il gioco in tutte le sue componenti tecniche.

Con Hierro invece è diventato la pezza da mettere su tutte le falle del sistema. Il talento di Isco gli ha permesso comunque di girare attorno a questi problemi, muovendosi per il campo come un girasole e continuando a creare per sé e per gli altri. Isco è stato tanto dominante e accentratore da aver creato problemi al sistema stesso. Il suo movimento continuo in zona palla ha finito per coprire linee di passaggio o per svuotare intere zone di campo. Isco ha finito per essere più bello che utile. Come scritto da Ramon Besa su El País: «Doveva essere il giorno di Isco e il madridista non è riuscito a trasmettere la differenza tra quello che è bello e quello che è utile, così che la sua prestazione ha girato attorno più ad una questione più individuale che collettiva, che è il punto debole della Spagna».

Il Mondiale di Isco rimane magnifico. Facendosi eliminare questa Spagna ci ha privati del miglior giocatore della fase a gironi. Isco era il diamante della corona scelto da Lopetegui per brillare più degli altri, ed è riuscito lo ha fatto anche con Hierro: un diamante che brilla su di una corona arrugginita sembra ancora più bello, ma non cambia il fatto che la corona rimanga arrugginita. Isco è la stella da cui la Spagna può ripartire, a patto di capire cosa fare.

La fine della Generazione d’oro è stata la fine della Nazionale spagnola?

Questa è l’ingloriosa fine della generazione d’oro, ma non è necessariamente la fine per la Nazionale spagnola. Il ricambio generazionale iniziato da Lopetegui è in grado di portare ora giocatori non del livello dei partenti, ma certamente tali da poter lottare per grandi obiettivi dietro le nuove stelle Isco, Koke, Saúl e Asensio.

Non stiamo parlando di generazione forte come la precedente, ma parliamo comunque di giocatori élite nel calcio attuale. Rimane l’esigenza di un rinnovamento all’interno della Federazione Spagnola: se il movimento è in salute lo si vede dalla competitività delle squadre Spagnole in Europa e dal grande numero di giocatori che escono dai vivai e vengono esportati all’estero.

Non serve neanche un ripensamento dell’idea stessa di stile della Nazionale spagnola come casa della tecnica. Non serve insomma un ritorno alle “Furie Rosse”. Questi due anni hanno mostrato che la tecnica può ancora essere la chiave vincente, basta soltanto aggiornare il sistema al calcio contemporaneo.

La Federazione deve ammettere prima di tutto a sé stessa che il vestito va ancora bene, ma serve aggiustarlo per farlo entrare meglio a chi lo deve indossare, che essere conservatori è quello che ha portato a questa situazione. Luis Aragonés ha iniziato tutto e lo ha fatto grazie alla capacità di capire cosa serviva con i giocatori a disposizione e al coraggio di andare avanti senza preconcetti. La Spagna da lì ha rivoluzionato sé stessa. Come spesso accade, chi deve gestire il post-rivoluzione finisce per innamorarsi dello status quo, risultando più conservatore di chi la rivoluzione l’ha fatta.

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