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Storie che non dimenticheremo dai Mondiali di Atletica
22 set 2025
La migliore spedizione italiana di sempre.
(articolo)
20 min
(copertina)
Foto IMAGO / Xinhua
(copertina) Foto IMAGO / Xinhua
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Se gli anni Ottanta e Novanta sono unanimemente considerati i decenni d’oro dell’atletica italiana, bisogna iniziare a pensare a qualche nuovo metallo, o pietra preziosa da usare per definire il decennio che stiamo vivendo. L’atletica italiana degli anni ‘20 è immune dal virus dilagante della retromania che attanaglia il calcio. Viviamo (di nuovo) nel migliore momento possibile, e non è solo una sensazione provata dai numeri delle medaglie - ai Mondiali di Tokyo appena conclusi l’Italia ha conquistato sette medaglie (un oro, tre argenti e tre bronzi), una in più dei Mondiali di Göteborg 1995, che da trent’anni si portano dietro l’etichetta di “migliori di sempre” (arrivarono un oro e due argenti dalla marcia, due bronzi da 4x100 metri maschile e da Ornella Ferrara nella maratona, l’oro di Fiona May nel salto in lungo). C’è anche la varietà e la profondità di interpreti nelle varie discipline: da una conferma della tradizionale eccellenza nella marcia, nel fondo e nei salti, a una nuova alba per il mezzofondo, i lanci e la velocità - pur grande assente in questi ultimi mondiali: e il fatto che sia una notizia dovrebbe già dire qualcosa.

Il confronto con Göteborg è affascinante ma è soprattutto simbolico. Per capire il significato di queste sette medaglie nel contesto odierno serve guardare alla storia recente dell’atletica azzurra. Prendiamo l’edizione più vicina nel passato dei mondiali, Budapest 2023: le medaglie erano state solo quattro - un oro, due argenti e un bronzo, arrivate da 13 finali. Gianmarco Tamberi vinceva l’oro nel salto in alto, Leonardo Fabbri nel getto del peso e la 4x100 capitanata da Marcell Jacobs erano medaglia d’argento confermando le rispettive crescite, e Antonella Palmisano consolidava il suo status di leggenda con un bronzo nella 20 chilometri di marcia.

A Tokyo è addirittura cresciuta la capacità della squadra azzurra di trasformare una finale in una medaglia - i sette podi arrivano da quindici finalisti. Il grande numero di azzurri partiti per il Giappone (89) è solo l’ulteriore prova di un movimento in salute.

SULLE STRADE DI TOKYO: ANTONELLA PALMISANO E ILIASS AOUANI
L’abbraccio tra Antonella Palmisano e la spagnola Maria Pérez sul traguardo della 35 chilometri di marcia dura quindici secondi: una lunghezza atipica per due avversarie. Pérez finisce le proprie fatiche due minuti prima di Palmisano, che è argento: la prima medaglia dell’Italia a questi Mondiali. La spagnola si inchina in segno di riverenza, e dopo averla abbracciata, aiuta Palmisano a slacciarsi le scarpe. L’azzurra si emoziona quando ammette che senza gli stimoli offerti dalla rivalità e amicizia con Pérez probabilmente non sarebbe riuscita a tornare a vincere una medaglia ai mondiali dopo due anni complicati, alle prese con diversi infortuni e con le ripercussioni psicologiche del ritiro dai Giochi Olimpici da campionessa in carica.

Palmisano è tra le migliori marciatrici al mondo da una decina d’anni, ma questa è stata la sua prima stagione alle prese con la 35 chilometri. Scegliere a 34 anni di cambiare specialità e “allungare” non è semplice: lei stessa ha definito questa transizione «conflittuale». Al momento dell’attacco di Peréz, a circa dodici chilometri dal traguardo, Palmisano non ha voluto reagire, continuando a marciare al suo ritmo nonostante i crampi e la fatica ad idratarsi. La sua seconda posizione non è mai stata messa in dubbio.

La marcia è una di quelle discipline che intrattengono poco il pubblico, i colpi di scena sono rari e spesso limitati alle scelte dei giudici sulla tecnica di marcia. Palmisano non lascia spazio a questa eventualità: ha uno stile di marcia sublime, inappuntabile - non è mai stata squalificata in carriera. Oltre alla medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Tokyo, prima di questa edizione aveva già vinto due medaglie di bronzo ai mondiali - nel 2017 e nel 2023 - ma sempre nella 20 chilometri; e questa volta, proprio la 20 chilometri l’ha tradita. Tra Palmisano e Peréz corrono cinque anni di differenza: quando si tratta di recuperare da una 35 chilometri di marcia cinque anni si fanno sentire, anche se tra una prova e l’altra c’è un’intera settimana per recuperare. Tra 20 e 35 chilometri la spagnola ha fatto doppietta d’oro, come a Budapest 2023: Palmisano si è ritirata poco dopo metà gara. Palmisano le ha ricambiato il favore della settimana prima aspettandola al traguardo; Peréz le ha dedicato la medaglia all’arrivo.

Dopo la vittoria della maratona dei campionati europei di maggio Iliass Aouani poteva accontentarsi. È uno di quei successi che cambiano radicalmente la vita di un atleta: per molti può essere l’apice della carriera, sicuramente di una stagione. Invece Aouani, un mese dopo aver conquistato il titolo europeo a Lovanio, in Belgio, scrive una lettera a sé stesso, che è anche un patto con chi quella lettera l’ha letta e firmata, in cui sancisce l’inizio del percorso verso i mondiali di Tokyo, dove ha conquistato una medaglia che all’Italia mancava da ventidue anni (il bronzo di Stefano Baldini a Saint-Denis): «Quel giorno è stato l’inizio di una nuova avventura che ha premiato lo spirito indomito di chi non ha paura di scalfire il suo nome nelle pagine di storia», scrive Iliass Aouani in un post su Instagram, con una verve degna di un grande prosatore dell’Ottocento.

Aouani a Tokyo parte con il venticinquesimo tempo di accredito (2h06’06”): è facile relegare questo crono all’insieme di risultati modesti - specie in un’epoca in cui i risultati delle Major ci hanno abituati a tempi stabilmente inferiori alle 2h03’. Ma le maratone dei campionati internazionali non sono costruite secondo i criteri delle grandi gare che possiamo definire “classiche” - che siano Major come Berlino, o Londra oppure gare velocissime come Valencia. I percorsi non sono disegnati per essere veloci, non si inseguono record. Più spesso i tracciati sono fatti per essere duri e complicati da interpretare: curve, sottopassi, cavalcavia, ponti. Inoltre non hanno una sistemazione nel calendario di gare che tenga conto delle migliori condizioni climatiche possibili: il caldo-umido delle città che ospitano i mondiali è soffocante, l’asfalto è rovente. Il meteo diventa un elemento determinante. Lo sanno benissimo i ventiquattro maratoneti su novanta che a Tokyo si sono ritirati - tra cui tutta la squadra etiope.

Tutto questo appiana le differenze tra gli atleti: e nella maratona si crea un equilibrio che apre la strada agli underdog come in nessun’altra disciplina. Aouani, con il durag che ha deciso di legarsi in testa come segno distintivo - senza grandi ragioni simboliche, per gioco e questione di stile - negli ultimi chilometri più decisivi e più impegnativi resiste agli attacchi. Dopo quarantadue chilometri di Battle Royale rimane nei tre che si giocano le medaglie: all’ingresso dello stadio sembra avere ancora la lucidità per lanciare la progressione, davanti al tedesco Petros e al tanzaniano Simbu. Invece bastano poche decine di metri per capire che dovrà restare a guardare a distanza la volata al centesimo dei primi due. Il suo bronzo mondiale è il coronamento di una stagione storica.

Non è un caso che tra tante medaglie, proprio la sua sia tra quelle che hanno ricevuto maggiori attenzioni. Iliass Aouani è il tipo di atleta che i video motivazionali li fa, non li ascolta. Arriva all’intervista post-gara preparato, non si dilunga nella retorica dei “sono senza parole” o “non so cosa dire”. Quando parla, sa benissimo cosa dire. La sua medaglia è la più politica di un mondiale lontano dalla politica: «Questo bronzo arriva dal nulla, dalle case popolari di Ponte Lambro, e spero che la mia storia sia di ispirazione per tutti. Mio padre sta per andare a lavorare in cantiere e sarà fiero di me». E poi conclude: «Non mi frega se diranno che sono un altro naturalizzato, un altro rubato dal Marocco, che Aouani è un cognome tipico sardo: sono contento di aver dato prestigio al mio Paese, che mi ha dato tantissimo. Questo è solo l’inizio, non sono appagato».

NADIA BATTOCLETTI: INSEGUENDO LA CIMA DEL MONDO
Quando Nadia Battocletti si lancia sull’ultimo rettilineo della finale dei 5,000 metri, per un attimo c’è la sensazione (confermata dai numeri) che quei cento metri scarsi possano bastarle per andare a prendere Faith Kipyegon, lanciata verso la medaglia d’argento alle spalle dell’imprendibile Beatrice Chebet. Della serie: sarebbero bastati cinquanta, cento metri in più per arrivare alla medaglia d’argento. In questa finale le keniane sono in superiorità numerica schiacciante - partono in quattro - e la sensazione è che buona parte delle attenzioni tattiche della super favorita Chebet siano rivolte a Battocletti, badata a vista dalla diretta interessata. Ne esce una gara tattica, di nervi più che di gamba, nella quale ha la meglio la velocità delle keniane, che partono solo sugli ultimi trecento metri con almeno mezzo serbatoio pieno per gestire in tutta tranquillità lo spirito battagliero di Battocletti - che si era messa al comando sulla campanella dell’ultimo giro.

Oggi la più credibile indiziata a mettere in discussione il dominio del Kenya sul mezzofondo femminile sembra essere Nadia Battocletti, e le premure delle atlete kenyane nei suoi confronti durante tutta la gara (Chebet la marca strettissimo dal primo metro di gara) lo confermano. Non è un'investitura di poco conto. Battocletti dà una misura di cosa voglia dire trovarsi in un discorso con atlete incredibili come Beatrice Chebet e Faith Kipyegon: «L’ho detto tante, tante di quelle volte: correre con loro, vederle in gara, vederle andare sotto i quattordici minuti [lo storico 13’58 di Chebet sui 5,000 metri al Prefontaines Classic di Eugene del 2025, ndr], sotto i ventinove [il 28’54 sempre di Chebet, sempre a Eugene, ma nel 2024, ndr] sono cose che nella mia testa sono da uomo». Fonti di ispirazione, ma anche target da mettere concretamente nel mirino con un lavoro che già nell’anno successivo all’ottima annata olimpica sta dando i suoi frutti.

Se l’argento nei 10,000 metri al secondo giorno di gare (dietro alla solita Chebet) ha rappresentato una bella conferma dello straordinario posizionamento olimpico - vi ricorderete dell’urlo di una Battocletti condizionata da un fastidio al tendine d’Achille sulla linea dell’arrivo, diventato uno dei manifesti della rinascita dell’atletica italiana - il bronzo nei 5,000 metri è addirittura il segno di una crescita rispetto allo scorso anno, quando su questa distanza a Parigi il nome di Battocletti si è aggiunto al lungo filotto di quarti posti - era stata terza classificata per poche ore, prima del reintegro di Faith Kipyegon sul podio. Guai a dare questa crescita per scontata: «con i diecimila, la qualificazione dei cinquemila, e un cinquemila così qualificato viene facile da dire “è normale prendere una medaglia, verrà semplice”». E non mi viene in mente qualcosa di meno semplice che sfidare il dominio keniano sul mezzofondo femminile. Forse, neanche a Nadia Battocletti viene in mente qualcosa di più difficile: ma con la consapevolezza che in questo 2025, in quei pochi metri mangiati con rabbia a Faith Kipyegon c’è un altro deciso passo nella direzione giusta per provare ad arrivare, un giro dopo l’altro, in cima al mondo.

FURLANI, DALLAVALLE E LA SCARAMANZIA
Entrambi in testa con la misura più lunga nel momento dell’ultima serie delle rispettive finali, Mattia Furlani e Andrea Dallavalle hanno guardato l’ultima prova dei più pericolosi tra i propri avversari in maniera totalmente diversa, approcciando il concetto di scaramanzia da due prospettive opposte.

Mattia Furlani, primo nella finale del salto in lungo con un saltone da 8.39 metri, trovato rovistando tra i suoi mezzi sconfinati al quinto salto di una serie che lo aveva visto fino a quel momento visto ai margini del podio, si aggira su e giù per la pedana mentre l’ex campione del Mondo Tajay Gayle - dietro di lui con un 8.34 - si appresta al suo ultimo salto. In questo momento, in tanti hanno negli occhi i flashback di un’altra finale mondiale del salto in lungo, sempre su suolo giapponese. Era il 2007, era Osaka: e all’ultimo salto della propria serie Andrew Howe aveva pescato primo posto e record italiano con 8.47 metri: Irving Saladino all’ultimo respiro cancellò la gioia di Howe con un autoritario 8.57.

Il fatto è che a vent’anni uno la scaramanzia non sa bene neanche cosa sia. Furlani guarda tutto il salto di Gayle: la rincorsa, l’impronta del sedere sulla sabbia, la scelta dei giudici sulla validità del salto (luce verde), e poi la misura: 8.04. È oro, è già ufficiale: Mattia si volta verso le tribune e fa segno a tutti di stare calmi, perché c’è un ultimo salto da fare. Esulta solo quando è tutto finito: si strappa il pettorale dalla divisa azzurra e lo mostra al pubblico. Prendete e godetene tutti: il più giovane atleta di sempre a vincere un oro mondiale nel salto in lungo, il primo italiano a farlo, e la più grande promessa sportiva dell’atletica italiana. Solo l’apprensione di una mamma e allenatrice possono moderare l’entusiasmo, ma solo per un attimo. Khaty Seck lo rimprovera: «Rimetti il numero, perché è possibile la sanzione». Lui abbassa lo sguardo e obbedisce; ma poi lei lo richiama: «Matti, Matti! Vieni dai, fatti abbraccia’».

Appena due giorni dopo, Andrea Dallavalle si trova nella stessa situazione di Furlani. All’ultimo salto della sua serie ha agguantato un 17.64 che vale qualcosa di più del primato provvisorio nella finale del salto triplo: è il miglior salto della sua carriera, e soprattutto è il gesto giusto al momento giusto. È quella roba che fanno i grandi del proprio sport.

Andrea Dallavalle ha qualche anno in più di Mattia Furlani. Dopo un inizio di carriera brillante, la sua parabola sportiva ha preso i sinistri contorni della favola del bravo ragazzo a cui è andata di sfiga, complice un brutto infortunio alla caviglia che dal 2023 ne ha compromesso la forma per tanto tempo - dopo il 2022 non è più riuscito a saltare oltre i 17 metri, fino a quest’anno. Nel 2025, però, è riemerso da un periodo difficile, e ha condito il tutto con un bel bronzo europeo indoor ad Apeldoorn. Eppure, nessuno lo aspettava veramente: la sua era una bella storia di riscatto, certo, ma di contorno rispetto alla presenza magnetica di un saltatore con il gene del killer instinct cubano come Andy Diaz. Insomma, quando vediamo il primatista Andrea Dallavalle voltarsi verso le tribune con la testa tra le mani mentre Pedro Pichardo (campione olimpico e mondiale) va in pedana per l’ultimissimo salto - come un mister troppo nervoso per guardare un rigore al novantesimo da cui potrebbe dipendere l’andamento della stagione -, capiamo bene perché il suo approccio nei confronti della scaramanzia sia ben più moderato rispetto a quello di Furlani. Il misfatto si compie lo stesso: Pichardo trova un 17.91 all’ultimo respiro, e si lancia in uno show da alpha della situazione. Dallavalle alza la testa e allarga le braccia verso il suo allenatore in tribuna. Con il sorriso sulle labbra, chiede la bandiera italiana per festeggiare il suo argento mondiale, prima dell’abbraccio con Andy Diaz. In testa ho ancora le parole che aveva detto ad Apeldoorn dopo il bronzo europeo indoor a inizio anno: «Come diceva un calciatore, sei mesi fa non mi voleva manco mia madre. Ora ho un bronzo europeo, e siamo solo a marzo». Ci aveva proprio visto lungo: era marzo, e il bello doveva ancora venire. Come scriveva Nikhil Jha qualche giorno fa in un bell’articolo, ora che Dallavalle è arrivato, non se ne vuole più andare.

LEONARDO FABBRI: UN GRANDE RITORNO
Due anni fa ai mondiali di Budapest, Leonardo Fabbri vinceva la medaglia d’argento nel getto del peso alle spalle di un colosso - in tutti i sensi possibili del termine - come Ryan Crouser. Da quel momento l’ascesa di Fabbrinho sembra inarrestabile: un bronzo ai mondiali indoor di Glasgow, un paio di record nazionali, un oro europeo nella rassegna casalinga di Roma 2024. È facile instillare il germe del dubbio anche nella testa di un fuoriclasse a cui non manca nulla per competere ai massimi livelli: un’Olimpiade dolceamara - chiusa al quinto posto - e una stagione indoor ampiamente sotto tono.

Per tornare ai massimi livelli non è servito poi più di tanto: sono bastati l’ottimo risultato dei campionati europei a squadre - in cui Fabbri ha contribuito all’oro finale con una super prestazione individuale -, il world lead di 22.88 (seconda misura italiana e settima di sempre) con cui si è presentato a Tokyo; e poi, ovviamente, la medaglia di bronzo mondiale. Arrivare a un mondiale da favorito, o quasi, nell’era di Ryan Crouser è una notizia: Fabbri ha mantenuto le aspettative con un lancio da 21.94 metri, appena tre centimetri più corto della sparata d’argento del messicano Uziel Muñoz. Crouser resta ancora irraggiungibile, ma il tempo è dalla parte di Leonardo Fabbri.

QUELLO CHE SFUGGE AI SOCIAL
Non ci sono solo le medaglie, e l’hype che giustamente scatenano sui social, a certificare il fatto che i mondiali di Tokyo siano stati un successo per l’Italia e che la Nazionale continui ad essere in salute. Il mezzofondo, soprattutto maschile, da circa tre anni sta vivendo un innalzamento del livello senza precedenti. Negli 800 e 1,500 metri l’eccezionalità dei risultati è ormai diventata consuetudine. Ogni gara è “la gara del secolo”, o “la gara più veloce di sempre”; se non fosse che i record mondiali resistono ancora, effettivamente durante la stagione le liste all-time vengono aggiornate con nuove prestazioni, soprattutto da parte di giovani ambiziosi.

Federico Riva e Francesco Pernici sono i due mezzofondisti italiani che quest’anno sono riusciti ad emergere nel caos del mezzofondo mondiale. Riva ha avuto una stagione impeccabile, il cui finale rischiava di essere rovinato da una caduta nella seconda semifinale dei 1,500 metri. Un incidente che però gli ha garantito l’accesso diretto alla finale (essendo stato danneggiato), dove si è preso il settimo posto. Partiva come ventottesimo, una bella scalata. Pernici è il classico ottocentista a cui piace prendere da subito il controllo della corsa e imporre il proprio ritmo, un frontrunner. Al suo primo mondiale a ventidue anni, con il trentesimo tempo di accredito, in semifinale ha fatto proprio questo: si è messo davanti e ha lanciato il gruppo, chiudendo al quarto posto. Il tempo di 1:43.84 è il suo nuovo record personale e record italiano under-23, abbattuto dopo quarantuno anni; non è entrato in finale per pochi centesimi. Durante l’intervista Rai tira fuori la fototessera del suo allenatore - ha corso tenendola nella parte laterale delle mutande - che a Tokyo non è potuto andarci: gli si spezza la voce.

Poco considerato forse perché strozzato dalla brutta serata di Jacobs e Tamberi, Edoardo Scotti nella terza batteria dei 400 metri ha abbassato il suo stesso record italiano di tre decimi: 44”45. Scotti è un talento che si è mostrato candidamente nelle categorie giovanili - campione europeo under-20 nel 2019 -, ma che sembrava essersi arenato, fermo sugli stessi tempi dal 2020. Quest’anno è tornato nella dimensione a cui apparteneva da ragazzo. Il terzo posto nella batteria di questi mondiali non dà forse la giusta misura del risultato di Scotti, che con questo tempo è diventato il decimo europeo di sempre della specialità, il terzo di questa stagione. L’Italia non ha mai avuto una forte tradizione nei 400 metri, mai un finalista mondiale o olimpico: forse con Edoardo Scotti (e Luca Sito, ex-primatista) ora c’è qualche speranza.

COSA POTEVA ANDARE MEGLIO?

Escludendo il record italiano di Edoardo Scotti, e la qualificazione in finale della 4x400 femminile, tutto il settore della velocità ha fatto fatica. E le staffette ne sono l’emblema. Quando le cose vanno bene si dice sempre «per vedere lo stato di salute del movimento bisogna guardare alle staffette»: questa volta nessuno ci ha pensato. Entrambe le 4x100 metri non si qualificano in finale: quella maschile perde subito il treno al momento del primo cambio quando Marcell Jacobs è urtato (o urta?) l’atleta sudafricano nella corsia a fianco - nonostante questo Jacobs pare aver corso uno dei migliori tempi della frazione; le donne al primo cambio non riescono ad arrivarci per via di un brutto infortunio della prima frazionista - encomiabile la scelta di onorare la gara nonostante il pesante gap accumulato. La 4x400 mista si qualifica in finale, ma siamo ben lontani dalla condizione dell’argento degli Europei di Roma 2024; la 4x400 maschile non era nemmeno qualificata. Unica luce la 4x400 femminile, arrivata in finale: metà quartetto è sfiancato dai tanti turni di gare nelle gambe, e si arena all’ottavo posto.

Nelle gare individuali nessuno passa il primo turno (compresi Tortu e Desalu) eccetto Jacobs e Dosso, che però finiscono ben lontani dalle rispettive finali. Pur senza medaglie, gli ostacoli si confermano una specialità in buona condizione: tutte le ostacoliste (100 e 400 metri) passano in semifinale, e per Lorenzo Simonelli si può scomodare il termine sfiga senza il rischio di sembrare fuori luogo, visto che è escluso dalla finale dei 110 metri a ostacoli per soli tre millesimi. L’unica nota negativa è Alessandro Sibilio: il primatista italiano dei 400 metri a ostacoli si ritira a metà gara per problemi con la ritmica tra gli ostacoli e qualche fastidio.

Uno dei risultati più inattesi di questi Mondiali è stata la mancata qualificazione in finale di Larissa Iapichino nel salto in lungo, in quella che lei stessa definisce la gara più brutta della sua vita, nel suo anno migliore di sempre - a inizio anno è campionessa europea indoor ad Apeldoorn, e neanche venti giorni prima dei mondiali vince per la seconda volta la Diamond League superando nientemeno che Malaika Mihambo. A Tokyo era tra le favorite non solo per una medaglia, ma per la vittoria finale: eppure, è andata poco oltre i 6.50 metri. Quando a Mattia Furlani hanno chiesto cosa avrebbe voluto rubare a Iapichino, lui ha risposto «la sua regolarità». Forse è questo che ci ha lasciato più stupiti della prova di Iapichino: che in una serie così regolare di risultati positivi, un miglioramento dopo l’altro, sul palcoscenico più importante abbia sottoperformato contro ogni aspettativa. Non fa niente, non cambia nulla del bel percorso che Iapichino sta facendo da ormai diversi anni, sotto lo sguardo attento del padre-allenatore Gianni - è subito arrivata la smentita di un’incrinatura nel rapporto professionale tra i due, in seguito a un supposto mancato incoraggiamento dell’allenatore durante le qualificazioni. È il primo mondiale in seguito alla conclusione di un importante ciclo olimpico: ci sta sbagliare, e Larissa Iapichino ci ha mostrato la normalità di una serata sbagliata, dove gira tutto male.

La specialità in cui abbiamo avuto la possibilità di portare quattro atleti era il salto in alto (grazie alla wild card di Gianmarco Tamberi, campione in carica). Di quei quattro l’unico ad aver superato la misura di qualificazione in finale è stato il più giovane: Matteo Sioli. Sioli, con 2.30 metri a diciannove anni, sembra essere il successore designato di Tamberi che ha appena passato la stagione peggiore della propria carriera. Il salto in alto è una delle specialità con maggior profondità dell’atletica italiana, ma a Tokyo (e in generale quest’anno) qualcosa nei suoi maggiori esponenti è andato storto.

DA DOVE RIPARTE L'ITALIA?
Fino a qualche anno fa, affinché si potesse anche solo contemplare l’idea di un mondiale di atletica con sette medaglie azzurre, la condizione necessaria sarebbe stata quella di un campionato in cui tutto fosse andato alla perfezione: i pochissimi big azzurri non avrebbero dovuto sbagliare la loro gara; a qualche sorpresa avremmo chiesto un’overperformance insperata, di quelle da raccontarsi ancora e ancora in stanche serate passate almanaccando le imprese sportive che ci hanno emozionato di più. Invece, nel mondiale con Tamberi e Jacobs a rincorrere la versione migliore di se stessi, con Andy Diaz alle prese con problemi in finale, senza Massimo Stano out per infortunio, con le staffette martoriate da problemi e sfortuna, e Lorenzo Simonelli fregato da tre millesimi di secondo, la nazionale italiana è riuscita a superare il miglior risultato della sua storia, concedendo ad alcune delle sue stelle il lusso di una serata sbagliata, con la tranquillità necessaria per superarla.

L’età delle atlete e degli atleti che hanno contribuito ad arrivare a questo risultato promette di dare continuità alla crescita in questo ciclo olimpico. E comunque, l’impressione è quella che nel tempo che passerà da oggi al prossimo grande appuntamento Outdoor - gli Europei del prossimo anno a Birmingham - sia maggiore la probabilità di sistemare ciò che è andato male, piuttosto che peggiorare ciò che è andato bene. Prima però, tra soli sei mesi ci saranno i Mondiali indoor, a Torun: nell’arena in cui ai tempi delle restrizioni Covid Marcell Jacobs vinceva il titolo europeo indoor segnando il suo primo record nazionale sui 60 metri e Gianmarco Tamberi arrivava secondo con i capelli ossigenati. Era il marzo del 2021: e con il senno di poi era il primo atto della grande corsa verso i Giochi Olimpici di Tokyo. In questo immenso gioco di specchi in cui vive l’atletica italiana, nella circolarità di uno spazio-tempo che da Tokyo è passato di nuovo da Tokyo, un po’ per caso, un po’ dando l’impressione di seguire qualche impenetrabile legge universale come in un grande racconto di Borges, sarà Torun il secondo passo della rincorsa italiana alle Olimpiadi di Los Angeles 2028?

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