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La rabbia e il femminismo di Serena Williams
28 dic 2018
28 dic 2018
Il 2018 è stato l'anno della contestazione di Serena Williams durante la finale degli Us Open.
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Serena Williams serve forte e sul corpo, la sua idea è giocare su un campo più stretto possibile. È sotto di un set ma all’inizio del secondo la sua avversaria, Naomi Osaka, non riesce più a costringerla a muoversi. Quando può giocare da ferma Serena Williams è semplicemente imbattibile, come Polifemo si può sconfiggere con l’astuzia ma non certo con la forza. È il momento più intenso di una delle più emozionanti finali degli US Open degli ultimi anni.

La risposta di Osaka è corta e Williams comincia a spingere, Osaka riesce a contrattaccare con un dritto lungo, che costringe l’avversaria a un recupero difficile con i piedi. Lo scambio finisce sulla diagonale di rovescio, ma al terzo colpo Williams fa quello che deve fare, cioè esce dal palleggio, con una palla corta di rovescio deliziosa, che quando tocca il cemento americano prende una leggera curva a destra e muore. Il pubblico si alza in piedi e applaude impazzito: tutti tifano per lei, perché è una grande donna e perché tutti vogliono essere testimoni della Storia.

Serena Williams è già parte della storia del tennis, in qualche modo è postuma a sé stessa, ma quella sera gioca per dare una consistenza ancora più leggendaria alla propria legacy: sarebbe il suo settimo US Open, e il 24esimo Slam, quello che le permetterebbe di eguagliare Margaret Court. Secondo l’International Tennis Hall of Fame: «Per la forza assoluta di prestazioni e conseguimenti non è mai esistita una tennista sua pari». Un anno prima stava letteralmente lottando per la propria vita su un letto di ospedale, in seguito a delle complicazioni dovute alla sua prima gravidanza, e in molti credevano che con il tennis aveva finito: questa è la grandezza di Serena Williams.

Naomi Osaka invece ha 20 anni ed è la prima giapponese a raggiungere la finale di un Grande Slam, la più giovane a farcela dal 2009. Ce l’ha fatta per un pelo, salvando tredici palle break a Madison Keys in semifinale. È nata in Giappone ma a 3 anni si è trasferita negli USA, dove è cresciuta con i poster di Serena in camera. Quando le chiedono delle sue emozioni non parla della possibile vittoria di uno Slam ma della semplice possibilità di giocare contro la sua eroina: «Questo suonerà male, ma sto solo pensando “Voglio davvero giocare con Serena”».

Come tutte le migliori partite di tennis, anche questo è innanzitutto uno scontro fra caratteri. Quello di Williams è sincero, emotivo, lunatico, forte; quello di Osaka è leggero, infantile, svagato ai limiti della freddezza. Quando la telecamera le inquadra dopo un punto vinto entrambe tornano verso il fondo del campo con aria serafica, cercando di impacchettare le emozioni dello scambio e di metterla in soffitta. Eppure sembra palpitare qualcosa di diverso dietro le loro facce di bronzo. Williams sembra fare un profondo sforzo di raccoglimento, ispira con gli occhi chiusi trattenendo una tensione sempre sul punto di esondare; Osaka passeggia assorta e indifferente, come fosse a un allenamento delle undici.

Nello scambio dopo, 2-1 per l’americana e servizio Osaka, Serena Williams conquista il primo quindici del game con una risposta di dritto stretto di puro polso, da ping pong. In quel game Osaka riesce ad annullarle due palle break, stando attenta a non far rientrare la sua avversaria in partita con la stessa cura con cui non si svegliano i draghi. Alla fine però Serena piega la resistenza di Osaka e si porta sul 3 a 1, a quel punto l’inerzia della sfida sembra capovolta, ma l’americana paga un inizio di set faticoso, dal punto di vista tecnico ed emotivo.

Poco prima, sull’1-1, Williams rischiava di perdere la battuta, dagli spalti arriva qualche voce. L’arbitro richiama l’americana, dandole il warning per coaching. Nel tennis è vietato ricevere indicazione dal proprio allenatore. A quel punto Williams rompe il velo di impersonalità che caratterizza di solito il rapporto tra giocatori e giudici di sedia e parla a Carlos Ramos in maniera insolitamente intima, chiedendogli di andare oltre le apparenze: «Capisco che tu possa pensare che quello sia coaching, ma io non imbroglio, voglio che tu lo sappia». Lo tratta come una persona e non come una vuota emanazione dell’istituzione tennistica.

Sul 3-1 e servizio, Serena Williams spreca tutto con un banale doppio fallo. A quel punto distrugge la racchetta, la lancia a terra e tira la testa all’indietro quasi preoccupata dalle conseguenze. Le arriva il secondo "warning" e quindi il "penalty point": partirà il prossimo game sotto di un quindici. A quel punto non si tiene più: «Io non imbroglio, non ho mai imbrogliato in vita mia, non era coaching quello di prima, mi devi delle scuse! Mi devi delle scuse». Punta il dito sull’arbitro: «Ho una figlia, non imbroglio, mi devi delle scuse!». Il pubblico, fino a quel momento compatto per la Williams, inizia a fischiarla come si fa con tutti i tennisti che non accettano quello che gli capita in campo con clinico stoicismo.

Osaka va 3 pari, poi toglie di nuovo il servizio a Williams. Al cambio campo l’americana sta ancora pensando all’arbitro. «Tu mi stai attaccando personalmente dicendo che ho imbrogliato, sei tu il bugiardo, non mi arbitrerai mai più, mi devi delle scuse, sei tu il ladro, mi hai rubato un punto!». A quel punto Ramos le dà il "penalty game" contro per abuso verbale. Quando entra il supervisor Williams la mette su un piano ancora più grande: «Se fossi stato un uomo non mi avrebbe trattato così». La partita è sostanzialmente finita, i game finali sono surreali, con il pubblico in subbuglio e Williams che accompagna la partita alla fine.

Durante la premiazione Williams piange, Osaka piange, il pubblico le ricopre di fischi, poi Serena prende il microfono e si assume la responsabilità di smorzare i toni, precisando che la rabbia non ha a che fare con la sua avversaria: «Vi dico solo che lei ha giocato alla grande, ha vinto il suo primo Slam. Festeggiamo Naomi, basta fischi, congratulazioni a lei, se lo merita».

Chi si aspettava però che Williams sarebbe tornata sulle proprie posizioni in conferenza deve essere rimasto deluso.

«Non posso sedermi qui e dire che non avrei dovuto dare del ladro all’arbitro, perché dal mio punto di vista mi ha tolto un game. Ho visto altri uomini dire agli arbitri parecchie cose. Io sono qui a combattere per i diritti della donna e per l’uguaglianza. Ho trovato sessista il fatto che mi abbia tolto un game. A un uomo non l’avrebbe mai fatto. Mi ha fatto perdere la testa. Io sono qui a combattere per le donne, per i nostri diritti, perché la Cornet possa togliersi la maglietta senza venire multata. Credo che ciò che è successo stasera possa essere da esempio per le donne che in futuro vorranno esprimere ciò che pensano, ed essere forti. Dopo oggi saranno autorizzate a farlo. Magari non ha funzionato per me stessa, ma funzionerà per altre, in futuro».

Devo ammettere che dopo aver visto la partita anch’io credevo che Serena Williams avesse esagerato, che l’arbitro non avesse fatto altro che applicare il regolamento - sebbene con un po’ di rigidità. Le telecamere mostreranno che l’infrazione di coaching c’è stata, e lo stesso allenatore lo confermerà.

Poi però c’è stato il modo con cui l’episodio è entrato nel discorso pubblico, e questo ha restituito senso a una reazione che sembrava fuori misura, dimostrando se non altro che le problematiche di cui ha parlato Williams esistono. Che metterla su un piano così grande - come quello della disparità di trattamento fra uomo e donna - non era poi così campato in aria.

Il caso più ai limiti è stato quello della vignetta pubblicata in Australia per l'Herald Sun, dove i tratti di Serena Williams sono estremizzati in modo caricaturale e in linea con stereotipi razzisti vecchi ma mai passati veramente. Mark Knight, l’autore, è riuscito a negare le accuse di razzismo: «Mi dispiace che le persone si siano sentite offese ma non ho intenzione di cancellare la vignetta». Ma oltre a questo caso eclatante tutti i giornali hanno sottolineato il “crollo nervoso della Williams”, il fatto che “ha perso la testa”; in altri si definisce la scena “triste e patetica”. Come alcuni hanno fatto notare, peraltro, gli arbitri di sedia donna devono fronteggiare molestie sessiste di continuo.

Vale la pena ricordare che il tennis è uno sport estremamente formale, dove i giocatori sono tenuti a rispettare un codice etico elaborato nell’Inghilterra vittoriana, in un’epoca cioè in cui qualsiasi espressione dell’individualità veniva interpretata come un’inaccettabile forma di anticonformismo. Ma saremmo fuori strada a considerare il tennis di inizio '900 come più conformista di quello attuale. Se i tennisti delle origini arrivavano almeno a giocare con questo formalismo diventando eccentrici, quelli di oggi - almeno la maggioranza di loro - sono arrivati a sacrificare del tutto la propria individualità sull’altare delle apparenze.

Per capire la resistenza al conflitto nel tennis, basta ricordare le parole di Naomi Osaka a fine partita, che ha semplicemente fatto finta di niente: «Non ho sentito nulla di ciò che è successo dall’altra parte della rete, perché ero di spalle e il pubblico era davvero molto rumoroso. Quando mi sono girata ho visto che ero 5-3, la cosa mi ha un po’ confuso. In generale, per tutta la partita ho cercato di guardare solamente a me stessa, e di rimanere concentrata sul mio tennis».

Per questo è stata così profonda e interessante la presa di posizione di Serena Williams, ed è per questo che è riuscita a suscitare tanta riprovazione, oltre che per il fatto che Serena Williams è un’atleta nera. Un’atleta nera particolarmente vincente, in uno sport creato e giocato solo da bianchi. Un trigger per la parte più razzista e retrograda dell’opinione pubblica.

Quando si è commentata la vicenda abbiamo dimenticato la quantità di molestie razziste che lei e Venus hanno subito nel corso degli anni. Forse vale la pena ricordare quello che è successo nel 2001 a Indian Wells, ad esempio.

Le sorelle Williams dovevano affrontarsi in semifinale ma a un’ora dalla partita Venus ha comunicato che un infortunio non le avrebbe permesso di scendere in campo (ma a quanto pare aveva avvisato la direzione del torneo molto prima). Quando Serena Williams è scesa in campo in finale contro Kim Clijsters la folla se l’è presa con lei, ma anche con la sorella e la sua famiglia. «Quando siamo scesi sugli spalti dello stadio siamo stati accompagnati da “boo” razzisti e dall’epiteto “negri”. Ho sentito un uomo, sui 70 anni, dirci “vi scuoierei vive”», ha dichiarato Venus. Le sorelle Williams hanno poi boicottato il torneo per dieci anni. Ma non stiamo parlando di un singolo episodio. Nel 2014 il presidente della Federazione russa di tennis, Shamil Tarpischev, ha chiamato le sorelle Williams “I fratelli Williams”.

Qualche anno fa il sociologo James McKay ha pubblicato un saggio su come i media hanno nel tempo usato gli stereotipi razziali e di gender, riguardanti la fragilità mentale e la passività femminile, per sminuire la rilevanza dei successi di Venus e Serena Williams, cercando di cambiarne la percezione nell’opinione pubblica. Nel commentare l’episodio degli US Open, il New York Times ha parlato apertamente di razzismo: «Il razzismo che dipinge le donne afro-americane come eccessivamente aggressive, impulsive, fisicamente intimidatorie e intimamente sub-umane».

Ciò che ha sempre dato fastidio delle sorelle Williams è che in qualche modo compromettevano il modello femminile che gli uomini stessi hanno plasmato a fine ‘800: quello di una donna fragile e remissiva, che poteva a malapena reggere la racchetta in mano, e che lo poteva fare solo per compiacere gli uomini. Le sorelle Williams sono troppo forti, troppo veloci, troppo rumorose. Quindi, automaticamente, il loro atletismo è stato associato alla loro etnicità.

Anche nel 2018 il dibattito negli Stati Uniti sulle questioni della razza e della parità di genere è stato aspro e ha preso pieghe anche eccessive e paranoiche. L’episodio di Serena Williams lo ha portato all’interno di uno degli universi più conservatori e reazionari, quello del tennis. E, sempre nel 2018, sono state diverse le frizioni fra la cultura puritana del tennis e la contemporaneità. Ancora durante gli US Open, Alizè Cornet è stata punita con un warning per violazione del codice per essersi cambiata la maglia durante la partita. Un gesto che gli uomini compiono al cambio campo ormai come fosse un rituale, che per le donne è addirittura vietato. Secondo il regolamento avrebbero il diritto di cambiarsi la maglia solo negli spogliatoi (è questo l'episodio che Serena Williams ha citato nella sua conferenza post-finale).

Dopo la difficile gravidanza dello scorso anno Serena Williams è tornata in campo a maggio, al Roland Garros. Lo ha fatto indossando un completo aderentissimo e nero che favorirebbe la circolazione sanguigna. Serena ha dedicato il suo vestito «a tutte le donne che hanno avuto una gravidanza difficile». Il completo ha ricevuto i complimenti del pubblico ma non quelli del direttore del torneo, Bernard Giudicelli, che ha dichiarato che in futuro il completo non sarà più tollerato, e che Serena è andata oltre la decenza. A difendere il diritto a vestirsi come si vuole - siamo nel 2019 - è intervenuta la leggenda Billie Jean King.

Williams si è poi presentata agli US Open indossando un tutù, attenendosi a un modello esasperato e comico di femminilità. Ha poi dichiarato che la scelta non aveva a che fare con le parole di Giudicelli, ma è stato difficile non leggere una provocazione diretta.

La Nike ovviamente si è appropriata della polemica. Noi ci possiamo vedere quella punta d’ipocrisia che caratterizza alcune battaglie civili negli USA, dove gli statement politici si mescolano alla logica capitalista, ma ci dovremmo sforzare anche di capire che in quella cultura è più naturale di quanto non lo sia da noi.

Neanche i campioni del tennis sono dalla parte delle donne. Rafa Nadal, ad esempio, non ha preso le difese di Serena Williams ma, anzi, ha dichiarato che il Roland Garros ha tutto il diritto di dare delle indicazioni sugli outfit da indossare. (Nadal del resto non brilla per progressismo, vista anche la sua battaglia contro la pari retribuzione tra uomini e donne, un tema più controverso che non possiamo affrontare qui).

Serena Williams ha dichiarato in una recente intervista che negli anni ha subito un body shaming continuo: «È stato difficile per me. La gente diceva che ero un uomo per la forza delle mie braccia. Ero diversa da Venus: lei è magra, alta e bellissima, e io sono forte e muscolosa - e ovviamente bellissima, ma in modo differente». Ora ha raggiunto una consapevolezza diversa, che la aiuta anche nel rapporto con la figlia, «Quando è nata Olympia aveva le mie braccia, e invece di essere triste e spaventata riguardo a cosa avrebbe potuto dire la gente, ero semplicemente felice».

Se non riusciamo a cogliere la grandezza di Serena Williams, non solo sportiva ma anche umana, forse abbiamo un problema. Serena Williams nella sua carriera sta lottando per le atlete nere, sta lottando per le atlete donne, ma sta lottando anche per un mondo del tennis meno banale, meno astratto, meno estraneo alle idee della nostra cultura.

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