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Il modellino
01 mag 2024
01 mag 2024
Un piccolo racconto per ricordare Ayrton Senna.
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IMAGO / HJS
(foto) IMAGO / HJS
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Sovrappensiero, Darione stava rigirandosi tra le mani la figurina di Ayrton Senna quando imboccò viale degli Abeti intorno alle undici. Aveva ancora in mente le immagini, viste alla TV nei giorni precedenti, degli incidenti sul circuito di Imola. Nelle prove del venerdì, Rubens Barrichello aveva portato la sua Jordan oltre i 200 chilometri orari. A causa del cedimento della sospensione, era uscito di traiettoria alla "Variante Bassa": la vettura si era alzata in volo prima di schiantarsi con violenza contro le reti di protezione. Incredibilmente, se l’era cavata con una frattura del setto nasale e una costola incrinata. Nelle prove ufficiali del sabato, invece, non era stato altrettanto fortunato Roland Ratzenberger: all’uscita della curva Tamburello,la rottura dell’ala anteriore e la velocità elevata avevano reso la sua Simtek ingovernabile. Il pilota austriaco era andato a sbattere contro il muro esterno della curva successiva ed era morto subito dopo l’arrivo in ospedale.

Darione accantonò quei pensieri quando arrivò al numero 12, che corrispondeva a un elegante cancello di ferro e a una bella villa di due piani: "Anselmi Giulio, avvocato; Serra Caterina, dottoressa", si leggeva sulla pulsantiera in ottone lucido. Quando il clac metallico gli diede il semaforo verde, entrò, si richiuse il cancello alle spalle e guardò ancora una volta la sua figurina: tra un paio di ore si sarebbe disputata la corsa del Gran Premio di San Marino. Anche se aveva ceduto alle dolci insistenze di mamma Rosa, che l’aveva convinto ad andare alla festa di compleanno di Valentino, avrebbe preferito restarsene a casa a fare il tifo per il suo idolo. Era stato papà Giancarlo, con cui condivideva le domeniche di gara, a trasmettergli la passione per i motori.

In gioventù, Giancarlo era stato pilota nelle categorie minori. Non era mai riuscito a fare il grande salto in Formula 1, e forse non credeva nemmeno di esserne all’altezza. Rosa era stata da subito la sua più grande sostenitrice: aveva rinunciato agli studi per seguirlo e vederlo sfrecciare da un circuito all’altro, sempre con il cuore in gola. Qualche anno e un matrimonio più tardi, gli era stata grata quando aveva lasciato il mondo delle corse alla notizia che sarebbe diventato papà. Giancarlo aveva trovato lavoro come rappresentante per una ditta che assemblava trattori, passando dalla velocità sui circuiti, a bordo di snelle e sinuose macchine progettate per sfidare i limiti dell’uomo, alla lentezza di quegli ingombranti elefanti d’acciaio costruiti per seminare vita nelle campagne.

Era strano immaginare suo padre al volante di un’auto da corsa, eppure quell’uomo sorridente nelle fotografie in soggiorno, con il casco sottobraccio e un piede appoggiato alla ruota di una Dallara, sembrava davvero una versione più giovane di Giancarlo.

Attraversando il vialetto di lastre di pietra irregolari che divideva un perfetto prato all’inglese, sorrise al ricordo di quelle foto. Quasi all’ingresso, sentì la voce di Davide dalla finestra:

«Oh, Darione, sempre in ritardo!»

Darione ripensò a come erano stati i suoi compagni della I C a ribattezzarlo così. Era, in effetti, grande e grosso per un ragazzino di dodici anni. Se ne era accorto all’inizio dell’anno scolastico quando alcuni studenti di terza avevano cercato di “arruolarlo”. Poi, appurata la sua bontà d’animo, lo avevano preso di mira: si divertivano a inventare rime per insultarlo, Darione bamboccione, Darione ciccione, Darione coglione, ma lui preferiva non reagire nella speranza che presto si sarebbero annoiati.

Quando lo assaliva il timore che queste angherie sarebbero continuate per sempre, si rifugiava in quell’immagine: Senna, con l’inconfondibile casco giallo cerchiato di verde e blu e il pugno alzato, celebrava la vittoria del suo primo titolo mondiale nel 1988. Darione fantasticava spesso sul sorriso di Ayrton dietro la visiera mentre tagliava il traguardo, se lo disegnava in testa, lo ritagliava e se lo appiccicava sulle labbra. E gli bastava leggere quella dedica col suo nome, scritta di pugno dall’asso brasiliano, per sentirsi capace di navigare tra la solitudine e i soprusi: “A Dario, com muito carinho, e con l’augurio di correre veloce sulle orme di papà”.

La porta si aprì.

«Buongiorno, signor Anselmi».

Un uomo sui quarantacinque anni in pantaloni eleganti, camicia e mocassini accolse Darione con l’aria di chi non ha tempo da perdere.

«Vieni, entra. Lascia pure il giubbotto nella stanza di Valentino. Se ti serve qualcosa, chiedi a Camila. Camilaaa? Uff, dov’è quella donna quando serve?»

Già in passato, Darione aveva notato una certa tensione quando l’avvocato era in casa, finché Valentino non gli confessò che i suoi genitori vivevano ormai quasi da separati. Aveva sperato che quel giorno ci fosse la signora Serra: un’adulta disinteressata era sempre meglio di un adulto scontroso. Camila sembrava invece uscita da una delle soap opera che guardava sua madre, non tanto per la provenienza latina, ma perché sembrava una di quelle domestiche complici che facilitano l’amore dei protagonisti.

Darione posò il giubbotto sul letto di Valentino e diede un’occhiata in giro. C’erano giocattoli che sembravano arrivare dal futuro: console di gioco, robottini, roller blade con lucine incastonate nelle ruote, uno stereo che sembrava una navicella spaziale. A occupare un quarto della stanza, nonché tutta la sua attenzione, c’era persino una pista di automobiline radiocomandate. Sebbene fosse già stato lì dentro, non riusciva ancora ad abituarsi a quella vista. Ripensò alla sua cameretta, ai giocattoli accantonati per far spazio a una collezione di modellini di auto di diverse dimensioni, o ai poster di calciatori e cartoni animati giapponesi sostituiti con piloti sorridenti, che si innaffiavano l’un l’altro sul podio con bottiglie di champagne.

A differenza delle altre volte, però, quella domenica la pista radiocomandata gli faceva meno effetto. Non aveva smesso di sognarla, ma le due promesse che aveva strappato al padre lo emozionavano di più: quell’estate Giancarlo lo avrebbe portato a guidare i kart per fargli vivere la velocità, ma soprattutto sarebbero andati a vedere Senna correre dal vivo. La data cerchiata in rosso sul calendario era l’11 settembre, giorno del Gran Premio di Monza.

«È nella tua stanza, vai a dargli il benvenuto. Io sono nello studio, se vi serve qualcosa chiedete a Camila. Non disturbatemi a meno che non sia davvero urgente»

Quando Valentino entrò, Darione stava ancora guardando la pista di automobiline.

«Vuoi giocarci?»

«Naah, magari un’altra volta. Tieni, ti ho portato questo, spero ti piaccia»

«Grazie», rispose Valentino prendendogli dalle mani un pacchetto con un fiocco e riponendolo in un angolo della scrivania assieme agli altri, ancora tutti incartati. «Vieni, sono tutti di là».

Appena girato l’angolo, i due furono sorpresi da Antonio, il viso occhialuto e l’espressione stralunata, con indosso il solito giubbotto di jeans imbottito di finta lana che non toglieva nemmeno dentro casa.

«Dov’eri scappato, Valentino? Eh? Ah, ci sei anche tu, Darione, eh?»

Si infilò in mezzo ai due ragazzi e mise un braccio intorno al collo di Darione.

«E cosa facevate tutti soli nella cameretta, eh?»

«Seee, vabbè, è una fissa la tua! Tu invece... che ci facevi dietro le piante?», ribatté Valentino, confuso alla vista di Antonio che era spuntato fuori da dietro un grosso vaso di filodendro.

«Controllavo che non fossero venusiani in missione sulla Terra. Magari ce li hai in casa e manco te ne accorgi, eh». L’espressione seria con cui Antonio aveva accompagnato la risposta era un rebus da decifrare.

«Sì, già. Senti, ce lo spieghi dopo come distinguere i venusiani dalle piante, va bene?»

Quando furono soli, Valentino borbottò con una punta di irritazione che lui aveva invitato solo Davide, ma avrebbe dovuto immaginare che quello si sarebbe trascinato dietro anche suo fratello. Tutti sapevano che Antonio aveva qualche ritardo, ma non era questa sua diversità che li metteva a disagio. Aveva spesso una sorta di ghigno che gli deformava le labbra, e muoveva le mani con scatti nervosi, sempre pronte a toccarti in modo snervante. Quando parlava, ti si avvicinava a tre centimetri dalla faccia e pareva non accorgersi mai dello scarso interesse che suscitavano i suoi monologhi. Di qualche anno più grande, Antonio aveva tante passioni, ma alieni e teorie del complotto non riscontravano un gran successo tra i suoi coetanei, figurarsi tra un branco di dodicenni.

Il soggiorno era un tripudio di palloncini, festoni, patatine, bibite e ragazzini urlanti. Darione seguì Valentino e salutò gli altri. Curvi sul tavolo, su cui erano poggiate diverse scatole di giochi di società, Davide, Felice e Stefano erano concentrati in una partita a Brivido. Monica, Giovanna e Manuela bisbigliavano in un angolo. Quando poco dopo arrivò anche il resto degli invitati, la festa si fece più vivace. Le ragazze avevano convinto Valentino a portare il karaoke in soggiorno. Monica e Giovanna avevano cantato un’accorata versione di T’innamorerai, la ballata pop di Masini che da un anno rapiva i cuori delle adolescenti, e persino Camila si era esibita in un paio di temazos in spagnolo. A Darione riusciva difficile ammettere che si stava divertendo e che sua madre aveva avuto ragione a insistere.

Quando Camila passò tra i tavoli per un altro rifornimento di pizzette e rustici fumanti, Darione approfittò della sosta per uscire dal salone e avviarsi verso il bagno. Prima di arrivarci, passò davanti alla porta socchiusa dello studio del signor Anselmi. Da quella fenditura, lo schermo dell’enorme TV appariva come una sottile e luminosa lama verticale, che restituiva solo in parte il primo piano di Senna in pole position, accompagnato dalla voce di Mario Poltronieri, «… Tensione quindi, e grande attesa, più ancora del solito si potrebbe dire, già altissima, per questa partenza dei sessantun giri del quattordicesimo Gran Premio di San Marino».

«Stai spiando il signor Anselmi, eh. Eh? Sai che non si fa!»

Darione sussultò. Il tempo di voltarsi e poteva già specchiarsi negli occhiali di Antonio.

«Checcavolo, quasi me la fai fare nelle mutande», rispose a bassa voce ma deciso, prendendolo per un braccio e trascinandolo via, sperando che il volume della TV avesse coperto le loro voci.

«Che vuoi Antonio?», gli chiese quando furono in corridoio.

«Sei un appassionato di Formula 1, eh?»

«Sì, e allora?»

«E non è che sei anche tifoso di Senna, eh? Eh?», continuò con tono più incalzante.

«Sì», confermò Darione in modo sbrigativo, mentre con l’orecchio cercava ancora di seguire la telecronaca, «… Sono proprio le prime centinaia di metri che già possono dare un indirizzo alla corsa». Doveva mancare davvero poco alla bandiera verde.

Senza dire altro, Antonio estrasse dalla tasca del giubbotto un modellino della Williams FW16, la monoposto con cui Ayrton si apprestava a correre il terzo Gran Premio con la sua nuova scuderia, dopo anni di vittorie al volante della McLaren. Era una replica davvero ben fatta, un risultato sorprendente considerate le dimensioni ridotte. All’interno dell’abitacolo era stato ricreato persino il pilota, con la testa piegata da un lato per simulare la sollecitazione a cui viene sottoposta quando l’auto è in curva. E poi il casco! Era anche quello una replica fedele del leggendario casco di Senna: giallo, con la doppia striscia verde e blu. Darione guardava quell’automobilina come un pilota guarda la bandiera a scacchi sventolare prima di tagliare il traguardo. Non si accorse del lampo che attraversò le lenti di Antonio.

«Se me la dai ti faccio scegliere cinquanta figurine di calciatori della mia collezione».

«Non se ne parla, eh»

«Cento figurine!»

«Non hai capito. A me di calcio non frega nulla, eh». Nonostante l’espressione spazientita, Antonio si avvicinò ancora di più a Darione.

«E che mi dici delle statuine dei Cavalieri dello Zodiaco

Roteò gli occhi in un’espressione teatrale, poi tirò fuori uno di quei suoi ghigni enigmatici.

«C’è una cosa che potresti fare».

«Bandiera verde, attenzione al semaforo, pronti per la partenza... rosso... via!». Dalla TV nello studio arrivava ovattata la telecronaca: «C’è stato già un incidente, un brutto tamponamento... A questo punto aspettiamo di vedere le decisioni del direttore di corsa...» L’incidente alla partenza aveva costretto i piloti ad andare al trotto alle spalle della safety car. Dopo cinque lentissimi giri, nella concitazione che sempre seguiva l’uscita della vettura di sicurezza, le monoposto ripresero velocità.

A casa Anselmi, Darione riuscì appena a sentire l’entusiasmo dei compagni alla proposta di Camila di servire la torta. Poi, senza che nessuno ci facesse caso, entrò in bagno accompagnato da Antonio. Davanti alla porta sembrò calare un silenzio innaturale.

Nello studio del signor Anselmi, la gara era ripresa soltanto da un paio di giri quando la regia inquadrò una vettura uscire di pista ad altissima velocità. Dalla porta socchiusa, la voce di Poltronieri faticava a trovare le parole adatte, «Attenzione, Senna, Senna è uscito, incredibile, è incredibile... Incidente violentissimo, pezzi che volano ancora... Sono immagini drammatiche, si è visto la vettura sparire dal teleschermo in alto nella curva... Il pilota sembra immobile, ma muove leggermente il capo, quindi c’è solo da incrociare le dita e...»

Alle 14:17, durante il settimo giro di gara, la Williams di Ayrton Senna era uscita di pista alla curva "Tamburello" a una velocità di 300 chilometri orari. Come sarebbe poi emerso dalle perizie compiute nei mesi successivi, il piantone dello sterzo aveva ceduto alle sollecitazioni e il pilota, non riuscendo più a curvare, aveva frenato bruscamente per ridurre la velocità. Ma era ormai troppo tardi: lanciatissima, la monoposto si era schiantata contro il muretto a bordo pista, prima di rimbalzare all’indietro e arrestarsi una cinquantina di metri più avanti.

Mentre in TV l’eliambulanza decollava con il brasiliano verso l’Ospedale Maggiore di Bologna, la porta del bagno si aprì. Ne uscì Antonio, che tornò in soggiorno con aria sorniona e studiata curiosità per l’andamento della festa. Al di là della porta, appena socchiusa, Darione reggeva la Williams FW16 dall’alettone, come un gatto morto per la coda. Senza quasi accorgersene, la lasciò cadere per tirarsi su i pantaloni, in un movimento meccanico. Sul pavimento, il pilota del modellino pendeva dall’abitacolo in modo del tutto innaturale.

In soggiorno, un coro di voci fanciullesche e gioiose intonava Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri Valentino, seguito da uno scroscio di applausi.Darione, non visto, si avviò lungo il corridoio che conduceva alla porta d’ingresso e uscì. Vagò per qualche ora con aria frastornata, posando ogni tanto lo sguardo sulla figurina, che teneva ora stretta nella mano destra. D’improvviso si fermò, e con occhi acquosi la osservò un’ultima volta. Quindi la strappò in due parti, poi in quattro e ancora in otto, prima di lanciarne i pezzettini al vento.

Quando rientrò a casa, sua madre corse ad abbracciarlo in un modo che percepì diverso, mentre Giancarlo camminava avanti e indietro davanti alla TV con espressione incredula. Darione era confuso. Trovò appoggio con i gomiti sul tavolo della cucina e si concentrò sullo schermo: l’ex pilota Michele Alboreto stava parlando delle misure da adottare per ridurre la velocità e aumentare la sicurezza per piloti e meccanici, «C’è soltanto una cosa da fare per ridurre drasticamente...» In quel momento, dallo studio lo interruppero per un collegamento urgente con l’Ospedale Maggiore di Bologna. Circondata dai microfoni dei giornalisti, in un’atmosfera tesa e carica di emozione, una donna in camice bianco e dal volto provato annunciò al mondo che «... Gli accertamenti elettroencefalografici che abbiamo terminato cinque minuti fa purtroppo confermano quella che era stata la diagnosi clinica di morte cerebraledi Ayrton Senna». Erano le 18:40 del primo maggio 1994.

Darione si lasciò cadere sulla sedia. Il nodo che aveva allo stomaco superò l’esofago, salì in gola e si sciolse, infine, in pianto.

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