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Moris Gasparri
La mitologia sarda di Gigi Riva
24 gen 2024
24 gen 2024
Come e perché "Rombo di Tuono" è diventato un eroe della Sardegna.
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Moris Gasparri
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Per me la carriera di Gigi Riva si può ridurre a due elementi essenziali: l’unicità della vittoria dello scudetto del 1970, e la scelta di legarsi al Cagliari, alla città di Cagliari e alla Sardegna a vita, durante e dopo la carriera calcistica. Sì, forse è troppo riduttivo, ma non posso farci niente se sono sempre rimasto affascinato, anzi quasi incantato, dal profondo e particolarissimo legame antropologico che ha unito Riva alla Sardegna, e dagli effetti prodotti su essa dal suo apparire vittorioso su un campo da calcio.

In questo senso, avvicinandomi alla figura di Riva - studiandola, anzi - ho sempre cercato di partire da una delle indicazioni fornite dal Vate dei “rivologi”, Gianni Brera, che ricordava come nell’evocare il calciatore varesino servisse una particolare deferenza dettata dal confronto con una natura eroica. Sono d'accordo con questa idea fin nel profondo: penso che Gigi Riva - l’eroe Gigi Riva - vada studiato con l'accuratezza con cui si studiano altri eroi, come Ulisse o Enea.

Scavare nell’eroismo di Riva significa scavare nel suo rapporto con l’isola, costruire ponti e connessioni tra le sue vicende sportive e la cultura sarda di ieri e di oggi, lavorando per rimandi e analogie. Esiste un connubio tra l’alterità della sua figura e l’alterità della Sardegna, quella Sardegna che è “un’altra cosa”, come ebbe a dire un secolo fa lo scrittore inglese David H.Lawrence. Una differenza visibile rispetto al resto d’Italia in senso di lingua, archeologia, posizione, anche di codice genetico come sappiamo dalle ricerche scientifiche del genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza.

Nei caratteri principali della figura di Riva, nel suo approdo nell’isola da un altrove esterno e nella sua successiva e progressiva indigenizzazione che lo ha portato a essere riconosciuto come sardo tra i sardi, o addirittura più sardo di molti sardi, c’è un’analogia strabiliante con un elemento della religiosità sarda arcaica. Secondo quanto ci è stato trasmesso dagli storici greci e latini dell’età classica tutti i grandi eroi mitologici della Sardegna arcaica - Sardus, Iolao e Norax - non sono nativi dell’isola, vi giungono da fuori. Forse nel mito si rispecchia la storia vera e propria, in particolare le invasioni/colonizzazioni che si sono succedute nel tempo: Sardus dalla Libia, Iolao dalla Grecia, Norax dalla Spagna. Arrivano ma non ripartono, mettono radici salde, si trasformano addirittura in eroi eponimi che danno il nome all’isola stessa (Sardus), o in fondatori di città (Nora fondata secondo il mito da Norax, Olbia da Iolao). Sardus diviene anche figura di culto divino, trasformandosi in Sardus Pater, la divinità suprema degli antichi popoli sardi venerata nel tempio di Antas, ancora oggi conservato e visitabile.

Nel suo approdare in Sardegna da una terra “straniera”, Leggiuno, sponda lombarda del Lago Maggiore, la figura di Riva assomiglia in maniera strabiliante agli eroi della mitologia sarda. Anche lui arriva da fuori per poi restare e diventare un riferimento devozionale per gli abitanti dell’isola, e anche lui è a suo modo un eroe fondatore, che si serve a questo scopo di un potere particolare, quello della grande vittoria sportiva.

Facciamo un altro passo indietro. Il posto dei sardi nel mondo è stato per secoli quello ritratto in una battuta, tanto sprezzante quanto icastica, pronunciata nel Cinquecento dall’arcivescovo spagnolo di Cagliari, Antonio Parragues de Castillejo, ed erroneamente attribuita nella leggenda popolare a Carlo V, suo coevo: i sardi sono pochi, privi di ragione e disuniti. Proprio perché privi di ragione, naturalmente destinati all’inferiorità e alla sottomissione a potenze esterne dotate invece di questo carattere, in una logica pienamente coloniale. Pocos, locos y mal unidos, così recita il detto nella lingua spagnola. È difficile spiegare a un pubblico contemporaneo, soprattutto giovane, che quel “locos” non va inteso nel senso festoso e gioioso della locura borisiana, ma in quello fortemente dispregiativo di stoltezza. È altrettanto difficile far comprendere come la Sardegna in cui approda nel 1963 lo straniero Riva non era nei suoi caratteri strutturali troppo dissimile da quella cinquecentesca, nonostante un secolo di unità nazionale, ed è sempre stato Riva stesso a ricordarlo a più riprese nelle sue interviste degli ultimi anni, con pensieri che ancora circolano sui social e sempre suscitano emozione, nei vari riferimenti alla terra di banditi, pastori e pescatori, alla terra vissuta dagli italiani esterni all’isola come confino punitivo per i carabinieri che avevano disobbedito alle regole, o per i grandi criminali, alla terra lasciata da legioni di lavoratori emigrati nel Continente o nel Nord Europa.

È su questo paesaggio umano e storico che hanno agito le sue imprese agonistiche, ed è sempre poco ricordato che la sua prima vera grande impresa fu quella di portare il Cagliari per la prima volta in Serie A, nel 1964. Fate attenzione: la prima Serie A come campionato a carattere nazionale venne istituita nella stagione 1926-27, quindi la squadra della principale città della Sardegna vi approdò quasi quarant’anni dopo. Quaranta! Un numero che racconta l’arretratezza economica e industriale di una terra che non esportava come oggi prodotti agricoli o sogni turistici con le sue spiagge incantevoli, ma povertà e bocche da sfamare. C’è un grande romanzo sardo utile come bussola per comprendere cosa fosse la Sardegna prima della modernizzazione, Il giorno del giudizio, scritto dal grande giurista nuorese Salvatore Satta. Bastano le sue descrizioni di contadini e pastori intenti a contare le ore della giornata, in una vita scandita da pena e sofferenze, senza possibile scampo evasivo, quella stessa radice tragica esperita dal giovanissimo Gigi, presto rimasto orfano di padre, poi anche di una delle sorelle e della madre, cresciuto anche lui con addosso l’odore e i segni della povertà.

Grazie ai gol di Riva accade che in questa Sardegna, nella stagione 1969-70, arrivi una nuova grande vittoria, lo scudetto. Nonostante i profondi processi di razionalizzazione matematica, tecnica e amministrativa appartengano nella modernità anche allo sport, la vittoria nelle grandi competizioni, che dello sport è il cuore e il motore, è un resto arcaico. Impossibile pensare che qualcosa di così straordinario sia il solo prodotto dello sforzo umano; impossibile pensare che una grande vittoria calcistica, per tutte le emozioni e gli effetti che è in grado di scatenare su vaste comunità umane, non possegga un fondo divino, una grazia che viene concessa dagli dei ad alcuni campioni per produrre questi momenti di rapimento estatico. Questo sentimento è esperibile nella sua purezza solo nelle comunità che hanno vinto poco, o, come nel caso del Cagliari di Riva, addirittura una volta sola. Non si parlerebbe del mito-Riva se non si fosse prodotto questo istante magico della vittoria, diventato un sempre. C’è in linguistica una figura, l’hapax legomenon, che designa la comparizione di una parola una sola volta all’interno di un’opera. La vittoria del Cagliari è un hapax legomenon dello sport italiano, la cui memoria dura nel tempo proprio in virtù della sua rarità e della sua apparente irripetibilità, in una logica di perfetta nemesi contro le squadre che vincono spesso e con frequenza, e che quindi non vincono veramente mai.

Mettere la Sardegna al centro della vita nazionale attraverso una vittoria, perché il calcio a partire dagli anni Sessanta diventa elemento centrale della cultura italiana e della sua modernizzazione, è stata una rivoluzione enorme. La modernizzazione sarda si è storicamente imperniata su figure arrivate dal Continente per avviare con capitali, idee e spesso il supporto statale lo sviluppo economico e industriale. Ancora oggi atterrando a Cagliari si vede il segno di questi processi, con i fumi della raffineria Saras della famiglia Moratti poco distanti. Anche l'attuale presidente del Cagliari, Tommaso Giulini, erede della Fluorsid (il complesso industriale chimico fondato alla fine degli anni '60 da Carlo Enrico Giulini), fa parte di questa traiettoria della storia economica e civile sarda. Anche l’Aga Khan arriverà da fuori a creare l’industria turistica. Solo a Gigi Riva, però, è riuscito di modernizzare l’isola senza alcuna traccia di colonialismo, diventando, da straniero, sardo, eroe fondatore di una nuova idea di Sardegna rinata attraverso i suoi gol come comunità finalmente orgogliosa, riscattata nel successo dopo secoli di invasioni, dominazioni, stenti, privazioni, emigrazioni, fame, povertà, disprezzo.

C’è un “prima” e un “dopo” Riva per l’isola e per la coscienza sarda, e se proprio gli va intitolato qualcosa, oltre allo stadio, sarebbe da intitolargli l’aeroporto di Cagliari (non ce ne voglia Mario Mameli), perché luogo simbolico di questo trapasso, di un arrivo contrariato in aereo con la sorella Fausta nell’estate del 1963 che si trasforma man mano in stabile dimora eroica.

Magari la modernizzazione della Sardegna, la sua apertura al mondo, lo sviluppo del turismo ci sarebbero stati lo stesso anche senza lo scudetto del Cagliari. Probabilmente, però, non ci sarebbe stato l’orgoglio di sentirsi finalmente riscattati, vincenti, considerati, che Riva ha mosso in maniera profonda, orgoglio che i padri hanno trasmesso ai figli, e i figli continuano a trasmettere ai nipoti dei loro padri, e così via in circolo. Ha scritto un filosofo tedesco, Hans Ulrich Gumbrecht, che il fondamento culturale dello sport e della sua bellezza risiede nel sentimento di gratitudine che i grandi campioni producono in chi li guarda competere. Niente più del legame tra Riva e il popolo sardo è questa riconoscenza e questo perpetuo rendere grazie. Gigi Riva ha scelto di diventare sardo, una scelta che prima di lui non era mai stata concepita o desiderata, e per questo motivo è diventato il “padre dei sardi” contemporaneo. Come nell’età arcaica si affidarono al dio venuto dalla Libia, in quella contemporanea si sono affidati e continueranno ad affidarsi a lui. “Quello è buono”, come disse una vecchina che lo ebbe in casa a Seui, nel sud della Sardegna, non riconoscendolo ma indicando la sua immagine appesa al muro. Sono espressioni di vera religiosità popolare, e la sua figura sembra in alcuni tratti davvero poter stare dentro il racconto evangelico. Certo, Gigi Riva non era solo questo: era anche il ragazzo che si divertiva a sfrecciare a piena velocità in Lamborghini sulle strade del Poetto, un Genij splendente che conquistò legioni di giovanissime per la sua bellezza, nell’isola e fuori, un divo. Ma oggi, a decenni dalle sue imprese e a poche ore dalla sua morte, è anche e soprattutto questo.

Riva non sceglie solo di diventare sardo, ma sceglie di restare sempre sull’isola, rifiutando le offerte delle grandi squadre del Nord per rispetto dell’affetto ricevuto, e di restarci sempre, anche una volta terminata la carriera, mettendo solide radici familiari. Questo fermo radicamento non può non richiamare quello del nuraghe, l’architettura che da più di tre millenni si conserva pressoché intatta nelle sue circa 7000 manifestazioni sparse nell’isola. Complessi architetturali giunti sino a noi da epoche lontanissime, attorno ai quali si sono sviluppate le prime forme di vita stanziali nell’isola, simboli assieme di grandezza e solidità, di qualcosa che ha i tratti dell’irremovibile e anche dell’impenetrabile. “Basaltico” ha definito il suo spessore umano l’allievo più importante di Brera, Gianni Mura, aggettivo scelto non a caso in quanto indicante la pietra con cui sono appunto edificate queste costruzioni. Saldezza capace di non vacillare nemmeno di fronte alle offerte economiche più allettanti provenienti dal Continente, quelle della Juventus degli Agnelli su tutte, ma anche quelle dell’Inter di Angelo Moratti, che a un certo punto pur di non farlo andare alla Juventus si adoperò, data la sua presenza industriale in loco con la Saras, per farlo almeno restare al Cagliari (aneddoto raccontato dal figlio Massimo qualche anno fa).

Riva saldo e fermo come un nuraghe anche nell’accettare la punizione del presidente Arrica che lo mise fuori squadra in conseguenza del rifiuto di trasferirsi alla Juventus subito dopo lo scudetto vinto, che in un’epoca di vincolo sportivo e società proprietarie dei cartellini costò al Cagliari un miliardo di lire di mancati guadagni. Piuttosto non avrebbe più giocato, impossibilitato a venir meno al patto stretto con un popolo divenuto progressivamente suo, dopo uno scetticismo iniziale, e divenuto ancora più suo proprio per queste caratteristiche comuni. Il nuraghe è una costruzione misteriosa, forse di natura difensivo-militare anche se il suo scopo non è mai stato pienamente accertato. Anche Riva ha sempre avuto una linea d’ombra difficilmente penetrabile, eroe solitario come Achille, per una sorta di autodifesa personale forse generata dalle sue vicissitudini tragiche dell’infanzia, acuita in età adulta dalla sua possibile depressione.

Nella biografia di Totti scritta da Paolo Condò ci sono due pagine molto significative sul carattere basaltico di Riva. Parlano di come, dopo la vittoria dei Mondiali del 2006 e il ritorno in Italia, si infuriò alla notizia che sul pullman scoperto diretto al Circo Massimo ci stessero per salire anche alcuni uomini politici che prima dell'inizio della missione in Germania avevano avuto parole non proprio accomodanti verso la squadra di Marcello Lippi. "Quando ha sentito che sul pullman scoperto diretto al Circo Massimo non saliranno soltanto la squadra e lo staff che l’ha assistita al Mondiale, ma anche altri addetti federali e soprattutto qualche uomo politico, ha fatto una piazzata", racconta la biografia di Totti "Lo vedo in fondo alla sala, scuro in volto: cercano di trattenerlo, ma lui ha deciso. Scende rapidamente la scalinata interna, sbuca nella piazza accanto al pullman parcheggiato, si fa aprire il vano bagagli dall’autista sbigottito, prende il suo trolley e se ne va, immagino alla ricerca di un taxi. Se già lo ammiravo prima, per il suo passato di campione e per quella disponibilità unica a mettersi sempre dalla parte dei giocatori, adesso sento di amarlo. Trovo preziosa la sua capacità di non perdonare, di non lasciarsi scivolare addosso tutto come invece facciamo noi, che in quell’atmosfera di festa fingiamo per quieto vivere di non ricordare cosa aveva detto Tizio, cosa aveva proposto Caio, quanto ci aveva insultato Sempronio". Vengono in mente le parole che Don Sebastiano, il protagonista de Il Giorno del Giudizio, utilizza per l'odiata moglie: Tu stai al mondo soltanto perché c’è posto”. È la trasposizione di un detto ancora oggi in uso nel parlato popolare dei sardi, e chissà che non gli sia balenato per la testa anche a Riva, vedendo quei politici in quel momento.

Sarebbe strano se un uomo cresciuto lontano della Sardegna arrivasse nella terza età della sua vita a pensare in sardo? La verità è che non esistono eroi universali. L’eroe ha un legame particolare con una comunità concreta, grande o piccola che sia. Riva è eroe in un senso ben specifico per la comunità dei sardi, così come Maradona lo è per quella dei napoletani, e Totti per la comunità dei romanisti. Gli altri possono provare ammirazione e trasporto per questi campioni, ma non potranno mai vivere questa particolare tensione emotiva propria del culto eroico. In un’ipotetica filosofia della storia del calcio italiano la figura di Riva anticipa infatti alcuni elementi salienti di quelle degli altri due protagonisti. Maradona condivide con Riva la parabola del riscatto collettivo donato a una comunità vittima di pregiudizi esterni, anche in questo caso attraverso la prima esperienza vittoriosa di sempre nella storia del Napoli. Totti invece condivide con Riva la permanenza a vita nello stesso club, il fatto di aver vinto un solo scudetto, e soprattutto l’aver sempre rifiutato le offerte di grandi club in rispetto della fedeltà accordata. Le forme in cui si esprime il culto eroico da parte delle comunità interessate sono però profondamente diverse, e raccontano anche della diversità di popoli, in particolare della riservatezza sarda.

Riva è rimasto a vivere a Cagliari anche al termine della sua carriera calcistica, ma sempre circondato da un affetto discreto e silenzioso: tutti lo vedevano e incrociavano per la città, ma solo in pochi si muovevano ad avvicinarlo. Il simbolo della sua “prossimità distante” è sempre stato il ristorante "La stella marina di Montecristo" del fidato oste Giacomo, vicino al porto, dove per trent’anni ha cenato da solo quasi tutte le sere, in un posto riservato e con una sedia speciale, una sorta di trono. I troni nella storia sono sempre serviti a innalzare, dividere, gerarchizzare, distanziare. Il trono di Riva era solo di poco rialzato, un trono umile, il trono meno trono della storia. L’oggetto della devozione è stato lì, visibile a tutti, ogni giorno nello stesso posto, eppure nessuno lo ha mai disturbato. Pensiamo Totti a cena tutte le sere nello stesso posto in centro a Roma, alla stessa ora, per decenni, in un ristorante normale e non certo esclusivo. Sarebbe impossibile, servirebbe un servizio d’ordine pubblico appositamente dedicato. O ancora pensiamo a Maradona e alle sue apparizioni a Napoli che ogni volta facevano letteralmente esplodere la città, iconizzate da Kusturica nel suo documentario. Proprio in ragione di questa riservatezza, l’amore incondizionato dei sardi per Riva si esprimerà magari in futuro nelle forme della poesia e del canto. In un magico anacronismo, è bello immaginare che Andrea Parodi possa dedicare a Riva la sua ultima magnifica interpretazione di No potho reposare, quella cantata qualche settimana prima di morire in conseguenza di una lunga malattia, nel settembre del 2006, nel suo ultimo concerto all’anfiteatro romano di Cagliari. “T’assicuro che a tie solu Giggi bramu, ca t’amo forte t’amo, t’amo e t’amo...”.

Cosa resterà della sua figura, adesso? Riva era Riva, una storia irripetibile. E no, per gli italiani non tornerà, contrariamente alla bella canzone dal sapore messianico di Piero Marras. Per quanta retorica potrà essere prodotta nei prossimi giorni, mesi e anni, per quante iniziative anche lodevoli potranno essere istituite e celebrate nel suo ricordo, di Riva non potrà restare nulla, per ragioni strutturali. Non c’è davvero nessuna dimensione etica della sua figura che sembra poter tornare nel calcio contemporaneo, se non attraverso l’immaginazione del rovesciamento e della sovversione radicale delle sue strutture materiali, tecnologiche, giuridiche e simboliche, immaginazione che al fischio d’inizio della Supercoppa in Arabia Saudita è parsa però utopia necessaria. L’idea che potesse esistere una democrazia calcistica delle grandi città italiane e dei loro club è già tramontata da qualche decennio. Il fondamento antropologico del calcio italiano contemporaneo risiede nell’appartenenza a una delle cinque grandi tribù di tifo che assieme formano il 90% dei quasi 25 milioni di italiani che si dichiarano tifosi e appassionati di calcio, e da questa prospettiva Riva è un personaggio alieno, soprattutto per le nuove generazioni, a differenza di Baggio, Totti o Del Piero, anche per la mancanza di quasi tutti i suoi gol su YouTube.

Sembra non esistere più in Italia l’idea di riscatto sociale da condizioni di povertà e marginalità che esplode nei corpi di giovani ragazzi provenienti da famiglie disagiate attraverso la pratica quotidiana e ossessiva del calcio, la vera causa, assieme al corredo genetico, della forza sportiva di Riva. Chissà, forse è per questo che sembrano non esistere più attaccanti centrali degni di nota, una carenza ormai strutturale del nostro sistema calcistico, che non crea scalpore o indignazione perché non c’è un sentimento collettivo che veda in questa produzione una priorità strategica, a cui accordare risorse, idee, investimenti, capacità, pensieri, dibattiti intensi, anche conflitti. Di Riva non resta niente, tranne il legame della gente sarda col suo eroe, un legame che ovviamente è tanto, tantissimo, se non tutto.

Si dice che un altro elemento architettonico caratterizzante della civiltà nuragica, dove venivano inumati e venerati i resti degli avi, siano le Tombe dei Giganti. In un senso etimologico ripreso da un filosofo come Vico, si è uomini perché si seppelliscono i propri cari, e homo deriverebbe da humare, e nella sepoltura risiederebbe il punto d’avvio della civiltà. Secondo una leggenda trasmessaci da Aristotele, gli antichi sardi avevano l’usanza di dormire vicino alle tombe dei propri eroi-avi, in modo da tenerne sempre viva la loro presenza e il loro influsso, in una trasmissione priva di distanze spaziali e temporali. Dopo migliaia di anni è quello che accadrà alla gente sarda ora. Riposare accanto al gigante Gigi Riva.

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