Se Lev Tostoj fosse vivo oggi e appassionato di NBA, probabilmente avrebbe scritto che tutte le franchigie felici si somigliano e che invece ogni franchigia infelice, è infelice a modo suo. I Minnesota Timberwolves, nella loro storia, sono stati decisamente infelici: nei 32 anni passati nella NBA hanno raggiunto i playoff solamente nove volte, otto delle quali tra il 1997 e il 2004 nell’era di Kevin Garnett, con sette eliminazioni al primo turno e una sola finale di conference. La loro percentuale di vittorie del 39.4% è semplicemente la peggiore tra le franchigie attualmente nella NBA.
Eppure, almeno prima di mercoledì sera, non si trovano nemmeno nel punto più basso della loro storia. In primo luogo, per la presenza di Karl-Anthony Towns, che pur reduce da due anni terribili dal punto di vista personale prima ancora che cestistico rimane un talento assoluto. A lui si aggiunge Anthony Edwards, che nel suo primo anno nella lega — dopo essere stato chiamato con la prima scelta assoluta del Draft 2020 — ha mostrato dei lampi di élite quantomeno atletica. E c’è un roster attorno a loro che, pur con delle evidenti disfunzionalità a livello difensivo, ha quantomeno una chance di potersi giocare uno degli ultimi posti al torneo play-in, specie se verranno confermati i miglioramenti intravisti sotto la guida del nuovo allenatore Chris Finch, arrivato lo scorso febbraio al posto di Ryan Saunders.
Soprattutto i T’Wolves sembrano essere l’unica destinazione davvero sensata per Ben Simmons, che giusto pochi giorni fa ha ribadito la sua intenzione di non giocare mai più con i Philadelphia 76ers. Minnesota è tra le poche squadre in grado di mettere assieme un pacchetto di giocatori quantomeno utili per i Sixers e, soprattutto, ha più urgenza delle altre squadre di costruire una squadra vincente, individuando in Simmons il giocatore giusto per stabilizzare la difesa e allo stesso tempo coesistere pacificamente con Towns ed Edwards sul lungo periodo dal punto di vista tattico. Dopo un’estate a fari spenti in cui il principale movimento di mercato è stato l’arrivo di Patrick Beverley, l’unico aggiornamento atteso sui T’Wolves doveva essere la notizia dello scambio concluso per Simmons; invece nella serata di mercoledì è cambiato tutto all’improvviso, con il licenziamento del capo della dirigenza Gersson Rosas che ha gettato la franchigia nello scompiglio.
Le colpe di Rosas e le tensioni della dirigenza
In questa epoca è decisamente inusuale che un dirigente venga licenziato in NBA. O meglio: è inusuale che venga effettivamente ammesso che sia stato licenziato, mentre di solito si cercano delle formule più diplomatiche come “separazione consensuale” o “decisione di prendere strade diverse”, almeno per salvare le apparenze. Invece quello di Rosas è stato un vero e proprio licenziamento in tronco che ha colto di sorpresa l’intera NBA, non solo al di fuori della franchigia ma anche al suo interno.
Bastano tre lettere per capire che anche Karl-Anthony Towns è stato colto di sorpresa da quanto accaduto, ma anche altri giocatori non si aspettavano che tutto accadesse così in fretta, visto che Rosas era presente in palestra e partecipava ancora a tutte le riunioni la mattina del suo licenziamento.
Rosas era arrivato a Minneapolis nell’estate del 2019 con il compito di ricostruire la squadra dopo l’epoca Tom Thibodeau, che al netto di una partecipazione ai playoff — tutt’altro che scontata vista la storia dei T’Wolves — aveva lasciato macerie all’interno della franchigia, specie dopo il tumultuoso addio di Jimmy Butler. In meno di una stagione aveva provveduto a cambiare interamente il roster attorno a Towns e a Josh Okogie, gli unici due giocatori mantenuti dal regime precedente, e nel suo secondo anno ha licenziato anche Ryan Saunders (sostanzialmente “imposto” dalla proprietà al momento del suo arrivo) assumendo Chris Finch, portato via dai Toronto Raptors a stagione in corso in una mossa decisamente inusuale e non priva di polemiche, visto che persino l’associazione allenatori (oltre a giocatori del calibro di Damian Lillard) aveva criticato apertamente il “processo” di selezione che non aveva tenuto in considerazione allenatori di colore, in primis il quotato assistente David Vanterpool che sembrava l’erede naturale per quel posto, almeno ad interim.
Un autogol comunicativo che aveva già fatto intravedere delle crepe nel modo in cui Rosas (non) è capace di rapportarsi con il resto del mondo. Dopo un inizio di carriera agli Houston Rockets come braccio destro di Daryl Morey, Rosas aveva assunto il posto di capo della dirigenza di Minnesota anche per cancellare una brutta parentesi con i Dallas Mavericks durata appena tre mesi nel 2013 prima di tornare all’ovile a Houston, ufficialmente per “divergenze con la proprietà”. Quella di Minneapolis è durata due anni, ma anche questo biennio è stato costellato da incomprensioni e tensioni, almeno per quanto ci è stato raccontato negli articoli che sono stati pubblicati su ESPN, The Athletic e lo Star Tribune.
Tutti i report raccontano di una situazione tesissima all’interno della dirigenza, descrivendo il suo regno come “disfunzionale” e “complicato”, nel quale Rosas imponeva giornate lavorative estremamente lunghe (salvo non tenere conto degli input che venivano forniti dai suoi collaboratori) e senza un giorno libero in quasi due anni, tenendo conto anche della pandemia e dei ritmi serratissimi che ha imposto alla NBA per rimettersi a pari con il calendario (i T’Wolves però non hanno partecipato alla bolla di Disney World). Bisogna anche sottolineare come nello stesso pezzo di The Athletic — che secondo quanto scritto dal beat writer Jon Krawczynski era già al lavoro su un pezzo sulla cultura “tossica” all’interno della dirigenza dei T’Wolves, prima che tutto degenerasse in maniera spettacolare — altre fonti interne hanno descritto Rosas in termini molto meno demoniaci, parlando bene dell’ambiente di lavoro da lui creato e descrivendo le tensioni come “del tutto in linea con quelle delle altre squadre”.
Non è nemmeno così importante conoscere quale delle due parti abbia ragione: quello che è evidente è che Rosas non sia riuscito a tenere assieme il suo gruppo di lavoro, spaccandolo quantomeno in due parti tra quelli che erano con lui e quelli contro di lui. Ad esacerbare ancora di più gli animi già piuttosto tesi si sarebbe aggiunto l’addio a un’istituzione dei T’Wolves, lo scout Zarko Durisic che faceva parte della franchigia da venti anni, e soprattutto la rottura totale tra Rosas e il suo principale assistente Sachin Gupta, che — casualmente oppure no — è ora stato promosso al suo posto.
Il ruolo di Sachin Gupta nell’addio di Rosas
Gupta è uno dei personaggi di culto del sottobosco delle dirigenze NBA. Se siete malati di pallacanestro, con ogni probabilità avrete usato almeno una volta il suo lascito più importante del suo passaggio a ESPN negli anni 2000, cioè la creazione della “Trade Machine” con il quale controllare che uno scambio di mercato possa funzionare secondo i complicati meccanismi del salary cap NBA. In realtà poi ha avuto una carriera interessante partendo dall’MIT di Boston (dove conobbe Daryl Morey) passando poi ai Rockets (dove ha conosciuto Rosas), ai Philadelphia 76ers nell’era di Sam Hinkie (che in più di un’occasione lo ha indicato come mente dietro ad alcune mosse del Process) e quindi Detroit, dove era assistente GM prima di essere chiamato da Rosas come vice-presidente delle operazioni cestistiche a Minneapolis.
Rosas e Gupta durante la notte del Draft 2020 in compagnia di Gianluca Pascucci, dirigente italiano nel front office dei T’Wolves (David Sherman/NBAE via Getty Images).
Tra Rosas e Gupta però tutto sembra essere degenerato quando nel mese di luglio il primo ha impedito al secondo di tornare ai Rockets, dove avrebbe avuto un ruolo ancora maggiore e soprattutto uno stipendio migliore. Rosas ha giustificato la decisione come una difesa della franchigia, dato che permettere a un membro di così alto livello di passare a una concorrente avrebbe dato un vantaggio competitivo troppo grande ai Rockets, specie a pochi giorni dal Draft (nel quale però i T’Wolves non avevano scelte al primo giro) e dalla free agency (dove nessuna delle due, per la verità, è stata particolarmente attiva). La situazione è degenerata al punto da allontanare Gupta dal campo di allenamento, impedendogli di entrare fisicamente nella facility e dandogli il permesso di cercare un altro posto di lavoro, salvo poi rientrare a inizio mese con l’intervento diretto della proprietà — la quale, evidentemente, aveva già idea di sostituire Rosas con Gupta, facendolo diventare il primo dirigente di origini indiane a ricoprire un ruolo di così alto livello in una franchigia NBA (dopo che Rosas era stato “precursore” allo stesso modo per i dirigenti di origine latina nel 2019).
A sua discolpa Rosas ha fatto trapelare il sostegno dato a Gupta per il suo passaggio ai Sacramento Kings come capo della dirigenza nell’estate del 2020, ruolo che poi è andato a un altro membro della “scuola di Morey” come Monte McNair. Ma è evidente che nel colloquio con il proprietario Glen Taylor a Gupta sono state date rassicurazioni sull’imminente addio a Rosas, il cui licenziamento — come abbiamo appreso a cose già fatte, come spesso accade in questi casi — non era più una questione di se, ma di quando.
Lo strano limbo della proprietà dei T’Wolves
Ad aggiungersi al caos in casa Timberwolves, infatti, ci sono anche le vicende legate alla proprietà. Dopo una lunga trattativa con diverse cordate, infatti, lo storico proprietario 80enne Glen Taylor — miliardario, ex membro del senato del Minnesota, nonché editore dello Star Tribune, il quotidiano locale — ha trovato l’accordo per cedere la franchigia all’imprenditore Marc Lore e all’ex stella della MLB Alex Rodriguez, i quali però assumeranno il controllo della squadra (per la quale pagheranno in totale 1.5 miliardi di dollari) solamente a partire dalla stagione 2023-24, quindi piazzando la franchigia in un inusuale limbo di due anni. Secondo quanto scritto da ESPN, i due nuovi proprietari avevano già valutato l’operato di Rosas e avevano in programma di sollevarlo dalle sue responsabilità, facendolo diventare di fatto un “dead man walking” negli ultimi mesi pur permettendogli di eseguire alcuni scambi come quello per Beverley.
Ramona Shelburne di ESPN ribadisce che noi siamo stati presi di sorpresa, ma all’interno della franchigia le persone vicine alla nuova proprietà non erano così sorprese.
Non è certo una novità che un nuovo gruppo di proprietari voglia presentarsi con nuove idee e con nuovi volti, e quasi sempre a farne le spese è il capo della dirigenza con il suo staff (e anche la posizione di Finch a questo punto deve essere messa in discussione). Le turbolenze all’interno del gruppo di lavoro di Rosas, a cui si aggiungono anche dei rapporti tutt’altro che idilliaci con diversi agenti e numerosi dirigenti rivali, non hanno sicuramente aiutato la sua causa. A testimoniarlo ulteriormente si aggiunge anche quanto accaduto quest’estate con Juancho Hernangomez, a cui inizialmente era stato permesso di volare a Tokyo per partecipare alle Olimpiadi con la nazionale spagnola nonostante un infortunio, salvo poi fermarlo in fretta e furia a poche ore dal debutto, portando un inferocito Jorge Garbajosa (presidente della federazione spagnola) ad attaccare personalmente Rosas con tanto di nome e cognome. Hernangomez, peraltro, è stato poi scambiato pochi giorni dopo a Memphis.
Ad aggiungere un dettaglio pruriginoso all’ingarbugliata vicenda del licenziamento di Rosas c’è poi anche la notizia confermata da più fonti di una sua relazione extra-coniugale con una dipendente dei Timberwolves scoperta dalla proprietà negli ultimi giorni. E sebbene non sia stata descritta come la ragione per l’allontanamento del capo della dirigenza, è stata comunque la proverbiale goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo per quanto accaduto negli ultimi due anni, arrivando alla decisione di licenziarlo a pochi giorni dall’inizio del training camp e, soprattutto, nel pieno della trattativa per Ben Simmons.
Il futuro prossimo dei T’Wolves (con Simmons?)
Al di là del dettaglio sulla sua relazione interna alla franchigia, Rosas paga soprattutto un record di 42 vittorie e 94 sconfitte nel suo biennio alla guida dei T’Wolves, il peggiore di tutta la lega in questo lasso di tempo. Non che non fosse preventivato: l’obiettivo era quello di raggiungere una scelta alta al Draft (che è arrivata in Edwards) per quanto sia stata sprecata una 6 su Jarrett Culver (presa da Phoenix in cambio di Dario Saric e la 11 e già ceduto a Memphis nel corso dell’estate dopo due anni a dir poco opachi). Lo scambio di D’Angelo Russell, però, non ha dato ancora gli effetti sperati, un po’ per i suoi infortuni (in un anno e mezzo ha disputato appena 52 partite, molte delle quali senza Towns) e un po’ perché costruire una difesa accettabile con lui, KAT ed Edwards sembra un’impresa complicata. Lo scorso anno, nei 327 minuti in cui hanno condiviso il campo, il rating difensivo dei T’Wolves è stato di 116 punti concessi su 100 possessi (per fare un paragone: i Sacramento Kings ultimi in NBA hanno chiuso a 116.5), al netto però di un interessantissimo 120.9 di rating in attacco che fa ben sperare per il futuro.
Aggiungere Simmons a questo nucleo di giocatori, anche sacrificando due pedine come Malik Beasley (anche lui fuori a lungo lo scorso anno per una sospensione e per un infortunio) e l’intrigante Jaden McDaniels (che se rimarrà ai T’Wolves sarà titolare in ala) potrebbe rappresentare il pezzo in grado di dare senso al resto del puzzle, sistemando una difesa colabrodo ma allo stesso tempo avendo abbastanza trattatori di palla in campo per non dovergli richiedere di creare dal palleggio a metà campo, il più grosso punto debole dell’australiano. Non è chiaro se la promozione di Gupta — anche se è già cominciata la ricerca di un nuovo capo della dirigenza — aumenterà o diminuirà le chance di arrivare a Simmons: di sicuro se vuole essere confermato alla guida della dirigenza dovrà lasciare un segno, e con un po’ più di salute — in particolare da Towns, su cui è lecito avere grandi aspettative quest’anno dopo l’ultimo biennio — dovrebbe finire per avere un record ampiamente migliore del suo predecessore.
Rosas aveva lavorato a lungo per raggiungere un accordo con il suo vecchio capo Daryl Morey che non si è mai concretizzato: il cambio alla guida dei T’Wolves potrebbe accelerare la situazione, visto che Gupta potrebbe avere maggiore “urgenza” rispetto al suo predecessore e i Sixers sembrano intenzionati a risolvere la grana Simmons il prima possibile, visto che il suo valore non è destinato a migliorare nei prossimi mesi. Un’eventuale trade si giocherebbe, più che sui giocatori da spedire a Philly (non particolarmente appetibili, seppur non disprezzabili), sulle scelte al Draft e soprattutto sulle loro eventuali protezioni.
Ma soprattutto l’eventuale scambio per Simmons è cruciale per capire anche il futuro di Karl-Anthony Towns. A un certo punto è lecito pensare che KAT, che compirà tra poco 26 anni ed è in scadenza nel 2024, possa anche stancarsi di rimanere in un’organizzazione disfunzionale come questi T’Wolves, vista anche l’incapacità di costruirgli attorno una squadra almeno da playoff oltre ad avere un qualche tipo di stabilità dirigenziale, e potrebbe diventare la "Prossima Stella Scontenta" a chiedere la cessione, cambiando inevitabilmente il corso della franchigia. Ora sta a Gupta e ai futuri/presenti proprietari Lore e Rodriguez convincerlo che può vincere anche in Minnesota, ma di sicuro — al netto delle motivazioni che abbiamo già visto per il licenziamento di Rosas — quanto successo negli ultimi giorni avrà avuto degli effetti su Towns, e di riflesso potrebbe averne sul resto della NBA.