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(di)
Valentino Tola
Mina vagante
11 feb 2015
11 feb 2015
Il Barcellona di Luis Enrique sembra ancora un enigma irrisolto, alla ricerca di un equilibrio tra individualità e identità di gioco.
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Valentino Tola
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Fra sensazioni altalenanti e una struttura ancora in via di definizione, al Barcellona 2014/15 una sola cosa non manca di certo: la fame. Nella complicata missione di restituire slancio a una squadra infiacchita dalla routine e da un logorio fisiologico, Luis Enrique ha posto una condizione non negoziabile: non una goccia di sudore deve essere risparmiata. Chi lesina sforzi, soprattutto se non è un pezzo grosso e quindi può essere sacrificato per far arrivare meglio il messaggio, può anche farsi da parte - vedi la discutibile cessione (seppure in prestito) di Gerard Deulofeu dopo un paio di amichevoli giocate sottoritmo. Questa filosofia ha come obiettivo il recupero sul campo di due caratteristiche che sarebbero indispensabili per qualsiasi squadra competitiva ma erano sempre meno presenti nell’ultimo Barça: movimento e aggressività.

 

La seconda caratteristica si traduce nel pressing alto, il segnale più appariscente della fame ritrovata. Da questo punto di vista, il lavoro di Luis Enrique si nota. Il suo Barça è tornato a pressare e ad attaccare gli spazi. Lo stesso stimolo che Guardiola nel suo primo anno da allenatore riuscì a trasmettere a una squadra allora basata proprio su un pressing animalesco e tanta profondità, ancor più che sul perfezionamento del possesso-palla degli anni successivi.
Le analogie fra il Barça di Guardiola e quello di Luis Enrique però finiscono qui, e in generale sarebbe bene non contemplarle proprio per onestà di analisi. Fare la faccia cattiva nel calcio non è tutto, e il flop gigantesco del Brasile all’ultimo Mondiale lo dimostra. Puoi avere tutta la voglia di pressare del mondo, ma se quando lo fai le distanze non sono quelle giuste allora ti stanchi e basta.

 

Le difficoltà del Barça di Luis Enrique sono state finora di ordine tecnico-tattico, nel trovare un sistema di gioco equilibrato e che valorizzi le qualità di una rosa molto

, dal livello elevatissimo ma non priva di buchi e potenziali incompatibilità.

 



Il primo obiettivo era di tornare a trasmettere agli avversari una chiara sensazione di minaccia, che negli ultimi tempi è sfumata sempre di più nello stanco ripetersi del seguente meccanismo: palla verso l’ala → retropassaggio al centro → palla verso l’altra ala → di nuovo al centro. Nessuno cadeva più nella trappola di un ingranaggio così ripetitivo. Il Barça del ciclo vincente usava le fasce solo come riferimento per attirare gli avversari su un lato e creare spazio al centro a Messi, Xavi e Iniesta, e lentamente gli avversari hanno maturato la convinzione che tanto vale attendere al centro e cedere al Barça le fasce, dove sarebbe incapace di creare pericolo in maniera diretta.
Questa aridità creativa nella scorsa stagione è arrivata a trasformarsi in impotenza pura e semplice in partite come quelle con l’Atlético Madrid, nella quale la sensazione era che il Barça potesse passarsi il pallone anche per tre giorni senza inquietare Courtois.

 

Quindi, occorreva recuperare profondità a tutti i costi. E qui Luis Enrique si è lanciato in uno degli esperimenti tattici più arditi visti di recente. Deve aver pensato: dato che l’ultimo Messi non riesce più a reggere da solo tutto l’attacco, che il trucchetto del “falso 9” ormai non se lo beve nessuno, e che ho la fortuna di disporre di Neymar e Luis Suárez: perché non giocare proprio con tre-attaccanti-tre, e mettere la squadra al loro servizio?
Non due ali e un centravanti, non un falso-centravanti e due non si sa che cosa: proprio tre attaccanti centrali; non tutti con uguale libertà di movimento (Messi è un po’ più uguale degli altri) ma comunque su binari meno rigidi rispetto al gioco di posizione classico del 4-3-3 blaugrana.

 

Nei primi tempi Messi è sembrato beneficiare della mossa, poiché altri due attaccanti gli consentivano di andarsi a prendere palla come voleva e al tempo stesso non mancava pressione sui difensori centrali avversari. Alla lunga, però, questa mossa non ha persuaso. Nei primi mesi è mancato Suárez causa squalifica e i sostituti, al di là dell’entusiasmo e dei colpi interessanti della promessa Munir, alla lunga hanno mostrato la corda. Movimento tanto, ma movimenti corti e incapaci davvero di smuovere le difese avversarie, sia nel caso di Munir che in quello di Pedro.
Poi questo sistema dei tre attaccanti centrali, posta l’assoluta libertà di Messi, richiede agli altri due attaccanti maggior lavoro direttamente sui difensori avversari, e cioè movimenti in profondità (a generare spazi per i centrocampisti) o tagli dentro-fuori (a generare spazi per gli inserimenti dei terzini, da soli incapaci di trovare il fondo) ma anche spalle alla porta. Esposti i limiti di Pedro e Munir, è chiaro che tutte queste altre cose non le puoi chiedere nemmeno a uno come Neymar.

 

La maggiore libertà di manovra in zona centrale era una potenziale manna anche per il brasiliano, chiaramente limitato in un ruolo di semplice esterno, ma va detto che Neymar è un giocatore che difficilmente crea spazi ai compagni muovendosi senza palla. A questo si aggiunge un altro difetto, ovvero “il tic da pubblicità della Nike”: quando riceve palla si ferma qualche decimo di secondo e sembra mettersi in posa, per preparare il doppio passo o la triangolazione, e restituirla talvolta con un certo ritardo quando la difesa avversaria si è già ripiazzata. Un difetto che non ha a che fare con l’egoismo ma con tempi di gioco ancora non “europei”, o non sempre almeno. Attaccanti senza troppa capacità di penetrazione (Munir e Pedro) e un Neymar che tende a defilarsi o venire indietro per prendersi la palla mettendo fra sé e la porta troppi avversari, hanno gradualmente depotenziato il nuovo Messi-sistema coi tre attaccanti centrali.

 

E questa non è la maggior difficoltà incontrata dall’esperimento di Luis Enrique, che in primis ha patito la mancanza di equilibrio nelle transizioni difensive. Anche quando Suárez ha sostituito Munir e Pedro con più peso e movimenti incisivi là davanti, il Barça a palla persa è continuato a sembrare semplicemente non sostenibile. Partite contro pari rango come il PSG al Parco dei Principi e Madrid al Bernabeu hanno certificato questa scarsa competitività. I tre attaccanti centrali hanno logicamente richiesto una posizione molto avanzata ai terzini per compensare esternamente: Jordi Alba e Alves facevano praticamente da ali fisse, evidenziando una scarsa pericolosità sul piano offensivo se incaricati di gestire da soli la fascia (manca il dribbling) e lasciando uno spazio enorme alle loro spalle in cui gli avversari potevano ripartire a piacimento. Talvolta sono stati proposti correttivi fin troppo forzati, come la posizione defilata e bloccata delle mezzali Iniesta e Rakitić nella prima giornata con l’Elche; altre volte la fragilità si è palesata in maniera ancor più evidente quando mezzala ha giocato Xavi, con una propensione minima allo spostamento laterale.

 


Un’immagine già utilizzata nel “Fondamentali” del clásico del Bernabeu, ma che torna utile per riassumere i limiti della proposta iniziale di Luis Enrique, con le fasce scoperte in transizione difensiva.



 



L’ultima sistemazione tattica, emersa gradualmente dopo l’inserimento di Suárez, passa per un ritorno al 4-3-3 più classico, con gli attaccanti esterni ben aperti e, soprattutto, Messi a destra. Come ai primi tempi con Rijkaard, come nella maggior parte della stagione del

. Ma è un altro Leo.
Se si sollevasse un attimo lo sguardo dalla classifica cannonieri (nella quale l’argentino è sceso a un risicato gol a partita, poveretto) ci si renderebbe meglio conto di quanto scandalosamente bene stia giocando Messi. Di nuovo brillante sul piano atletico, magari con picchi di velocità minori palla al piede rispetto a un paio di anni fa ma con una mobilità ritrovata (il messaggio di Luis Enrique deve essere arrivato anche alle sue orecchie) e una partecipazione costante alla manovra che rendono il Barça dipendente da lui come mai prima, specie in una fase in cui il declino di Xavi fa ricadere su Messi anche il peso di organizzare gli attacchi.

 

E in questa veste di regista offensivo, ci si accorge meglio anche di un tocco di palla che, seppure ben lontano dalle vette maradoniane della punizione a due dentro l’area della Juve, nel calcio odierno non ha nessun rivale. Altri coprono distanze più lunghe, ma nessuno ha questo tocco in spazi così ristretti, nessuno è così capace di mettere chiunque davanti al portiere.
Un tocco che ci lascia alla fantasia romantica di un Messi a fine carriera che si accosta a un lato del campo e fa coprire al pallone, grazie al suo sinistro, le distanze che lui non ha più voglia o non ha più gambe per coprire, un po’ come Hagi al Galatasaray.

 


Il nuovo sistema del Barça. Alves e Messi sono i veri registi, le mezzali quindi si allontanano dalla palla e tagliano in zone più avanzate.



 

Lasciando da parte il romanticismo, vediamo i vantaggi estremamente pratici di questo “vecchio-nuovo” Messi ala destra. Il vantaggio è che sulla fascia l’argentino ha più possibilità di ricevere, e la profondità esterna che negli ultimi due anni è mancata al Barça te la restituisce la sua sola presenza. Con il dribbling diretto ovviamente (chi leggendo le righe precedenti può sospettare di un Messi che si dedica ad altro perché non riesce più a dribblare può chiedere informazioni al povero Jesús Gámez dell’Atlético Madrid... tanto più che il 10 blaugrana rispetto al passato sembra fare affidamento anche sul dribbling verso l’esterno, non solo a convergere verso il centro) ma anche con la semplice capacità di attrarre avversari sul suo lato e smarcare Alves in sovrapposizione o, sporadicamente, il taglio esterno della mezzala destra Rakitić/Rafinha.

 

La posizione di Messi non obbliga ad avanzare Alves già in partenza, il Barça non si scopre da quel lato e questo, oltre agli ovvi vantaggi difensivi (un uomo in più dietro la linea della palla in transizione), implica un maggior coinvolgimento del brasiliano nel fraseggio iniziale: senza più l'obbligo di fungere da semplice riferimento esterno, Alves recupera la sua qualità di “regista occulto”, dimostrata sin dal Siviglia di Juande Ramos.
La connessione Alves-Messi è il sostegno strutturale del Barça in quest’ultimo ottimo mese. Se l’avversario attende basso, Messi largo rende finalmente utili gli spazi laterali, e Alves non scopre la sua zona perché prima di divagare centralmente Messi gli ha già dettato il tempo della sovrapposizione con cui trascinerà dietro anche l’avversario di fascia (eliminando con ciò una pedina del potenziale contropiede avversario); quando invece l’avversario tenta il pressing alto sulle linee di passaggio da Alves a Messi, l’abilità di palleggio dei due permette di uscire pure di fronte a tentativi molto aggressivi come quello dell’Atlético Madrid nell’andata di Coppa del Re. La dai a Messi sotto pressione sulla destra e lui te la restituisce pulita, infiocchettata e con la dedica.

 


La società Alves-Messi stavolta contro il pressing alto dell’Atlético (Liga). Sono loro il fulcro della manovra, la mezzala (che sia Rakitić o Rafinha) accompagna e basta in zone più avanzate.



 

E se il Barça sovraccarica tanto il sistema difensivo avversario sul lato dove agiscono Messi e Alves, la logica vuole che l’altro lato risulti più scoperto. Questo semplifica molto il compito di Neymar: laddove nel sistema con i tre centrali i suoi particolari movimenti e i suoi tocchi di troppo potevano appesantire la manovra, qui - pur dovendo giocare in una posizione di esterno più rigida e lontana dal fulcro del gioco -, con l’avversario sbilanciato sull’altro lato, riceve più spesso con il solo terzino avversario da puntare, e dimostra di divertirsi non poco.

 


La qualità spostata sulle fasce. Anche Neymar ne beneficia, e anche Iniesta accompagna lateralmente.



 

Va poi aggiunta l’importanza di Suárez. Nonostante le polemiche per un rendimento realizzativo finora molto al di sotto delle attese, i movimenti aggressivi dell’ex Liverpool danno maggiori margini a Messi e Neymar per convergere al centro, aggiungono pressione sui difensori centrali avversari e maggior possibilità di sorpresa al Barça sulle respinte e le “seconde palle”.
Con il gentleman uruguagio il Barça ritorna a un centravanti “catalizzatore” alla Eto’o, dopo la parentesi gloriosa del falso 9. Fallito l’esperimento dei tre attaccanti centrali, il Barça adesso sembra fare l’esatto contrario, traslocare tutto il talento sulle fasce (a Messi-Alves si aggiunge Iniesta che da sempre ama divagare lateralmente, appoggiando Neymar), ma l’efficacia sarebbe minore se i blaugrana non avessero riguadagnato una presenza vera in area di rigore. La pessima partita di Elche (non inganni lo 0-6 finale), giocata con Messi falso centravanti, è la dimostrazione

dell’indispensabilità dell’uruguagio: primo tempo con gol su furbata da palla inattiva e per il resto zero occasioni, in un sistema di gioco che chiaramente ha fatto il suo tempo e che ormai penalizza per primo proprio lo stesso Messi.

 

Con l’attuale disposizione dei suoi tre solisti offensivi, Luis Enrique spera di assicurarsi un’autosufficienza offensiva che permetta alla squadra di avanzare e pressare in blocco senza però scoprirsi troppo dietro la linea della palla, come nel tentativo iniziale coi tre attaccanti centrali.

 



Anche con questo visibile miglioramento, il Barça resta però una squadra non del tutto equilibrata. Il problema, pare incredibile considerando la tradizione recente, è un centrocampo che non riesce più a esercitare controllo sul ritmo della partita. Se il Barça attuale è legato mani e piedi a Messi nell’organizzare la propria manovra offensiva, sarà legato anche alla sua particolare concezione del gioco. Messi è, e resterà, un giocatore portato alla ricerca dell’accelerazione decisiva, anche a 40 metri dalla porta avversaria (come anche il suo socio prediletto Alves). Se fa arrivare palla a Messi prima e meglio possibile, il Barça impone un ritmo insostenibile per l’avversario nelle sue fasi migliori, ma quando il ritmo cala al centrocampo manca la capacità di congelare il gioco.

 

Di quando in quando capita ancora di vedere uno

dare lezioni ai compagni, e questo è grave. Il direttore ha lasciato cadere la bacchetta e nessuno l’ha raccolta. Non può Busquets, affermatosi a grandi livelli proprio a partire da un rapporto simbiotico col genio di Terrassa. Busquets era l’uomo-sponda di Xavi, che gli girava attorno, gli lasciava lo spazio e gli restituiva la palla puntuale come un muro su cui si esercita un ragazzino a scuola calcio. Ma senza Xavi su cui fare perno, lasciargli il primo passaggio è tutta un’altra storia.
C’è poi il “caso Iniesta”: seppure in chiaro miglioramento nelle ultime partite, il

almeno da due anni, a parte qualche striscia di partite magiche, offre al suo club un rendimento mediamente inaffidabile. Sembra assurdo se si pensa a un giocatore che nei momenti decisivi appare quasi sempre (specialmente in Nazionale), ma nella routine Iniesta non crea superiorità né si propone come leader della manovra (a differenza di Xavi, sempre nel vivo, Iniesta ha sempre avuto la propensione a defilarsi un po’ per poi riapparire in maniera decisiva, solo che ultimamente troppo spesso si defila e basta).

 

Nemmeno l’innesto di Rakitić ha fornito una soluzione: e anche tenendo in conto il talento indubbio del croato, le ragioni per l’ottimismo erano poche sin dall’annuncio dell’acquisto. Rakitić ha firmato la miglior stagione della sua carriera in un Sevilla contropiedista che liberava completamente sulla trequarti il suo fantastico ultimo passaggio. Il “gioco di posizione” blaugrana è un habitat completamente diverso, al quale il croato si è adattato con grande impegno (anche a palla persa) ma senza mai brillare veramente, un compitino svolto con precisione ma non senza una certa lentezza nell’esecuzione (è incredibile come giocatori che in altri contesti sembrano mostrare il massimo della disinvoltura tecnica nel sistema blaugrana possano accusare qualche limite, persino Cesc Fàbregas). Più sciolto e abituato ai canoni della Masía il fratellino di Thiago Alcantara, Rafinha, che ha una vivacità e una brillantezza tecnica in prospettiva perfette per completare un triangolo sul lato destro con Alves e Messi (la posizione di ala destra, dove brillò maggiormente nel prestito al Celta, è resa inaccessibile dalla concorrenza).

 


Prima al posto di Rakitić c’era Xavi, appoggi più corti, continui e sicuri invece di tagli a portare via i difensori a Messi. Con Leo e Alves a gestire la maggior parte delle azioni, la manovra del Barça è ora tendenzialmente più verticale e portata ad accelerare. Con i suoi bei pro, ma anche qualche contro nel caso in cui (in azioni come questa) la palla vada persa, col centrocampo “svuotato”.



 

Anche l’idea tattica consolidata di Luis Enrique pone la questione del centrocampo in termini diversi. L’asturiano è sempre stato abituato a iniziare la manovra dal vertice basso del centrocampo, spesso arretrato in una

fra i due difensori centrali, da Oriol Romeu a Gago fino a Fontás/Oubiña nel Celta (anche se solo nel girone d’andata 2013/14). Con Busquets inadeguato a gestire questo primo passaggio e le mezzali che sia per caratteristiche che per filosofia di Luis Enrique tendono ad allontanarsi dal pallone (quando Messi non salta subito l’avversario e converge verso il centro, i tagli dentro-fuori di Rakitić a portargli via l’uomo possono svuotare un po’ la mediana), manca un po’ una bussola nel mezzo.

 

Quando il Barça non riesce a mettere sotto l’avversario facendo la partita con le accelerazioni dei tre attaccanti, semplicemente finisce con l’allungarsi: cosa che si tende a vedere nei secondi tempi, e che nel caso evolvesse verso un nuovo Barça, capace di accettare partite più fatte di transizioni (e imporre l’attacco forse migliore al mondo), non sarebbe necessariamente un male, ma che per ora evidenzia più che altro disorganizzazione. La partita di ritorno di Copa del Rey con l’Atlético, una roulette russa da una metà campo all’altra vinta per pura superiorità dei solisti, rimane uno sproposito.

 


Naturalmente i tre attaccanti non rimangono rigidi. In qualche momento, quando la libertà di accentrarsi di Messi non viene debitamente compensata, il Barça continua a soffrire in transizione difensiva. Qui con gli attaccanti tutti al centro e Alves che deve fare l’ala, rimane il solo Busquets (fuori quadro) a contrastare il rilancio avversario. Vietto lo anticipa e nasce il momentaneo vantaggio del Villarreal al Camp Nou.



 

Vista la situazione del centrocampo, sembra quasi che la storia del

blaugrana sia pronta a compiere un bel giro di lancette all’indietro e, dopo il regno di Xavi, torni a reclamare un regista proprio dove tutta questa storia iniziò: davanti alla difesa, dove Cruijff lanciò Pep Guardiola. La pedina che completi gli slanci verticali del Messi-sistema con la massima continuità nel possesso-palla. In quest’ottica l’acquisto estivo ideale sarebbe stato più Kroos che Rakitić, e si comprendono le attese attorno al canterano

.

 



Arrivati a febbraio, il Barcelona di Luis Enrique resta un enigma irrisolto: non sai mai come giocherà, ed è come una mina vagante che può colpire indifferentemente se stesso o gli avversari. L’aspetto positivo è che in linea generale ha riacquistato pericolosità: anche nella fase di partita con minor controllo, e forse proprio in ragione del minor controllo, sai comunque che nell’azione successiva può sempre creare un gol. Talvolta “incasinandole”, è tornato comunque a smuovere le partite, uscendo dalla routine del gioco orizzontale delle precedenti stagioni. Nel caos a volte i vari Messi e Neymar sembrano perfino giocare più liberi.

 

D’altra parte, è anche una squadra che deve ancora consolidare una propria identità: non sai mai se l’ultimo cambio di Luis Enrique sarà davvero quello definitivo (negli innumerevoli tentativi, per decenza non abbiamo citato il 3-3-4 scoperto ai limiti del porno visto al Camp Nou contro il PSG). E comunque, anche nella sua versione più convincente, continua a dipendere anche troppo da due individualità, ovvero Alves (prossimo alla scadenza del contratto e intenzionato a non rinnovare: anche questo dettaglio dà l’idea di una certa labilità) e soprattutto Messi.

 

Una squadra che per potenziale tecnico, alcune fasi di gioco offensivo travolgenti e personalità indiscutibile al momento sembra più adatta a una manciata di serate di Champions che alla regolarità della Liga.

 
 

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