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Gian Marco Porcellini
Non è mai esistito un difensore come Paolo Maldini
12 mag 2020
12 mag 2020
Ricordo di uno dei più grandi di sempre.
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Gian Marco Porcellini
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Negli ultimi 66 anni di storia del Milan sono state solo cinque le stagioni in cui non c’è stato un Maldini all’interno del club. Di questi 61 lunghi anni di Maldini al Milan, ben 26 sono rappresentati dalla esperienza di Paolo - prima come giocatore e poi come direttore tecnico. La stirpe, com'è noto, ha la sua origine in Cesare Maldini, suo padre e capitano del Milan che alzò la Coppa dei Campioni nel 1963 nonché collaboratore tecnico in periodi differenti, e magari, chissà, verrà portata avanti da uno dei suoi figli: Christian, attualmente alla Pro Sesto, o Daniel, trequartista della Primavera rossonera che ha esordito in prima squadra lo scorso 2 febbraio contro il Verona.


 

Per quanto non vada sottovalutata la carriera da giocatore di Cesare, e non conoscendo oggi il futuro di Christian e Daniel, la famiglia Maldini oggi deve il suo nome sopratutto al ricordo da giocatore di Paolo, uno dei più grandi difensori della storia del calcio. Una di quelle carriere per cui non è fuori luogo il termine di predestinato. 


 

Paolo Maldini è entrato nelle giovanili del Milan nel 1978 e debutterà in Serie A appena sette anni dopo - il 20 gennaio 1985, ad appena 16 anni. Per il talento che aveva, Maldini ci ha messo pochissimo a togliersi di dosso l'etichetta di "figlio di Cesare" e da quel momento in poi la sua carriera ha brillato per un quarto di secolo di tante qualità diverse. Oltre alla longevità di un giocatore da 1028 partite, di cui 902 con la maglia rossonera (un record), in questo pezzo vorrei approfondire soprattutto in cosa consisteva la sua essenza da calciatore, che a mio modo di vedere si può tradurre in primo luogo con il termine versatilità. 


 

Questo lo si può vedere superficialmente anche solo dal fatto che Maldini ha ricoperto tutti i ruoli della difesa a 4 e a 5, rivelandosi un elemento centrale in ben tre diversi cicli vincenti della storia del club – arrivando a conquistare 5 Champions League su 8 finali disputate, l’unico con Gento del Real Madrid – e della Nazionale, con cui detiene il primato di minuti giocati nelle fasi finali di un mondiale. Ma Maldini, in realtà, è molto più di questo. 


 

Maldini, il difensore


Forse il modo migliore per capire Maldini oggi è guardarlo attraverso i commenti di alcuni dei più grandi giocatori del calcio contemporaneo. Tra i tanti che gli hanno tributato il proprio attestato di stima, il più singolare è però quello di Carles Puyol che, pochi giorni dopo il suo addio nel 2014, gli ha dedicato una lunga lettera: «Ho ammirato i tuoi concetti difensivi, la tua posizione, la tua (sempre sportiva) aggressività, la tua maniera di fermare i rivali, cercando di adattarti alle loro caratteristiche per neutralizzarli, la tua versatilità». Le parole del catalano suonano davvero spontanee, frutto di una sincera ammirazione di chi ha incrociato il proprio idolo solo da avversario, in tre edizioni della Champions League (2000/01, 2004/05 e 2005/06). Altrettanto calzante la definizione del suo compagno di squadra Andriy Shevchenko: «Il giocatore più dotato e diligente che abbia mai visto. Era un calciatore eccellente a tutto tondo, con una leadership autentica, una rara affidabilità in difesa e creatività in attacco».


 

Se ho citato un grande difensore e un grande attaccante non è un caso. Il profilo tecnico di Maldini, infatti, si può guardare da due punti di vista, solo apparentemente in contrapposizione: quello iper aggressivo in fase difensiva e quello più riflessivo in fase offensiva. Partiamo dal primo. 


 

Maldini è sempre stato un difensore estremamente razionale, qualità che gli ha permesso di leggere il gioco in anticipo e di diventare quel maestro delle letture difensive che oggi ricordiamo. In questo senso, nell’intervista con Federico Buffa in occasione dei suoi 50 anni, è lo stesso Maldini a fornirci una chiave di lettura che aiuta a comprendere meglio la sua grandezza. «Il mio obiettivo era la palla», dice Maldini in quell'intervista «Ho sempre avuto il controllo totale del mio corpo. Anche nel contrasto, nell’appoggiarmi all’avversario, ho usato ogni parte del mio corpo per mantenere l’equilibrio».


 

Quello che stupisce di Maldini, infatti, è quanto sfruttasse il contatto fisico in fase difensiva, qualcosa che di solito fanno invece gli attaccanti proprio per ingannare i difensori, facendo perno su di loro. Nonostante avesse una struttura fisica piuttosto pesante (un metro e 86 di altezza), Maldini riusciva quasi sempre ad usare il corpo per spostare l’avversario e recuperare palla, o alla peggio di disturbarne la giocata. E questo soprattutto grazie alla consapevolezza della sua forza e al tempismo delle sue giocate, che gli permetteva poi, nonostante questo utilizzo del fisico, di essere sempre estremamente elegante. Pure in quelle circostanze in cui veniva a contatto con l’avversario, Maldini ha sempre restituito un’idea nitida di pulizia tecnica, anche rispetto a quei grandissimi difensori contemporanei che, nonostante la tecnica, riescono ad essere efficaci anche essendo "ruvidi", avvalendosi cioè di interventi ai limiti del regolamento pur di vincere i duelli individuali (la famosa zona grigia denominata “mestiere”). Tra questi c'è sicuramente Sergio Ramos, un altro grandissimo difensore contemporaneo che ha come suo idolo principale proprio Paolo Maldini. 


 

Il difensore del Milan marcava molto stretto, rimanendo sempre vicino all’avversario, ma senza risultare falloso o addirittura violento. Nonostante ciò, era molto difficile per l’attaccante di turno riuscire a ricavarsi lo spazio per isolarsi con lui e puntarlo. Come ha detto una volta Shevchenko, Maldini non ti dava «mai il tempo di pensare». L'ex capitano del Milan, infatti, in uno contro uno accorciava subito sull’uomo e cercava di indirizzarlo verso l’esterno, mettendo quindi la gamba destra avanti, considerato che ha giocato per tutta la carriera sulla sinistra o sul centro-sinistra.


 

Avendo ricoperto tutti i ruoli della difesa, poi, Maldini ha affrontato tipologie molto diverse di attaccanti, dalle punte che provano a impostare il duello sul piano fisico, agli esterni che puntano sui cambi di ritmo o sulla creatività. «A me davano fastidio quelli ciondolanti, che ondeggiavano e spostavano la palla», racconta sempre nella chiacchierata con Buffa «Come Waddle (ala inglese degli anni ’90, ndr). Invece quelli che si fermavano e ripartivano erano il mio pane».



Per informazioni chiedere a Cafu.


 

Il suo segreto, se così si può dire visto il talento di cui era provvisto, era di non concedere mai al portatore di palla la prima mossa. Anche nei casi in cui l'avversario era spalle alla porta, Maldini era sempre estremamente aggressivo, rischiando anche di farsi aggirare pur di non lasciargli il tempo e lo spazio per la giocata, andandolo a contrastare lontano dalla porta per fargli sentire la propria presenza. E, cosa ancora più importante, Maldini lo faceva soprattutto contro chi lo metteva in difficoltà in spazi aperti, probabilmente per spostare il piano della contesa da quello fisico a quello psicologico. Il dominio di Maldini sugli avversari era infatti in primo luogo mentale, ancora prima che fisico o tecnico. Il talento dell'ex capitano del Milan, come tutti i più grandi difensori della storia, stava nell'entrare nella testa dell’avversario per mandarlo in crisi.


 


Milan-Barcellona 3-3, Champions League 2000/01: Maldini rompe la difesa a 3 per uscire su Rivaldo ed entra in scivolata.


 

Solo negli ultimissimi anni della carriera, quando il suo atletismo è inevitabilmente calato, Maldini è diventato meno esuberante, in particolare quando da terzino, con molto campo alle spalle, doveva fronteggiare un’ala. In questo caso, in controtendenza rispetto al resto della sua carriera, preferiva temporeggiare, in modo da accompagnare l'avversario sull’esterno e difendere di reparto. Da centrale invece la sua aggressività è rimasta incredibilmente inalterata anche a 40 anni.   


 

Era nell'anticipo, però, dove il talento di Maldini si manifestava in maniera più pura - forse proprio perché rappresenta la vittoria più schiacciante su un attaccante, che viene battuto prima ancora che riesca a ricevere palla. L’anticipo per Maldini, esattamente come Baresi, era sempre propedeutico a portare il pallone nella metà campo avversaria e trasformare un’azione difensiva in offensiva. Con tutti i rischi che questo comporta, come per esempio quello di rompere l'unità della linea difensiva creando pericolosi squilibri se l'anticipo non fosse andato a buon fine. Fa ancora effetto il timing chirurgico dei suoi interventi, frutto di un’esplosività incredibile per un fisico così pesante. 


 


Quest’azione risale alla finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona del 1994 (4-0). Maldini legge il passaggio di Amor per Bakero e non si fa problemi a uscire per intervenire su quello che dovrebbe essere l’uomo di Galli, l’altro centrale difensivo. Abbandona la posizione e recupera palla.


 

La capacità di coordinamento di Maldini, unita al suo incredibile intuito negli anticipi, trovava la sua più spettacolare sintesi nella scivolata. Un fondamentale che eravamo abituati ad associare a giocatore fisici ma senza alcuna eleganza, o a quei difensori costretti a dover rimediare a un errore, e che invece con Maldini ha raggiunto il suo apice estetico, rendendo il difensore un modello di eleganza anche quando va a terra. Una caratteristica talmente connaturata al suo gioco che troviamo due scivolate di questo tipo già al debutto con la maglia rossonera, a Udine. Anche in questo c'è un aspetto psicologico da non sottovalutare, che Maldini sottolinea ancora una volta nell'intervista con Buffa, e cioè della capacità unica di una scivolata di incendiare uno stadio, soprattutto in Italia, dove gli interventi difensivi sono particolarmente apprezzati. 


 

Guardare Maldini andare in scivolata restituisce un appagamento estetico unico, come qualcosa di perfettamente riuscito: quando respinge un tiro, quando esce frontalmente sul portatore di palla con un intervento a forbice allo scopo di togliergli spazio e tempo, o quando interrompe un’azione vicino alla linea del fallo laterale. In ogni caso una scivolata di Maldini sembra riportare ordine nell'Universo.


 



Guardate attentamente questo intervento nella Champions League 2003/04: non vi sembra anche a voi che la palla fosse in realtà sempre stata di Maldini?


 

Il talento di Maldini nelle scivolate è davvero qualcosa di rarissimo per come riusciva ad unire efficacia ed eleganza, ed è possibile ritrovarlo solo nei più grandi difensori italiani della storia, a partire da Baresi, Nesta e Cannavaro. Non so se è una mia impressione data dall'aver visto in sequenza tanti video di Maldini, ma a me sembra che dopo di lui questo fondamentale sia diventato via via più raro, magari per il grosso rischio che comporta. Quello che è certo è che da una parte Maldini ha beneficiato della presenza di campioni come Baresi, Nesta e Costacurta, che avrebbero potuto coprire un suo buco, dall'altra ha messo l'asticella talmente in alto che adesso è difficile anche solo avvicinarsi. Anche lo stesso Maldini, d'altra parte, ne fa una questione di talento, inteso come abilità innata. «Il tempismo sul pallone e la maniera in cui intervieni in scivolata difficilmente la insegni: o ce l’hai o non ce l’hai» ha spiegato in una puntata di “Sfide” a lui dedicata.


 

Maldini aveva una conoscenza così acuta del gioco, e un talento innato tale, da porsi oltre anche la didattica, come per esempio avviene nel caso delle diagonali difensive. «I miei ex compagni mi hanno detto che a Coverciano ti insegnano a girarti in una determinata direzione su un cambio di lato, se non sei Maldini. Questo ti fa capire che non siamo tutti uguali. A un integralista posso dimostrare che so arrivarci anche in un’altra maniera, forse meglio di come me lo stai insegnando. Io mi giravo da una parte e dall’altra senza perdere il contatto con la palla, riuscendo a calcolare la mia velocità e la velocità della palla. Non puoi basare la tua difesa su queste doti individuali, però se uno ce le ha...». Se il Milan ha iniziato a difendere a zona già dagli anni ’80, lo deve anche a questo incredibile talento. Non è un caso, infatti, che in rossonero non marcherà mai a uomo (mentre lo farà in Nazionale, con suo padre Cesare, che l’ha allenato in Under 21 dal 1986 al 1988 e nella nazionale maggiore dal 1996 al 1998).


 


Un esempio di marcatura a uomo organizzata da Cesare Maldini. Italia-Brasile 3-3, amichevole del ’97: notare come Dino Baggio e Cannavaro si scambino di posto per seguire i rispettivi uomini.


 

Maldini, il creatore di gioco


Quello che si dimentica troppo facilmente di Maldini, però, è che non era soltanto un grandissimo difensore. In questo senso, è utile ricordare che fu adattato in prima squadra a fare il terzino sinistro dopo che nelle giovanili era cresciuto come ala e successivamente come laterale destro. Una crescita a dir poco inusuale che contribuirà in modo decisivo alla sua ambidestria praticamente naturale, al punto che ancora oggi in tanti sono convinti che, avendo giocato sempre a sinistra e mai a destra, fosse mancino. È stato lui stesso a sfatare questo falso mito: «Sono sempre stato destro, c’era il posto libero a sinistra e l’occasione la devi prendere. In più col sinistro me la cavavo. Ho sempre fatto tante cose meglio col sinistro, tipo calciare al volo o l’appoggio di piatto».


 

Sotto questa luce appare ancora più sconcertante la qualità tecnica con cui calciava e soprattutto lanciava, indifferentemente con entrambi i piedi, sia sulla figura che sulla corsa. Maldini sapeva imprimere al pallone traiettorie tese utilizzando il collo interno, ma anche più litftate “scavando” la palla con entrambi i piedi. La sua preferenza per il destro si notava solamente in due giocate: nelle aperture cosiddette "in extrarotazione" (cioè quando utilizzava il destro per passare alla sua destra, ma agendo da sinistra, quindi in maniera "controintuitiva" rispetto alla coordinazione del corpo) e nel lancio in verticale verso l'ala di fronte a lui (realizzate sempre con il destro dall'out basso di sinistra).


 



Un cambio di gioco di destro, da destra, con cui manda in porta Boban.


 

C'è da dire che, nonostante la sua eccellenza tecnica, Maldini mancava della creatività da registi dei centrali più tecnici del calcio contemporaneo, come Bonucci, Sergio Ramos o Van Dijk, capaci di tagliare due linee con un lancio o con un diagonale dalla difesa. L'ex capitano del Milan preferiva contribuire alla costruzione dell'azione tramite le progressioni palla al piede, attirando la pressione avversaria e portando fisicamente il possesso nella metà campo avversaria. Maldini amava l’ebbrezza del rischio nel dribblare un uomo a pochi metri dalla sua porta, o da ultimo uomo, e anche se a volte ne pagava il prezzo, di solito riusciva a superare almeno la prima linea di pressione.


 


Semifinale di ritorno della Champions 94/95, Maldini da ultimo uomo controlla la sfera e supera il suo futuro compagno di squadra Weah. 


 

In questo senso, fa impressione il contrasto tra il Maldini difensore, irruento e aggressivo, e il Maldini creatore di gioco, calmo e razionale nonostante la possibilità concreta di perdere palla e mandare in porta l’avversario. C'entrano ovviamente la sua capacità analitica e la sua abilità nell’usare il corpo, come per la fase difensiva. Maldini era un maestro nello spostare l'avversario senza nemmeno toccare il pallone, attraverso un gioco di elusioni e finte. «Sono attimi: non sono cose calcolate. La tecnica te la dà la velocità di pensiero trasmessa al tuo corpo. Una combinazione un po’ particolare», ha detto il difensore parlando della sua capacità di saltare la prima pressione avversaria. A volte si girava di spalle come un cestista e utilizzava il tronco per proteggersi e nascondere le proprie intenzioni, salvo poi voltarsi nuovamente mandando a vuoto l’avversario.


 

Maldini non aveva bisogno di vedere cosa facevano i suoi avversari in pressione, li sentiva, allo stesso modo in cui gli attaccanti sentono la porta. Come nel caso di uno dei suoi movimenti più riconoscibili: quando, cioè, fintava di girarsi da un lato per poi andare sull'altro spostandosi il pallone o con il tacco o in alternativa con l’interno. Una spregiudicatezza naturale, se così si può dire, con cui Maldini sembrava affrontare ogni partita, in cui puntualmente superava il diretto avversario con un sombrero o un tunnel, o serviva un compagno con un pallonetto (in questa partita con il Barcellona della Champions League 2000/01 lo fa addirittura due volte).


 



Nell’ultima partita di Champions della carriera, il ritorno degli ottavi contro l’Arsenal nel 2008, si beve Eboué con un tunnel.


 

È grazie a queste risorse che Maldini ha rappresentato, per il Milan e la Nazionale, una risorsa soprattutto nei primi due terzi di campo, nonostante non fosse, come già detto, un vero difensore-regista. Maldini, infatti, non si faceva problemi anche ad entrare dentro al campo in progressione e a giocare anche in zone più congestionate.


 

Nell’ultimo terzo terzo di campo invece la sua influenza si è affievolita con gli anni, un po’ perché nella seconda parte della carriera ha disputato più gare da difensore centrale, un po’ perché anche quando veniva impiegato da terzino non poteva più avere quella brillantezza per attaccare il fondo con regolarità.


 

Maldini è stato anche un discreto finalizzatore, per essere un difensore (in totale ha realizzato 40 reti), ma soprattutto un grande colpitore di testa in fase offensiva. Di quei 40 gol, infatti, 14 li ha realizzati di testa, alcuni dei quali molto belli, grazie a delle torsioni complicatissime con cui riusciva ad indirizzare la palla sul palo lontano (è paradossale, ma in quel fondamentale sembra molto più preposto in fase offensiva rispetto a quella difensiva). Da perfezionista qual è, la quantità di gol è una delle cose che Maldini si rimprovera: «Ho segnato poco perché per calciare forte dovevo rientrare sul destro», e rimane un mistero perché non lo facesse dato che era il suo piede naturale. È indicativo, in questo senso, che uno dei suoi gol più belli fu segnato proprio di destro, a concludere con una bomba un'azione avviata da lui stesso in difesa.





La duttilità del talento di Maldini e il suo eclettismo estremo sono anche dimostrati dal fatto che sia riuscito a rimanere uno dei migliori difensori al mondo per un periodo lunghissimo, in cui il calcio è cambiato in maniera radicale, adattandosi a sistemi di gioco e filosofie molto diverse tra loro.


 

Maldini ha esordito con Liedholm a metà anni ’80 come terzino e sempre in quel ruolo ha partecipato alla rivoluzione di Sacchi, che ha mutuato i principi del calcio totale di Cruyff. Il 31 marzo del 1988 è arrivato anche l’esordio in Nazionale, con cui quell'estate disputerà gli Europei da titolare. È proprio in Nazionale che nasce il celebre blocco difensivo Tassotti-Costacurta-Baresi-Maldini, che verrà confermato pure da Capello al Milan.


 

Il tecnico friulano riparte dalla trappola del fuorigioco, ma rispetto al suo predecessore ricercherà un calcio più ragionato, mirato al controllo della palla e caratterizzato da alcune fasi di possesso conservativo con cui ordinare la squadra e creare i presupposti per colpire in verticale. In quel periodo Maldini inizia a essere impiegato all’occorrenza da centrale, come nella finale di Coppa dei Campioni del 1994, in cui sostituisce gli squalificati Baresi e Costacurta e, in coppia con Galli, annulla il tridente del Barcellona Begiristain-Romario-Stoichkov. Il 1994 sarà particolarmente importante per la sua evoluzione da difensore, perché sarà anche l'anno dei Mondiali americani in cui verrà riproposto centrale sempre per via dell’infortunio di Baresi. 


 

Visto da questo punto di vista il rapporto tra i due leggendari difensori del Milan assume ancora di più il carattere del passaggio del testimone, cosa che effettivamente avverrà nel 1997 quando Baresi gli lascerà la fascia da capitano. Forse non a caso è dal campionato seguente che farà il centrale in pianta stabile: con Zaccheroni agirà da terzo di sinistra nel 343 per due anni e mezzo, senza avere però troppe licenze per spingersi in avanti.


 

La sua carriera, però, ha subito anche dei bruschi stop e non è stata lineare come forse oggi ci ricordiamo. Nell’estate del 2002, ad esempio, c'è stato un momento in cui Maldini è stato messo fortemente in discussione, soprattutto sul suo valore da difensore.  Al Mondiale nippo-coreano l'Italia viene eliminata agli ottavi dalla Corea del Sud, e Maldini, capitano della nazionale da ormai 7 anni, viene fortemente criticato per essere stato anticipato di testa da Ahn sul golden gol che condanna gli Azzurri. «Lì mi sono sentito maltrattato dalla stampa», ha ammesso nel 2015 «Mi ricordo ancora l’ultima conferenza in cui un giornalista mi ha chiesto se non mi sentivo un po’ raccomandato. A quel punto Valentini, l’ufficio stampa, mi ha portato via. Dimmi che ho giocato male e lo accetto, ma farmi quella domanda è irrispettoso». Un aspetto ancora più doloroso è che quella fu la sua ultima partita con la Nazionale in assoluto. 


 

Allora in molti forse pensavano che Maldini, che aveva già 34 anni, avesse appena iniziato una fase discendente di definitivo tramonto. Invece con Ancelotti vive un’incredibile seconda giovinezza e partecipa a un’altra stagione di successi. Con Nesta forma una coppia centrale stratosferica di una squadra ambiziosa e spettacolare, sbilanciata sulla fase offensiva, con Pirlo, Seedorf, Rui Costa prima e Kakà poi, Shevchenko e Inzaghi tutti in campo contemporaneamente. Vincerà altre due Champios League: nel 2003 batte la Juve ai rigori (e nei mesi seguenti prenderà quota la sua candidatura al Pallone d’Oro, che però andrà a Nedved), nel 2007 il Liverpool, prendendosi la rivincita dopo il clamoroso ribaltone degli inglesi nella finale del 2005, in cui Maldini era andato a segno dopo 51 secondi, siglando il gol più veloce nella storia di una finale di Champions. «Ho preso tanti andidolorifici e ricordo poco della finale del 2007», ha detto un anno fa «Ho in mente i gol di Inzaghi e la fine della partita, con la festa. Quando mi sono operato a tre giorni dalla finale, ogni volta che mi risvegliavo mi chiedevo se avessi vinto o perso: dopo qualche secondo di panico, mi ricordavo della vittoria e mi riaddormentavo felice».


 

Nella parte finale della carriera si è adattato alle esigenze della squadra: già tra il 2004 e il 2006, con l’arrivo di Stam e lo spostamento di Kaladze al centro, ha iniziato a fare il terzino, considerata anche la tenuta precaria dei vari Jankulovski, Zambrotta e Favalli. I problemi alle ginocchia gli hanno fatto saltare una sessantina di partite tra il 2006 e il 2008, ma senza intaccarne il rendimento. Anzi, nella sua ultima uscita in Champions League con l’Arsenal, a 39 anni suonati, sarà uno dei migliori in campo nel match che condannerà i campioni d’Europa uscenti all’eliminazione. Una partita che rimarrà metaforica di un ultimo raggio di luce prima del tramonto del Milan, che si avvierà a un lungo quanto inesorabile declino.


 

Ritiro amaro


Paolo Maldini si ritira il 31 maggio 2009, alle soglie dei 41 anni. La settimana precedente aveva disputato l’ultima sfida ufficiale a San Siro e durante il giro di campo finale i 72.000 spettatori gli tributano una lunga ovazione, mentre in curva sud appaiono due striscioni con scritto: “Grazie capitano: sul campo un campione infinito ma hai mancato di rispetto a chi ti ha arricchito” e “Per i tuoi 25 anni di gloriosa carriera sentiti ringraziamenti da chi hai definito mercenari e pezzenti”.


 

È l’epilogo amaro di un rapporto controverso, quello tra il numero 3 e gli ultras rossoneri, da cui Maldini ha sempre voluto mantenere le distanze. «Sono orgoglioso di non essere uno di loro», ha ribadito a posteriori «È stato un momento non facile e anche inaspettato, c’erano settantamila spettatori ma ricordiamo solo quella piccola frangia di tifosi. Sono una persona pensante, ho detto le cose come stavano. Con il tempo ho capito che quello è stato un successo perché ha marcato una linea ancora più grossa tra me e quel tipo di calcio, non penso che quello sia il futuro dello sport».


 

D'altra parte, già nei mesi precedenti il suo addio Maldini aveva criticato duramente il tifo per il clima che si era creato a San Siro. «Dopo tutto quello che abbiamo vinto, meritiamo

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