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(di)
Nicola Palmiotto
Soprannaturale
18 giu 2015
18 giu 2015
Sin dall'arrivo tra i professionisti, Mike Trout sta giocando con i limiti del baseball contemporaneo. Dove potrà arrivare?
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Nicola Palmiotto
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Donavan Tate, Matt Hobgood, Matt Purke, Bobby Borchering, Jared Mitchell, Jiovanni Mier. Tutti questi nomi ai tifosi non dicono niente. Sono alcuni tra i 24 giocatori che il 9 giugno 2009 a Secaucus, New Jersey, durante il primo giro del draft della MLB, furono selezionati prima di Michael Nelson Trout.

 



 

Mentre Trout, seduto in prima fila accanto ai suoi genitori, aspettava di conoscere il proprio destino, Greg Morhardt sudava freddo. Greg all’epoca era lo scout degli Anaheim Angels, il suo compito era quello di battere il nord-est alla ricerca di talenti, in una delle zone storicamente considerate più avare per il baseball. Il clima rigido e le nevicate lasciano poco spazio ai ragazzi per far germogliare il talento, diversamente da quanto accade sotto il piacevole sole della Florida o della California. I fattori meteorologici influenzano non poco la durata della stagione degli Stati più a nord, rendendo più basso il livello di competizione e scoraggiando l’interesse degli scout.

 

Morhardt, seconda scelta dei Minnesota Twins al draft del 1984, durante la sua permanenza a Orlando in doppio-A (una sorta di Serie C del baseball) aveva stretto amicizia con un tale Jeff Trout. Veniva da Millville, New Jersey, e sognava un futuro nelle major. Jeff non se la cavava male, anzi: nei 4 anni passati nelle affiliazioni dei Twins collezionò un’invidiabile media battuta di .303, ma un infortunio al ginocchio pose alcuni seri interrogativi sulla prosecuzione della carriera. Nel frattempo aveva conosciuto e sposato Debbie. Per assicurare alla propria famiglia un futuro diverso dalla vita randagia dei giocatori delle leghe inferiori, fatta di massacranti trasferte in autobus da un capo all’altro del Paese, Jeff decise che era ora di tornare a casa a fare l’insegnante in una scuola.

 

La carriera di Greg Morhardt finì tre anni dopo. Nemmeno lui riuscì mai a giocare con i big. Si mise a fare lo scout prima con i Mets e poi con gli Angels. Un giorno di agosto del 2008, mentre stava mettendo insieme una rappresentativa di ragazzi dell’East Coast per un’esibizione, gli segnalarono un ragazzino del New Jersey di nome Trout: «Sarà mica il figlio di Jeff?».

 

Dopo aver visto per poche ore il giovane Mike all’opera, Morhardt prese il telefono e chiamò Eddie Bane, direttore degli scout degli Angels: «Speriamo che questo non batta più una valida, se no ce lo portano via». Non andò propriamente così, perché nella stagione successiva, Trout, senior dei Millville Thunderbolts, batté 18 fuoricampo, record dello Stato per le high-school, diventando di fatto uno dei candidati per il draft del 2009.

 



 

Il 9 giugno, negli studi del network della MLB, tutto lo stato maggiore degli Angels era sulle spine. La prima scelta, ottenuta dai Mets in compensazione per la free-agency di Francisco Rodríguez, non sarebbe arrivata prima del numero 24. Subito dopo però ne avevano un’altra, grazie—è il caso di dirlo—a un altro free-agent, Mark Teixeira, che si era accasato a New York, sponda Yankees. Lo spauracchio che faceva tremare i polsi di Morhardt e Bane erano gli Oakland A’s di Billy Beane, che avevano messo gli occhi su Mike e chiamavano con il numero 13. Beane è uno dei general manager più apprezzati d’America, diventato famoso anche oltre oceano per il libro

, in seguito diventato anche un film, che racconta di come con l’aiuto delle statistiche e con pochi soldi si può costruire un’ottima squadra di baseball.

 

Arrivò il momento fatidico, ma gli A’s scelsero Grant Green, un interbase proveniente dalla prestigiosa Università di South California. Beane in seguito ha spiegato a

che Trout era presente sulla loro lista, ma in un draft di baseball è quasi impossibile comparare giocatori di età diverse, provenienti per giunta da realtà sportive di livello diverso. Agli Angels non rimase che ringraziare e chiamare con il 23 Randal Grichuk e poi con il 25 Mike Trout. Il baseball da quel giorno non fu più lo stesso.

 



L’ascesa di Mike Trout nell’olimpo del baseball è stata fulminea. Trout, ribattezzato "Millville Meteor", si è imposto di fronte al grande pubblico con una facilità disarmante. Il suono dei record che andavano in frantumi è diventato presto familiare ai tifosi americani. Grazie alla capacità di affrontare la pressione con la sicurezza di un veterano e a una grande umiltà, confermata da allenatore e compagni di squadra, Trout ha impattato sul mondo del baseball facendo meraviglie a ripetizione, senza mai perdere la naturalezza di chi gioca ancora nel giardino dietro casa.

 

«I miei genitori mi hanno insegnato a essere umile e non troppo spavaldo e io mi sono comportato così fin da quando giocavo nella Little League. Mi dicevano: “Gioca e non attirare troppe attenzioni su di te”».

 

https://www.youtube.com/watch?v=CePYWSYJmgw

Due anni fa viveva ancora a casa con mamma e papà.


 

Mike, che già a 8 anni riusciva a restare concentrato per ore guardando le partite di baseball in tv, sembra avere interiorizzato dentro di sé qualsiasi situazione di gioco, tanto da non scomporsi nemmeno quando la velocità della partita si alza e la posta in palio diventa pesante. Lo stesso aplomb che dimostra anche nei confronti della rutilante vita losangelina, di cui, piuttosto che gli eccessi e le modelle, ha imparato ad apprezzare solo il sushi: «Se mi avessero messo un piatto di sushi due anni fa non l’avrei nemmeno annusato».

 

Un giocatore sovrannaturale anche a livello atletico, capace di racchiudere diverse peculiarità, difficili da trovare tutte insieme in un unico giocatore. Mike non è solo un ottimo attaccante, capace di colpire duramente la pallina, ma è anche un corridore pazzesco, capace di schizzare sul diamante in 3,9 secondi tra il piatto e la prima base. Possiede inoltre un’esplosività e un senso della posizione che fanno di lui un grande difensore, come testimonia lo straordinario volo per strappare a J.J. Hardy degli Orioles un home run praticamente certo durante una delle prime apparizioni in MLB: «Quando ho visto la pallina partire non pensavo fosse un home run. Ho seguito la traiettoria e sono saltato. Poi ho visto Torii Hunter che mi ha detto: “Guarda nel tuo guanto”. Non me ne ero quasi accorto».

 

https://www.youtube.com/watch?v=JlJ6fvfGqoo

Merito anche di ore e ore passate in palestra durante l’off-season, dimostrazione di una grande etica del lavoro.


 

Per lui i tifosi hanno scomodato il paragone con Mickey Mantle “The Commerce Comet”, leggenda degli Yankees degli anni ’50 e ’60, atleta spaventoso e grande battitore.

 

Nonostante molti abbiano arricciato il naso, Trout, a giudicare dalle rilevazioni statistiche comparate nelle fasi iniziali della carriera di entrambi, riesce a sostenere benissimo il confronto, se non addirittura a fare meglio. Senza rischiare di essere osceni, possiamo affermare che Trout, e insieme a lui anche Bryce Harper, rappresentano un capitolo nuovo nella storia quasi bicentenaria del baseball, che minaccia di far sbiadire un poco di più le leggende del passato.

 

Per spiegare quanto è forte un giocatore nel baseball ricorrere ai numeri è obbligatorio. Dal 2009 al 2012, giocando prevalentemente nelle minors, Trout ha messo insieme .342 di media battuta, .425 di on-base-percentage (capacità con la quale si raggiunge una base) e di .516 di slugging percentage (che misura la potenza della battuta) in 286 gare, con un paio di viaggetti nelle majors (40 partite complessive tra luglio e settembre 2011, che gli fruttano anche il record del più giovane giocatore degli Angels a mettere a segno un doppio home run in una sola partita). Dal 2012, dopo una breve permanenza a Salt Lake in triplo-A (sorta di Serie B), viene chiamato nel team delle majors in sostituzione dell’infortunato Bobby Abreu e schierato esterno centro. Nella prima stagione da rookie mette a segno 30 home run, segna 129 punti e ruba 49 basi (primo giocatore della storia per una singola stagione), infrangendo molti record di franchigia e di lega. Si guadagna la prima gita all’All-Star Game, il titolo di Rookie dell’anno e quello di Silver Slugger. Molti vedono in lui il possibile candidato MVP dell’American League, preludio alla battaglia che sta per scoppiare.

 



Nella stagione 2012 Miguel Cabrera, terza base dei Detroit Tigers, portando la propria squadra alle World Series aggiudicandosi per la prima volta dal 1967 la Triple Crown, ovvero il primato nell’American League nelle classifiche di media battuta, punti battuti a casa e home run. Questo fa di lui il candidato naturale al titolo di miglior giocatore. Eppure tra analisti ed esperti di baseball non tutti la pensano così. C’è un partito nella nazione che sostiene Mike Trout in base a un’altra serie di parametri che, a loro detta, misurerebbero meglio l’effettiva resa di un giocatore, tra cui la WAR (wins above replacement, un’equazione sabermetrica che indica le vittorie in più che quel giocatore regala alla sua squadra considerando l’apporto complessivo sia in attacco che in difesa). Quella di Trout è assolutamente strepitosa: 10,8 vittorie, 3,6 in più di quella di Cabrera. Alla fine nonostante le tesi della nuova generazione di analisti e commentatori, la vittoria va a Cabrera, perché coloro che assegnano il premio, la Baseball Writers’ Association of America, decidono di votare il giocatore che ha portato la propria squadra alle World Series, mentre gli Angels di Trout non hanno raggiunto nemmeno i playoff.

 



 

Questa vicenda dimostra quanto sia cambiata la percezione del baseball ai nostri giorni. La sabermetrica ha gettato nuova luce su alcuni lati del gioco, mettendo in discussione verità un tempo scontate, ma ora non più così granitiche. Il termine, che deriva da Sabr (Society for American Baseball Research) definisce una categoria di studi che, applicando una serie di equazioni, si propongono di misurare nel modo più oggettivo possibile le prestazioni dei giocatori. Questo sistema ha cominciato a farsi largo tra le varie organizzazioni di baseball, trovando un grande estimatore in quel Billie Bean degli Oakland A’s. Nonostante i presupposti scientifici e l’utilità consolidata di molte equazioni, la sabermetrica va presa con le molle.

 

Come sostiene Max Marchi, uno statistico italiano, dal 2014 analista dei Cleveland Indians, l’euforia che si è creata nei tifosi per questo nuovo approccio ai fatti del baseball, in parte dovuta anche al successo di

, ha creato una percezione distorta della sabermetrica, che in un team di major riveste un aspetto importantissimo, ma non è necessariamente la ricetta per vincere. L’occhio dello scout, e la storia di Trout ne è un esempio lampante, non va affatto sottovalutato. Rimane però curioso, soprattutto agli occhi di noi europei, comprendere questa passione smodata per i numeri e le statistiche, che altro non è che il risvolto dell’amore della cultura americana per il dato. Ovvero la capacità di valutare qualsiasi aspetto della propria esistenza in modo oggettivo, secondo una disposizione individualista e orientata al lavoro di stampo “calvinista”, che se da un lato permette a tutti di avere una chance dall’altro è impietosa nel distinguere tra chi vince e chi perde. E i numeri in questo senso sono i giudici assoluti.

 



Nella corsa mozzafiato verso la gloria del baseball, Trout, che ormai ha già un posto assegnato in quel di Cooperstown (la sede dell’Hall of fame), ha continuato a collezionare record e premi. Nel 2013 si è confermato leader per i punti messi a segno nell’American League e naturalmente le attenzioni delle squadre avversarie nei suoi confronti sono cambiate: è sceso il numero di basi rubate (33 contro le 49 dell’anno prima) e si è moltiplicato il numero delle basi ball concesse (110 contro 67). Anche nel 2013 la corsa all’MVP si è fermata al secondo posto contro l’insormontabile scoglio chiamato Miguel Cabrera, leader dei Tigers sconfitti in semifinale da Boston. Per gli Angels invece un’altra stagione no: «Darei in cambio tutto pur vincere le World Series» ha dichiarato Mike.

 


Lo screenshot risale al 13 agosto 2014. Il premio è stato annunciato il 4 novembre: Google prevede il futuro.


 

Ma l’anno d’oro del "Millville Meteor" è ormai alle porte. Nel 2014 Trout colleziona 115 punti segnati, 36 home run, 111 punti battuti a casa e 338 basi totali, guidando i suoi compagni alla post-season e aprendogli finalmente le porte del titolo dell’MVP, che vince all’unanimità.

 

Ironia della sorte tra le tre stagioni passate nelle majors questo è forse la peggiore a giudicare dalla WAR (7,9 la più bassa in tre anni) e dal numero degli strikeouts (184, peggiore dell’American League). L’obiettivo con cui Mike si è presentato davanti ai taccuini dei giornalisti durante la preseason 2015 è stato chiaro: «Diminuirò gli strikeouts della metà». L’obiettivo, secondo molti impossibile da raggiungere, ha messo in apprensione anche il Gm degli Angles, Jerry Dipoto, che teme possibili ripercussioni sulla produzione offensiva di Mike. Finora però i numeri gli stanno dando ragione. Paragonando i primi due mesi di campionato gli strikeouts sono passati da 62 a 44, e secondo le proiezioni di mlb.com a fine stagione potrebbero essere 148, un dato positivo ma piuttosto lontano dal 50% desiderato.

 

Mike Trout però continuerà a provarci con la convinzione assoluta di potercela fare, la stessa che sua madre Debbie ha visto nei suoi occhi un giorno del 2012 prima del grande salto nelle majors: «He was on a mission», disse, alludendo a uno stato di concentrazione tutto teso al raggiungimento dell’obiettivo che lei stessa non aveva mai visto in suo figlio. Una missione che, date le premesse, continuerà per tutta la carriera e che lo porterà a esplorare i limiti del baseball, forse magari anche a superarli.

 
 

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