Samuel Beckett diceva: «A forza di chiamare questa cosa la mia vita finirò per crederci». È il principio che muove il wrestling, in cui i personaggi più improbabili, le mosse più assurde, le storie più inverosimili si intrecciano fra loro per esaltare o far arrabbiare una folla rumorosa. Il teatro non è tale se non c’è nessuno a guardare lo spettacolo. Da un anno a questa parte la disciplina ha dovuto fare a meno della sua componente fondamentale: il pubblico. Eppure non si è fermata, naturalmente per questioni legate al business e non per missione ideologica. La WWE ha continuato a tenere i suoi show, fra i quali Wrestlemania, nel Performance Center di Orlando, prima di spostarsi nel ThunderDome, uno studio attrezzato di pannelli led in cui sono proiettati i volti degli spettatori collegati in streaming, sul modello già adottato dall’NBA. Dopo un anno di show, per cause di forza maggiore, in tono minore sembra che, seppur con capienza ridotta, il pubblico tornerà sugli spalti del Raymond James Stadium di Tampa per assistere alla trentasettesima edizione di Wrestlemania. Non c’è dubbio che sia il palcoscenico migliore per tornare a sentire le urla dei tifosi, poiché la storia di Wrestlemania è indissolubilmente legata alla mitografia e alla platea che ha permesso di crearla. Non ci sono solo gli atleti sul quadrato, ma c’è quel corpo composto da decine di migliaia di persone capace di sottolineare ogni pugno – come nella scansione giambica di un poema epico –, di urlare per ogni conteggio, di fischiare l’antieroe sul ring, di acclamare un nuovo beniamino. Generalmente l’apice di Wrestlemania è il main event, l’ultimo match della card, il più importante, per la quale l’attesa dura anche un anno. È in questo contesto che il sogno di un’epica moderna assume, mai come prima, la concretezza dei contendenti che si sfidano per la gloria. Abbiamo dunque deciso di ripercorrere i main event più significativi della quasi quarantennale storia di Wrestlemania, per provare a registrare le evoluzioni della disciplina.