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I migliori presidenti del calcio italiano durati meno di sei mesi
24 ott 2025
O almeno quelli degli ultimi anni.
(articolo)
24 min
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Un uomo che ha da poco passato i quaranta è fuori dallo stadio insieme a una cinquantina di persone. Stanno tutti aspettando che un dirigente trovi il coraggio di confrontarsi con loro. È autunno inoltrato, quasi inverno, una domenica qualunque in cui la squadra ha perso in casa, ennesima dimostrazione che la campagna acquisti è stata un disastro. Fa freddo e si può respirare a pieni polmoni quel misto di umidità e polveri sottili che solo la Pianura Padana sa regalare a chi la abita. È il 2017.

L'uomo, atletico, vestito abbastanza attillato e con i capelli grigi ingellati, ha un tutore che gonfia i pantaloni verde militare all'altezza del ginocchio sinistro e, con la poca voce che gli è rimasta, urla: «Io vado a rubare per comprare il biglietto», e nel farlo l'uomo alza al cielo una stampella senza la quale non riuscirebbe a muoversi.

Ho assistito a questa scena dal vivo quando andavo in curva tutte le domeniche a vedere la squadra della mia città, Mantova. Avevo poco meno di 20 anni e da lì a qualche mese avrei iniziato a fare il giornalista, mestiere che mi avrebbe permesso di seguire diverse gestioni societarie grottesche, presidenti durati giusto qualche settimana trascorrendo più tempo in tribunale che altrove.

Lo sappiamo: il calcio italiano, specie le serie minori, è da sempre terreno di caccia per avventurieri con poche remore - chiamiamoli così - ma non tutte godono della visibilità di un caso Manenti, giusto per citare la madre di tutte le messe in scena.

Ho raccolto quindi le migliori che forse sono passate sotto traccia, almeno sulla stampa nazionale - e con migliori ovviamente intendo peggiori, con un pensiero a tutti quei tifosi a cui sono stati rovinati tanti weekend della propria vita, a volte stagioni intere.

ALDO TADDEO, VENTI GIORNI PER AFFONDARE IL MODENA
Il 6 ottobre 2017 il Modena passa ufficialmente dalle mani di Antonio Caliendo a quelle di Aldo Taddeo. Caliendo lascia una società carica di debiti e penalizzazioni, reduce da stagioni tormentate e da un rapporto ormai logoro con la piazza. Taddeo arriva tramite la Ital Slovakia, una società a lui riconducibile, e si presenta come l’uomo del salvataggio: promette risorse fresche, un piano di rilancio, la riapertura dello stadio Braglia. In città c’è scetticismo, ma anche la speranza che il nuovo presidente possa invertire una rotta che sembra già segnata.

Dopo due settimane, però, la stampa locale fotografa già un immobilismo totale. La Gazzetta di Modena scrive che la presenza di Taddeo è “impalpabile almeno nei fatti”: nessun organigramma, nessuna mossa concreta, stipendi non pagati, arretrati che restano congelati. Il Comune attende segnali per restituire il Braglia alla squadra, i giocatori protestano per le mensilità non corrisposte, la squadra rischia lo sciopero. Bastava un bonifico per evitare la messa in mora e l’ennesima figuraccia, ma Taddeo si limita a spiegare che la procedura del concordato preventivo non lo permette. “Un’infarinatura di diritto fallimentare non aiuta a sbarcare il lunario”, scrive il quotidiano.

Il 25 ottobre, a meno di tre settimane dal suo ingresso, Taddeo annuncia le dimissioni. In un’intervista alla Gazzetta di Modena dichiara: «Mi sento sconfitto. Non ce l’ho fatta. Da imprenditore avevo deciso di giocare la scommessa di salvare il Modena, ma non mi è stato possibile farlo». Rivendica di avere «mezzo milione pronto per stadio e stipendi», di aver portato un commissario nello spogliatoio per spiegare ai giocatori i vincoli del concordato, e si dice deluso dalla diffidenza generale, alimentata a suo giudizio dalle «trattative trasversali» di Caliendo. «Ero pronto a pagare, non sono un pagliaccio», afferma. Poi la resa: «Gli regalo il Modena, chiederei solo le spese che ho sostenuto e forse nemmeno quelle».

Pochi giorni dopo, a inizio novembre, il Modena non si presenta per la quarta volta e viene escluso dal campionato di Serie C. Il 28 novembre arriva la dichiarazione di fallimento e la revoca dell’affiliazione federale. In meno di due mesi la società sparisce dal calcio professionistico, trascinando con sé vent’anni di storia recente.

Oggi il Modena è riuscito a rimettersi in piedi. E Taddeo invece? Nel 2019 viene arrestato per una serie di bancarotte fraudolente legate ad aziende dell’area di Varese. Secondo le indagini, rilevava società in difficoltà per poi svuotarne i conti con consulenze fittizie e veicoli esteri, dirottando denaro su conti all’estero e prelevandolo in contanti per mantenere un tenore di vita elevato. Nel 2023 patteggia una pena di due anni e sei mesi di reclusione davanti al tribunale di Busto Arsizio per tre casi di bancarotta, tra cui quello della Caccia Engineering, una società di progettazione messa in ginocchio dopo il suo arrivo.

La parentesi modenese è solo un frammento della traiettoria sportiva di Taddeo. Un anno prima, nel 2016, era stato vicepresidente del Varese Calcio in Serie D. Anche lì la sceneggiatura è identica: aumenti di capitale mai versati, stipendi non pagati e creditori infuriati. Nel giro di pochi mesi la società si trova sull’orlo del baratro e poco dopo fallisce. In città resta il ricordo di una dirigenza definita di “millantatori e latitanti”.

TRIESTINA 2011, PROBLEMI DI FAMIGLIA
Nella torrida estate del 2011, la Triestina, reduce da due retrocessioni consecutive e da mesi di contestazioni verso la famiglia Fantinel, passa di mano a un imprenditore lombardo già noto in Romagna: Sergio Aletti, ex vicepresidente del Cesena e patron del Ravenna. L’acquisizione del 96% delle quote viene perfezionata a fine agosto, attraverso cambiali e con un prezzo vicino ai due milioni di euro. Accanto a lui, come volto pubblico della nuova proprietà, compare la compagna Cristina De Angelis, imprenditrice milanese del settore immobiliare, che il 3 settembre 2011 fu eletta presidente della Triestina.

La sua presentazione alla città è un misto di entusiasmo e incoscienza: dichiara che l’obiettivo è «portare la Triestina in Serie A», definisce «intoccabile» l’allenatore Discepoli «a meno che non arrivi Mourinho», promette l’apertura della tribuna Colaussi e il ritorno dei tifosi al Rocco. De Angelis parla di uno stadio da trasformare in «fortino inespugnabile», e come primo atto toglie i cartelloni con i «tifosi virtuali» che campeggiavano sugli spalti semivuoti. Proclami roboanti e pure stoccate verso la gestione precedente: «Quando si retrocede per due anni di fila significa che qualcuno non capisce molto di calcio».

La regia dell'operazione però è di Aletti. Il 27 agosto, pochi giorni prima della proclamazione della De Angelis, si presenta al Savoia Excelsior di Trieste togliendosi le scarpe davanti alla stampa, lamentando piedi gonfi e chiedendo 10 mila spettatori al debutto in C1.

Per un mese l'esperimento sembra funzionare: sei giocatori esperti arrivati dal Ravenna, altri innesti più onerosi come Allegretti e Motta, poco meno di tremila abbonati e cinquemila spettatori medi allo stadio. In autunno però gli stipendi iniziano a non arrivare, i creditori bussano alla porta e i rapporti interni si incrinano.

Il 14 ottobre 2011, a poco più di sei settimane dal suo insediamento, Cristina De Angelis viene di fatto destituita. Un’assemblea convocata dal collegio sindacale, con il sostegno di Aletti, la rimuove dalla presidenza: lui si auto-nomina nuovo presidente, lei grida all’illegittimità. Pochi giorni dopo la scena madre: De Angelis prova a entrare nella sede dello stadio Rocco per convocare un CdA e contestare Aletti per "distrazione di fondi", ma viene allontanata dalla polizia. La situazione, l'avrete capito, ormai era compromessa.

In pochi mesi la situazione degenera. Le operazioni di mercato annunciate, l’irlandese Conor Morrissey e l’argentino Gaston Peralta, non si concretizzano, i sindaci e Confindustria, inizialmente coinvolti nel CdA, si defilano.

Alla fine del 2011 Aletti viene ricoverato a Cattinara per problemi cardiaci e poco dopo vengono segnalati dei prelievi in contanti per decine di migliaia di euro dalle casse societarie. La squadra, affidata a Galderisi dopo l’esonero di Discepoli, non riceve più stipendi regolari. Quando Aletti si presenta davanti al giudice fallimentare chiede tempo, ma a gennaio 2012 la parabola si chiude: la Triestina viene dichiarata fallita il 25 gennaio con Aletti che lascia la città fuggendo su una Punto bianca della società, con effetti personali in buste di nylon.

Poco dopo escono gli scheletri dagli armadi. Aletti viene indagato dalla Procura di Trieste per bancarotta fraudolenta e distrazione di fondi: 65mila euro sottratti per l’operazione Morrisey, altri 71mila dirottati su una sua società, 14mila prelevati in contanti tramite un dipendente, l’uso illecito della Punto della Triestina.

Aletti era nei guai anche a Forlì, dove era accusato con l’ex presidente del Cesena Igor Campedelli di infedeltà patrimoniale per un danno di 4 milioni legato a società riconducibili all’ex moglie Fiammetta Riceputi. In Romagna rimanevano sospese pure le vertenze legate al Ravenna, con fideiussioni mai rispettate.

Nemmeno Cristina De Angelis ne è uscita indenne: nel 2015 il Tribunale di Trieste l'ha condannata a due anni di reclusione (pena sospesa) per bancarotta fraudolenta e distrazione di fondi, colpevole di aver usato 6.779 euro della società per fini estranei.

Aletti morì improvvisamente nel maggio 2013 in un albergo del cesenate. Era atteso a processo a Trieste.

ALESSANDRO NUCCILLI, IMMARCABILE
Alessandro Nuccilli non è stato soltanto il proprietario di una società per qualche giorno – a Foligno, a Pavia, a Marsala, a Legnano – ma un personaggio che ha costruito la propria reputazione calcistica sull’arte della comparsa e della scomparsa, del dire e del disdire, del firmare e del non firmare mai.

La prima apparizione ufficiale di Alessandro Nuccilli nel calcio avviene nel 2016, quando rileva il Foligno in Serie D. Arriva come presidente e si presenta con la sicurezza di chi sembra avere già la ricetta pronta per risollevare una piazza in difficoltà. In realtà, la sua esperienza dura pochissimo: due mesi appena, dal febbraio all’aprile del 2016, il tempo di lasciare dietro di sé una scia di assegni scoperti e di idee strampalate. In città si ricordano ancora le sue promesse di rivoluzionare il club e persino di modificare l’orientamento dello stadio per “questioni di vento”.

Pochi mesi dopo, nell’estate dello stesso anno, Nuccilli si presenta a Pavia, una società di Serie C già piegata dai debiti accumulati dalla gestione di Xiadong Zhu. L’acquisto avviene con un gesto simbolico: la cifra è di un solo euro, con la promessa di mettere sul piatto milioni per sistemare la situazione. Alla città racconta di avere già pronta la fideiussione da 350mila euro necessaria per iscrivere la squadra al campionato, ma i giorni passano e non arriva nulla. Nel frattempo viene fuori un particolare che lo inseguirà per anni: un video del 2014 in cui, ai microfoni di un’emittente toscana, Nuccilli si presenta con un altro nome, Alessandro Monzi, raccontando di possedere sei società nel settore edilizio. A Pavia, Nuccilli si ritrova a litigare su Facebook non solo con i tifosi, ma anche con un profilo fasullo del Monzi che lo incita a non mollare. In quelle stesse giornate, sui social compare un terzo alias, quello di un certo avvocato Giannotti.

A Pavia promette di iscrivere la squadra, di ripianare i debiti e anche di pagare gli stipendi arretrati. Ma la Covisoc boccia ogni tentativo: mancano i versamenti per tasse e contributi, il patrimonio netto è negativo, il passivo oscilla tra i 5 e i 9 milioni di euro. L’iscrizione non arriva, il club precipita nei dilettanti e poi al fallimento, decretato nell’ottobre 2016. Nuccilli, dopo pochi giorni di presidenza, sparisce. Non definitivamente però.

Nel marzo 2017 ricompare annunciando di aver acquisito il 51% dell’Arezzo attraverso una società appena nata, la Flowers Holding, con capitale sociale di mille euro. L’annuncio però viene immediatamente smentito dal presidente del club, Mauro Ferretti, che parla apertamente di «tentativo di truffa» e lo denuncia.

Non è finita. Qualche mese dopo, a novembre dello stesso anno, Nuccilli spunta ad Agrigento, dove si presenta come possibile acquirente dell’Akragas. Si muove tra interviste e messaggi ai tifosi, racconta di avere i documenti pronti, assicura che i soldi arriveranno appena firmato l’accordo con il presidente Silvio Alessi. Subito, però, la precisazione: «Non intendo pagare stipendi che non mi appartengono. Se diventerò presidente, allora sì».

Il 2018 segna un’altra tappa surreale della sua carriera. A Natale, proprio il 25 dicembre, il Matera Calcio annuncia ufficialmente di averlo scelto come nuovo direttore generale, al posto di Michele Colucci. Si presenta in sala stampa, parla di rilancio, ma la squadra è già sull’orlo del collasso economico. Dopo poche settimane il Matera smette di presentarsi alle partite: quattro rinunce consecutive portano all’esclusione dal campionato alla ventiseiesima giornata.

Nel 2019 Nuccilli alza ulteriormente l’asticella: a marzo annuncia di aver acquisito il 98% della Lucchese, società reduce da una crisi devastante. A sostenerlo c’è una nuova scatola societaria, la Atlantic Srl, creata con mille euro di capitale. Anche in questo caso si presentano progetti ambiziosi, ma i numeri reali sono desolanti: la sua principale azienda in Italia è una ditta individuale di edilizia, la TecnoEdil2000, con sede a Tor Bella Monaca e appena tre dipendenti. Lui si difende sostenendo di avere «il patrimonio all’estero», e di non avere motivo di intestarsi beni in Italia. Risultato: dopo pochi mesi al timone della Lucchese, sparisce.

Quasi in contemporanea appare in Calabria, alla Palmese, dove promette non solo di rilanciare la squadra ma addirittura di riqualificare l’impianto sportivo di San Giorgio. L’entusiasmo dura poco: i problemi finanziari si moltiplicano, gli stipendi non arrivano, e anche qui le promesse restano tali.

A luglio 2020 è il Rieti a diventare il nuovo obiettivo. Ai giornali locali dichiara che «le basi ci sono, ci incontreremo per chiudere», ma l’operazione non viene mai formalizzata e il club precipita verso il fallimento.

L’anno seguente Nuccilli decide di tentare il grande salto. A maggio 2021 dichiara di voler acquistare la Salernitana, club di Serie A appena separato da Lotito. Sostiene di avere pronto un fondo australiano e un’offerta da 35 a 40 milioni di euro, ma il problema emerge subito: il pagamento dovrebbe avvenire tramite la “Europa Bank”, istituto non riconosciuto dalla Banca d’Italia. La Lega rifiuta, e l’ennesima avventura svanisce nel nulla.

A settembre del 2021 si presenta a Marsala come nuovo socio di maggioranza. Stavolta resta appena quattro giorni: firma, annuncia piani di rilancio, poi scompare. Nel frattempo viene accostato anche al Catania, dove, come avrete immaginato, non appare mai.

Nel 2022 il suo nome torna a circolare a Foligno, il club da cui era iniziata la sua parabola calcistica. Sono passati sei anni dal disastro della sua prima esperienza, ma qualcuno ipotizza un suo ritorno. Qualcuno azzarda che a Foligno abbia fatto meno danni che in altri posti, perché la squadra era riuscita comunque a salvarsi, e questo dice tutto sulle aspettative che ormai girano sul suo conto.

Nel 2024 ricomincia il suo tour con tappe sempre più surreali. A gennaio si propone per acquistare la Pistoiese, parlando di soldi già depositati dal notaio, di stadi all’inglese, di farmacie e McDonald’s sotto le curve. Il garante del trust arancione, Maurizio De Simone, prima sembra aprire, poi smentisce, e alla fine la trattativa si rivela un clamoroso bluff: il progetto immobiliare semplicemente non esiste.

Ad agosto diventa vicepresidente esecutivo del Legnano. Il comunicato del club parla di “ottimizzare l’attività finanziaria e gestionale”, lui si presenta attaccando i giornalisti e dicendo che su di lui «sono state scritte tante falsità». Otto giorni dopo rassegna le dimissioni, nuovo record di fugacità in una carriera già segnata da lampi brevissimi.

Infine, nel 2025, il suo nome compare di nuovo sulle prime pagine: la Procura di Tempio Pausania lo indaga per truffa legata al presunto salvataggio dell’Olbia Calcio. Secondo l’accusa, avrebbe promesso di rilevare il club, azzerarne i debiti e garantirne l’iscrizione in Serie D, ottenendo in cambio 8 mila euro e presentando 39 distinte di pagamento mai andate a buon fine perché collegate a un IBAN fasullo. La società si salva dall'esclusione del campionato solo con un ricorso.

UN HOTEL IMPAGABILE
Tra i presidenti passati in fretta come una promessa d’estate, Gianluca Pellino è riuscito a lasciare dietro di sé una traccia che sconfina nel paradosso. Arriva a Trapani nel settembre del 2020, presentandosi come l’uomo che avrebbe evitato il fallimento e riportato ordine in una società già in agonia. Parla di soldi da investire, di rilancio della piazza e di altre cose che, arrivati a questo punto dell'articolo, il lettore può intuire.

Nel giro di due settimane il Trapani viene escluso dalla Serie C e sparisce dai radar. Della sua storia rimane solo un dettaglio surreale: nel 2022 viene condannato a sei mesi per insolvenza fraudolenta, dopo aver soggiornato una settimana in un hotel di Trapani senza pagare il conto. Secondo la stampa locale, si trattava di circa duemila euro, spesi al residence La Gancia, dove Pellino si era presentato come presidente del club, accompagnato da due collaboratori. Aveva promesso di saldare «a breve».

UN LIBANESE A VARESE
Di Alì Zeaiter al Varese si ricordano soprattutto le foto di presentazione: un uomo elegante, sorriso forzato, in piedi davanti ai loghi del club e al sindaco, mentre promette di «restituire dignità» a una squadra appena retrocessa e ormai in disarmo. Era giugno 2015, e il Varese, dopo anni in bilico tra B e C, cercava disperatamente qualcuno disposto a prendersi un debito travestito da occasione. Zeaiter arriva come un imprenditore libanese con affari nell’edilizia e nell’import-export, e garantisce che è tutto pronto, che la fideiussione sarebbe arrivata entro pochi giorni, che il calcio era la sua passione. Tre settimane dopo nessuno era più in grado di rintracciarlo.

La sua presidenza è durata poco più di venti giorni, dal suo annuncio a metà giugno fino alle dimissioni dell’1 luglio 2015, quando dichiarò che «le condizioni non erano quelle promesse». Il Varese non aveva pagato gli stipendi, non aveva coperto l’iscrizione alla Serie C, e quando la Covisoc respinge la domanda, il club – fondato nel 1910 – sparisce dal professionismo.

ROSETTANO NAVARRA, UN LAMPO A LIVORNO
Quando nel settembre 2020 Aldo Spinelli decide di lasciare il Livorno dopo oltre vent’anni di presidenza, la città immagina che possa aprirsi una nuova stagione. Le quote di maggioranza finiscono a una cordata: Banca Cerea al 69%, Navarra al 21% e lo stesso Spinelli con una quota residua del 10%. Navarra, imprenditore ciociaro nel settore dello smaltimento rifiuti con un’azienda da decine di milioni di fatturato, viene nominato presidente. Si presenta con entusiasmo, parla di rilancio, di un club che merita stabilità. In realtà, nel giro di pochi giorni, tutto si incaglia.

Il Livorno non riesce a depositare nei tempi la fideiussione necessaria per tesserare i nuovi acquisti, alcuni stipendi restano bloccati e le divergenze con gli altri soci esplodono. La prelazione sulle quote diventa un terreno di scontro: Navarra spiega che non spettava a lui esercitarla ma a Spinelli, gli altri azionisti lo accusano di immobilismo. La FIGC segnala documentazione mancante e i rapporti interni degenerano. A metà ottobre, dopo appena un mese di presidenza, Navarra scrive al sindaco di Livorno: annuncia le dimissioni, dichiara di avere messo “spirito ed entusiasmo” ma di non essere riuscito a creare le condizioni per operare e promette di “donare le quote alla città e ai tifosi”. È la fine lampo di un’avventura che apre la strada al crollo definitivo del club, penalizzato, retrocesso e infine sparito dal calcio professionistico.

Eppure, Navarra non era un improvvisato. La sua storia calcistica parte da lontano: presidente del Ferentino negli anni Novanta, porta la squadra dalla Promozione fino alla Serie D, vince un titolo Juniores e lancia giovani come Angelo Palombo. Nel 1999 rileva il Frosinone retrocesso nei dilettanti e in due stagioni lo riporta in Serie C, costruendo la miglior difesa d’Italia con appena 16 reti subite. Nel 2003 cede la società a Maurizio Stirpe e per quasi vent’anni resta fuori dal calcio, salvo sponsorizzazioni sporadiche con club come Sora, Fondi e Ternana.

Dopo Livorno, Navarra si rimette in gioco a Pontedera: nel 2022, su invito del sindaco Matteo Franconi, diventa azionista di maggioranza con il 39% delle quote. Guida il club alla salvezza, cambia allenatore quando i risultati non arrivano e, due anni dopo, annuncia il disimpegno. Nel frattempo si apre un altro fronte: l’estate 2024 lo vede trattare per entrare nel Pescara. L’incontro con il presidente Daniele Sebastiani alimenta le speranze dei tifosi di un cambio al vertice, ma l’intesa sfuma in poche settimane. Navarra spiega che il ritardo nell’invio dei documenti era legato a una trattativa parallela con un fondo, che le proposte arrivate a fine giugno erano “inappropriate rispetto ai discorsi fatti” e che “essendo già ai primi di luglio non c’è stato neanche il tempo di arrivare a un accordo”. La piazza gli piace, la ritiene “giusta per far calcio”, ma la porta resta chiusa.

MAURIZIO PANNELLA E IL CROLLO DEL PRO PIACENZA
Il Pro Piacenza arriva all’estate 2018 dopo mesi di incertezza: il presidente storico Alberto Burzoni lascia la società senza debiti, con i conti in ordine e addirittura ripianando personalmente le perdite, ma decide di cedere per un euro simbolico, convinto che a Piacenza non ci sia abbastanza mercato per due club professionistici (visto che c'è anche il Piacenza). La società viene rilevata dalla Sèleco e la presidenza passa a Maurizio Pannella, titolare dell’azienda. L’avvio sembra promettente: in panchina c’è Giuliano Giannichedda, in campo giocatori di nome come Cristian Ledesma e Angelo Raffaele Nolè. Le prime giornate portano quattro risultati utili consecutivi e un’insperata vetta in classifica.

Dietro questa facciata, però, il club è già allo sbando. A ottobre i calciatori denunciano il mancato pagamento di stipendi e contributi sin da luglio, su indicazione dell’Associazione Italiana Calciatori, mettono in mora la società, mentre il Piacenza Calcio segnala la morosità per l’affitto dello stadio Garilli. La fideiussione necessaria per l’iscrizione al campionato si rivela irregolare, emessa da un istituto finanziario senza autorizzazioni, e per di più depositata fuori tempo massimo. La proprietà paga parzialmente due mensilità, promette un piano di rilancio, ma la situazione continua a precipitare: il direttore generale Massimo Londrosi denuncia alla procura la gestione del club, scrive una lettera aperta accusando la presidenza di inadempienza, descrive un settore giovanile in autogestione. Poco dopo si dimette anche il responsabile del vivaio, Settimio Lucci, dichiarando di non poter più lavorare in quelle condizioni.

A novembre viene esonerato Giannichedda, rimpiazzato da Riccardo Maspero. Intanto arrivano penalizzazioni in classifica, i giocatori in prestito rientrano alle società d’origine, gli altri non riescono neppure a mantenere le proprie famiglie. A dicembre lo sciopero diventa inevitabile: i calciatori rifiutano di allenarsi, chiedono lo svincolo e lo ottengono. La squadra non si presenta a tre gare di fila, con conseguenti 0-3 a tavolino. Nel frattempo il Pro Piacenza accumula passività stimate fra i 500mila e gli 850mila euro, la fideiussione viene dichiarata nulla e partono istanze di fallimento.

Tra gennaio e febbraio 2019 il crollo diventa farsa. La società paga qualche arretrato, raccoglie alla rinfusa una decina di ragazzini nati dal 1999 in poi, ma la Lega considera irregolare la loro posizione. Lo staff tecnico e medico si dimette in blocco, la squadra si presenta a Pistoia con undici giocatori contati e un organico ridotto al minimo. Il 17 febbraio a Cuneo va in scena la partita simbolo del disastro: il Pro Piacenza scende in campo con sette giovanissimi, più un massaggiatore schierato come giocatore. Finisce 20-0. L’indomani il Giudice Sportivo cancella il risultato e decreta l’esclusione immediata del Pro Piacenza dal campionato di Serie C; poche ore dopo la FIGC revoca l’affiliazione per aver presentato dichiarazioni mendaci anche sul presunto nuovo allenatore.

In un'intervista successiva, Pannella si difenderà sostenendo di essere stato spinto da terzi ad acquistare il club, dicendo di non essersi mai occupato davvero della gestione e scaricando ogni responsabilità. Un presidente, in sostanza, a sua insaputa.

IL CASO ITALDIESEL A RIETI
Il 15 ottobre 2019 il Rieti sembra trovare un appiglio a cui aggrapparsi: Riccardo Curci, commerciante reatino e presidente negli anni della promozione in Serie C, firma l’atto di cessione del club alla Italdiesel. L’accordo prevede un prezzo complessivo di 320mila euro, pagabili in 24 rate, e soprattutto l’impegno immediato a saldare gli stipendi arretrati, a sostituire la fideiussione da 350mila euro necessaria per l’iscrizione in Lega Pro e a garantire la normale gestione della squadra. La piazza è scettica, ma spera che la nuova proprietà possa finalmente portare stabilità.

La realtà si rivela ben diversa. Già all’inizio di novembre Curci diffida formalmente Italdiesel: due settimane per adempiere, altrimenti, in base alla clausola di “vendita con riserva”, si riprenderà lui stesso la società. È un atto che certifica il fallimento del progetto ancor prima che decolli: stipendi non pagati, fideiussione ancora mancante, dipendenti e giocatori allo stremo. Il 6 novembre scade il termine per corrispondere le spettanze: la squadra minaccia lo sciopero, la società rischia la seconda mancata presentazione in campo, che per regolamento porta all’esclusione dal campionato.

La nuova proprietà non riesce a dare un segnale di solidità. Anzi, si rende protagonista di una serie di comunicati che alimentano soltanto la sfiducia. Il 12 novembre l’amministratore unico Giuseppe Troise diffonde una nota durissima, in cui definisce il Rieti “celeste-amaranto” – scivolone che a Rieti pesa più di tante mancate promesse. Accusa Curci di aver portato la società “in coma irreversibile”, attacca i giornalisti locali, definisce l’ambiente un covo di pettegolezzi e arriva a minacciare di portare i libri in tribunale.

Nello stesso periodo, Italdiesel rivendica di aver pagato nove calciatori per le mensilità di luglio e agosto e di aver coperto alcune spese correnti, come tre trasferte e una bolletta Enel che rischiava di lasciare al buio lo stadio. Ma i fatti restano: la maggior parte dei tesserati non riceve stipendio e gli allenamenti saltano per le utenze staccate. Quando i giocatori si rifiutano di allenarsi il 12 e 13 novembre, la società li deferisce per illecito sportivo tramite l’avvocato Eduardo Chiacchio, minacciando anche azioni di risarcimento danni nelle sedi civili. È il paradosso di una proprietà che non paga ma accusa i calciatori di violare i regolamenti.

Italdiesel, dal canto suo, continua a parlare di un piano in corso e di scadenze rispettabili al 16 dicembre, ma sul campo la squadra è abbandonata a se stessa. La città osserva incredula un club che, nel giro di tre settimane, passa dall’annuncio del rilancio all’ennesima implosione.

Gli strascichi non finiscono qui. Nel gennaio 2020 il Tribunale Federale Nazionale accerta che né Curci (fino al 16 ottobre) né Troise (dal 16 ottobre in poi) hanno corrisposto stipendi e contributi per luglio e agosto, infliggendo ulteriori penalizzazioni. Negli anni successivi, la sequenza di cessioni e ricessioni – dai salernitani Del Regno e De Sarlo fino alla coppia Ferretti–De Martino e al passaggio simbolico per un euro a Maurizio Cannone – porta il club all’agonia definitiva. Nel gennaio 2024 la Procura di Rieti apre un fascicolo per bancarotta fraudolenta, distrazione di fondi e riciclaggio, indagando sulle operazioni societarie dal 2018 in avanti, comprese quelle con Italdiesel.

VALERIO PERINI, IL PRESIDENTE FANTASMA
Ad agosto 2025 il Rimini cambia ancora una volta proprietà. Dopo anni di passaggi di mano, debiti accumulati e penalizzazioni in serie, il club viene ceduto alla Building Company, una società giovane e opaca, con Giusy Anna Scarcella come nuova proprietaria. Nel comunicato di presentazione e nei post rilanciati sui social spunta un nome che dovrebbe incarnare il ruolo più alto: Valerio Perini, nuovo amministratore unico e presidente.

È un nome sconosciuto al calcio, legato più al mondo delle vendite telefoniche che a quello degli stadi. La sua comparsa è rapida e rumorosa, fatta di annunci e interazioni online con i tifosi. Perini diventa per qualche giorno il volto di un Rimini che promette di voltare pagina, di mettere ordine in una società che naviga in acque agitatissime. La città osserva con diffidenza, ma come sempre accade in questi casi la curiosità si mescola alla speranza.

Il tempo di scattare qualche foto e pubblicare qualche dichiarazione, e Perini sparisce. Nel giro di una settimana la sua figura si eclissa, sostituita da Eddy Siniscalchi, manager di esperienza televisiva e mondana più che sportiva. Nessuna spiegazione ufficiale, solo l’ennesimo scarto di una governance che cambia volti a una velocità che non consente alcuna programmazione.

Sul tavolo restano i problemi veri: stipendi non pagati, fideiussioni mancanti, il deferimento federale per non aver presentato le garanzie entro l’8 agosto, con tanto di coinvolgimento di Perini in quanto amministratore unico. Nel frattempo il Tribunale di Milano dispone un sequestro conservativo su beni legati al club per un debito di circa 200mila euro verso l’ex presidente Rota.

La sensazione che rimane in città, in tutte le città, è sempre la stessa: il presidente che annuncia ma non versa, che mette la firma ma non i soldi.

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