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Jean-Philippe Leclaire
Michel Platini, il re di Torino
25 apr 2017
25 apr 2017
Un estratto del libro "Le Roi", di Jean-Philippe Leclaire, edito da 66thand2nd, dedicato alla leggenda francese della Juventus.
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Jean-Philippe Leclaire
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Il 23 febbraio 1982, sul maxischermo della villa Frescot, che domina la città di Torino, Giovanni Agnelli sta seguendo con particolare interesse l’amichevole tra la Francia e l’Italia. L’Avvocato se ne infischia della sconfitta degli azzurri. La prestazione dell’autore della prima rete francese lo ha decisamente entusiasmato. «Quel Platini è un distributore di gioco come pochi. Farebbe faville nella Juventus. Peraltro credo che la sua famiglia sia originaria del Piemonte» fa notare una settimana dopo a Edouard Seidler, il direttore dell’«Équipe», che lo sta intervistando. Il 7 aprile, Agnelli richiama Seidler. «Si ricorda, abbiamo parlato di Platini qualche settimana fa. Vorrei mettermi in contatto con lui. Può organizzare la cosa?». Tre settimane e due giorni più tardi, alle 10 di mattina del 30 aprile, un piccolo Cessna atterra sulla pista dell’aeroporto di Caselle. Michel Platini è venuto a firmare il contratto con la Juventus.

 

Tornando a posare i piedi sulla terra dei primi Platini, il nipote di Francesco non ha la minima idea di che cosa lo aspetti. Agnelli, l’irresistibile capitano d’industria che ha alzato di persona la cornetta per allacciare i primi contatti? «Avevo a malapena sentito parlare di lui...» racconterà parecchio tempo dopo il lorenese dalle radici italiane seppellite molto in profondità. Eppure, sull’altro versante delle Alpi, Giovanni Agnelli gode di un prestigio che gli invidiano i ministri, il presidente della Repubblica e persino il papa. Soprannominato l’Avvocato, benché non abbia mai perorato nessuna causa a parte la propria, il gran capo della Fiat e della Juventus si dedica a far rispettare il motto di famiglia, definito una volta per tutte dal padre Edoardo: «Una cosa fatta bene può essere fatta meglio».

 

Quell’esigenza fieramente proclamata è però coperta da una spessa patina di glamour. Il profilo un po’ severo, da rapace, del bel Gianni è ingentilito da uno sguardo dolce e da un sorriso squillante. Ha sedotto tanto le folle quanto le attrici più belle. Da Anita Ekberg a Rita Hayworth a Danielle Darrieux, gli hanno attribuito ogni genere di conquista. Lui si limita a rispondere: «Mi capita di parlare con le donne, ma di donne preferisco non parlare». Ora che ha passato i sessanta, il Kennedy italiano (un altro dei suoi soprannomi) ha smesso di deliziare i paparazzi con le scappatelle extraconiugali, ma con o senza la principessa Marella, sua moglie da più di quarant’anni, per rompere la monotonia di una giornata di lavoro gli basta saltare su uno dei quattro apparecchi della flotta personale (un Mystère 20, un Grumman Gulfstream e due elicotteri) per visitare una galleria d’arte londinese, quando non preferisce farsi un tuffetto nelle acque limpide del Mediterraneo. Patron gaudente, magnate edonista, Gianni Agnelli sa trovare la felicità anche all’angolo della strada – o per meglio dire, a qualche isolato dal quartier generale della Fiat. Addossate al viale che porta il nome di suo nonno, corso Giovanni Agnelli, le tribune dello stadio Comunale forniscono al rampollo di nobile famiglia l’occasione di vibrare insieme alla sua gente. «Le persone vanno allo stadio per divertirsi. Io mi ci diverto come tutti!» spiega, lui che considera il calcio un’arte e non un mestiere.

 

Eppure, nonostante la Juventus abbia conquistato tre scudetti (1977-1978-1981) negli ultimi cinque anni, oltre al primo trofeo europeo della sua storia (la Coppa Uefa 1977), Gianni Agnelli al Comunale si diverte sempre meno. Quella squadra che gioca e vince «alla tedesca» (solida dietro, efficace davanti) non soddisfa la sua voglia di bel gioco. Alle tre S (Semplicità, Serietà, Sobrietà) che definiscono lo stile Juve, il patron-esteta, grande collezionista di quadri di Balthus e Francis Bacon, vorrebbe aggiungere la F di Fantasia o la G di Genio.

 

Il desiderio di ingaggiare Platini, l’Avvocato lo condivide con il più devoto dei suoi servitori, che del patron è anche l’esatto contrario. Nato il 4 luglio 1928 a Barengo, un austero borgo della provincia di Novara, a soli quindici chilometri da Conturbia, la culla piemontese della famiglia Platini, Giampiero Boniperti è stato l’attaccante più prolifico della Juventus (178 reti segnate in 444 partite), prima di diventarne il temuto presidente. Viso tagliato con l’accetta, collo da torello e sorriso da predatore, Boniperti ha ereditato dai suoi antenati contadini un miscuglio di durezza primitiva e di eleganza azzimata.

 

È lui ad accogliere Michel Platini alla Sisport, la società sportiva della Fiat. Il francese trova Boniperti «piccolo, nervoso, con un sorriso un po’ stereotipato, ma sempre amabile». Insomma, quasi sempre amabile... Perché appena il presidente della Juventus scopre che il suo potenziale acquisto è sbarcato con il proprio uomo d’affari Bernard Genestar, con il presidente del sindacato dei calciatori francesi Philippe Piat e con due avvocati milanesi, quella palla di nervi dai capelli sale e pepe perde qualunque forma di cordialità. Con una logorrea di imprecazioni, Boniperti rispedisce a casa i due uomini di legge, e in tono appena più cortese chiede a Philippe Piat di attendere nella stanza accanto.

 

Di fronte a Platini e Genestar, l’uomo di fiducia di Gianni Agnelli ritrova la calma e sfodera di nuovo il sorriso. Le trattative possono cominciare, sì, ma in che lingua? Con sua grande sorpresa, il figlio di Barengo si rende conto che il nipote di Conturbia parla male l’italiano quanto lui il francese. È dunque in un miscuglio di grammelot transalpino e inglese non propriamente shakespeariano che i vicini novaresi trovano abbastanza in fretta (appena due ore) un accordo di massima sul contratto. Il francese guadagnerà quattrocento milioni di lire (due milioni di franchi) il primo anno, quattrocentoquaranta il secondo, vale a dire due volte più che a Saint-étienne, e senza il pericolo che un «piccolo giudice» italiano venga a ficcare il naso nei conti dell’intoccabile Juventus.

 

Raggiante, Boniperti stappa una bottiglia di Asti. Poi si offre di riaccompagnare i suoi «amici francesi» all’aeroporto di Caselle. Il presidente in persona si mette al volante e chiede all’autista di accomodarsi sul sedile posteriore, tra Genestar e Piat. Quest’ultimo, dopo qualche chilometro, si sporge verso Platini e con discrezione gli fa notare che il dipendente porta alla cintura una magnifica Holster... Seduto davanti, sul lato del passeggero, il futuro numero 10 bianconero vorrebbe prendere un po’ d’aria. «Mi spiace, Michel, ma non si possono abbassare i finestrini di una macchina blindata...» lo rassicura Boniperti prima di schiacciare di nuovo il pedale sull’acceleratore.

 

Piazze porticate, larghi viali ombreggiati, lunghi tram arancioni che scaricano qualche raro passeggero... Tre mesi e una Coppa del Mondo dopo la sua prima «gita» in una limousine blindata, Michel Platini ritrova Torino avvolta nell’afa di un giorno d’estate. Questa volta, il paesaggio non scorre più dietro i vetri oscurati di un veicolo superprotetto. È lo stesso Platini a guidare la sua Range Rover verde, ancora provvista della targa 42 della Loira. Al suo fianco, la moglie Christèle. Sul sedile posteriore, l’altro acquisto della Juventus, il polacco Zbigniew Boniek, che cova con gli occhi la consorte Wieslawa.

 

Platini e Boniek si apprestano a unirsi per la prima volta ai loro nuovi compagni di squadra, dopodiché tutta la truppa partirà per il ritiro pre-stagionale di Villar Perosa, quaranta chilometri a sud di Torino. Stressati, tesi come scolari il primo giorno di scuola, i nuovi assi stranieri della Juventus attraversano una città che sembra abbandonata dai suoi abitanti, fuggiti a dorarsi sulle spiagge dell’Adriatico, le stesse frequentate da bambino da Michel. I corsi Vittorio Emanuele II, Castelfidardo e Re Umberto I sfilano così, praticamente deserti, prima che i quattro passeggeri scorgano ai piedi dello stadio Comunale un assembramento di almeno cinquemila persone. «Deve esserci una manifestazione» suggerisce Boniek. Ma vedendo quegli strani «manifestanti», in bianconero dalla testa ai piedi, precipitarsi urlando verso di loro, le coppie Boniek e Platini si rendono conto della trappola in cui si sono ficcati. «I tifosi hanno cominciato a scuotere la macchina. Sembravano amichevoli, gridavano “Platini! Platini!” o “Boniek! Boniek!”. Ciò non toglie che uscendo dall’auto per raggiungere il pullman Michel e io siamo stati presi dal panico» ricorda il malcapitato Zibì. Per loro fortuna, Claudio Gentile accorre a proteggere i nuovi compagni dall’allegra follia dei tifosi. Nella ressa, Platini deve comunque sacrificare il pullover di cachemire. Lui che ha sempre detestato i bagni di folla si siede sul pullman, il volto pallido, sotto gli sguardi beffardi degli altri giocatori.

 

A Villar Perosa, culla storica della famiglia Agnelli, il francese ritrova la calma e fa conoscenza con i suoi colleghi. Sei di loro (Zoff, Cabrini, Scirea, Tardelli, Gentile e Rossi) si sono appena laureati campioni del mondo con l’Italia. Agli eroi di Spagna, si aggiungono altri due pilastri della Juventus. L’attaccante Roberto Bettega, trentadue anni, alias Bobby Gol o Penna Bianca per via dei capelli prematuramente incanutiti. In seno al club già da dodici anni, ha dovuto rinunciare al Mundial a causa di un brutto infortunio al ginocchio. E Beppe Furino, trentasei anni, alla Juventus da diciassette, indistruttibile siciliano dalla tecnica grezza, diventato tuttavia il capitano della squadra, infaticabile, intransigente, uno dei giocatori preferiti di Giampiero Boniperti.

 

Ma a Villar Perosa, il novellino Michel Platini incontra anche e soprattutto sua maestà Gianni I. Depositato come al solito la mat- tina molto presto da uno dei suoi due elicotteri, il patron della Fiat ha chiesto di incontrare tre giocatori: Bettega, Boniek e Platini. Il suo discorso è tanto conciso quanto chiaro: «Quest’anno, la Juventus deve vincere tutto».

 

Purtroppo per l’Avvocato, la stagione non inizia nel migliore dei modi. Una sconfitta all’esordio in campionato, 1-0 contro la neopromossa Sampdoria, fa sorgere i primi dubbi. Malgrado una rosa da sogno, la Juventus si fa rapidamente staccare in classifica. All’entusiasmo che ha preceduto la partenza verso Villar Perosa subentrano la diffidenza e gli interrogativi. Davanti al Comunale, Platini può ormai parcheggiare la sua Range Rover in tutta tranquillità. Solo qualche raro tifoso lo gratifica con un’amichevole pacca sulla schiena. Nemmeno i compagni di squadra si scapicollano più per salutarlo. Quando Tardelli si degna di parlare del francese, è per chiamarlo «quello là»... «La squadra non andava bene, allora inconsciamente i giocatori pensavano: “Siamo campioni del mondo, e siamo diventati campioni d’Italia senza di lui. Perciò tocca a Platini tirarci fuori dalla merda”» spiega Enzo D’Orsi, che segue la Juventus sul «Corriere dello Sport».

 

Tentando di ambientarsi nonostante la freddezza dell’accoglienza torinese, «quello là» prova dunque la sgradevole sensazione di essere tornato indietro di tre anni. Come al suo arrivo a Saint-étienne, si sente preso di mira dai nuovi compagni, che lo considerano «il cocco del presidente». Platini non reagisce più da «bambino viziato» ma da uomo ferito che vorrebbe apparire vaccinato. «In realtà, alle rogne ti abitui. Prima non sopportavo l’idea di non essere amato. E poi sono arrivato a un punto in cui più le persone mi detestavano, più ero contento. Voleva dire che almeno per loro contavo. Ecco dove mi aveva condotto il calcio e il bisogno di proteggermi...». Cinismo di superficie, malessere in profondità: Michel Platini para i colpi. Il suo primo interrogatorio con i poliziotti della polizia giudiziaria, la diffidenza dei compagni di squadra a Saint-étienne, in nazionale e ora a Torino, hanno reso il suo sguardo meno vivace e i discorsi sempre più sprezzanti. Eppure, sarebbe eccessivo affermare che siano solo gli inconvenienti della fama ad aver forgiato quel «nuovo Platini». Persino ai bei tempi di rue Saint-Exupéry o del liceo Papillon, il simpatico piccolo diavolo possedeva già una certa durezza capace di trasformarsi da un momento all’altro in crudeltà. Con una sorprendente miscela di compiacenza e lucidità, poco prima del Mundial Platini si era lasciato andare a una seduta piuttosto inedita di autoanalisi.

 

«È vero, come dicono, che lei è una persona complicata e lunatica?» gli chiede Gérard Ernault dell’«Équipe», uno dei suoi confessori preferiti.

 

«Sono abbastanza lunatico, è vero. Difficilmente accessibile, anche. Ma non perché guardi gli altri dall’alto in basso per la sola ragione che sono Platini. Sono sempre stato così. Prima non esprimevo la mia irritazione, la facevo sentire. Adesso sono onesto, metto davvero il muso, dico di no. Non c’entra fare la star, è una questione di carattere». Con un carattere più trattabile, Platini avrebbe comunque avuto successo? «Se non prendi le palle che ti passo, comincio a tirartele in faccia» prometteva il più grande giocatore di basket della storia, Michael Jordan, al compagno Bill Cartwright. Oltre al talento, quasi tutti i campioni possiedono innata quella volontà impietosa che ha permesso loro, secondo l’espressione comune, di «sopravvivere», migliori tra i migliori, al termine di una spietata competizione. Dal 1980 al 1985, la psicanalista torinese Angela Ramello, ex atleta (è stata campionessa italiana dei 1500 e degli 800), ha intervistato ventiquattro sportivi di alto livello, tra cui Michel Platini. Con dieci anni di studi e i modelli freudiani, l’autrice di

è arrivata più o meno alle stesse conclusioni dei Bragard e del loro buon senso lorenese. «Michel Platini è un essere interiormente freddo, determinato, un vincitore naturale che già con gli altri bambini voleva essere il migliore, il più in vista. Non ha dovuto abituarsi alla sua condizione di campione. È nato così». Quel desiderio di sfondare non è sempre facile da gestire. «I grandi campioni sono il più delle volte degli esseri soli, insoddisfatti, in uno stato di perenne insicurezza». Come se la gloria e il denaro non facessero altro che isolare quei mostri di volontà ed egocentrismo, rafforzando così il complesso «io contro gli altri» indispensabile per superarsi. «Spesso, la paranoia è un mezzo per fare appello e raccogliere le energie in caso di bisogno» analizza un altro psicologo, l’americano Mihály Csíkszentmihályi, che ha studiato in particolare il caso Michael Jordan.

 

Davanti a quelle presunte aggressioni dall’esterno, il Platini che debutta a Torino oppone un volto chiuso, e reprime i propri sentimenti. «Mi piace camuffarmi» riconosce il campione, meno camaleontico di un blocco di marmo. Silenzioso, fissandosi la punta delle scarpe, attraversa come un’ombra, tra due file di tifosi, la stradina che separa gli spogliatoi dal campo di allenamento.

 

Fortunatamente, una semplice riunione permetterà di sradicare il male alla radice: «Prima di Natale, Boniperti ha convocato me e Boniek» racconta Platini. «Il presidente ha cominciato a urlare, e gli ho subito chiesto di calmarsi. Presidente, ci ha preso per le nostre qualità, giusto? E allora perché non ci lascia giocare nei nostri veri ruoli?». In poche parole, gli ultimi acquisti del calciomercato ritengono che il pallone passi un po’ troppo spesso sopra le loro teste. Il famoso realismo juventino che ha finito per annoiare addirittura Agnelli consiste infatti in lunghi palloni scaraventati in avanti dai difensori, ignorando i centrocampisti. Boniek racconta il seguito della conversazione tra Platini e Boniperti. «Michel ha detto: per dare il meglio di me, ho bisogno di agire come distributore di gioco, ruolo già occupato da un altro giocatore». Cioè Beppe Furino, il cocco di Boniperti.

 

Sarà una frase di Gianni Agnelli a mettere tutti d’accordo. Il 16 gennaio 1983, prima giornata del girone di ritorno, l’Avvocato se ne va molto contrariato dalla partita Juventus-Sampdoria, terminata con un pareggio per 1-1. Sul punto di salire sulla sua macchina blindata, Gianni I si premura di proferire una delle battute che i cronisti amano tanto dissezionare e dare in pasto al popolo agnelliano. «Non sono venuto allo stadio per vedere il gioco passare per i piedi di Furino» si adira il patron della Fiat. Una settimana più tardi, contro il Cesena, Beppe Furino non è più tra i titolari. Sotto 2-0 dopo soli venti minuti di gioco, la Juventus accorcia le distanze e poi pareggia grazie a Platini. La riconquista della squadra può finalmente cominciare. A inizio febbraio i bianconeri annientano 3-0 la Fiorentina, con uno «splendido regista» che riceve un 7,5 in pagella dalla «Gazzetta dello Sport». Ma i veri fuochi d’artificio esplodono nel ritorno dei quarti di finale della Coppa dei Campioni contro gli inglesi dell’Aston Villa. Platini segna due delle tre reti bianconere, guadagnandosi titoli ditirambici sui giornali dell’indomani: PLATINI FAVOLOSO, JUVENTUS SUPERSTAR! annuncia per esempio «Tuttosport». L’omaggio più bello, però, l’ex snobbato ora incensato lo riceve dal suo tifoso più fedele. «Il mio cuore operato ringrazia Platini» dichiara Gianni Agnelli, che si è appena sottoposto a un delicato intervento cardiochirurgico.

 

Il palpitante cuore dell’Avvocato avrà meno occasioni per entusiasmarsi nell’ultima parte della stagione. Contrariamente alle sue richieste nel ritiro di Villar Perosa, i bianconeri conquistano solo la Coppa Italia, ossia quasi nulla. Cedono lo scudetto alla Roma e soprattutto falliscono il loro obiettivo principale: la prima vittoria in Coppa dei Campioni. Il 25 maggio 1983, a Atene, i torinesi perdono la finale per 1-0 contro i tedeschi dell’Amburgo. Dapprima imbavagliato dalla sua guardia del corpo, il giovane mediano Wolfgang Rolff, Platini si trasforma in centravanti per l’ultima mezz’ora di gioco. Problema: non riceve più un pallone perché nessuno è in grado di sostituirlo in cabina di regia. Ovvero la dimostrazione per assurdo che la Juventus non può più fare a meno del suo numero 10.

 

Platoche dovrà attendere ancora prima di poter diventare il secondo francese della storia (dopo Raymond Kopa) a vincere una coppa europea. In pochi mesi ha conquistato però un titolo certamente onorifico ma ancora più importante: quello di giocatore preferito di Sua Maestà Gianni Agnelli. In qualità di osservatore privilegiato, Boniperti riassume con uno slogan i legami che uniscono il vecchio piemontese al giovane lorenese: «Se l’Avvocato fosse stato un calciatore, avrebbe voluto giocare come Michel».

 

 



Solo quattro anni dopo aver appeso le scarpe al chiodo, il 12 marzo 1991, Michel Platini si renderà davvero conto del posto che ha occupato nel cuore di Gianni Agnelli. «L’Avvocato mi ha invitato a una cena di gala per i suoi settant’anni, da Maxim’s, a Parigi. Ha fatto un piccolo discorso di ringraziamento nel quale ha menzionato solo tre persone: la bambinaia che l’ha allevato, Henry Kissinger e me!» si stupirà il calciatore. Tra il monarca senza corona e il suo caro Michel, la seduzione non passa per la sottomissione, anzi: «Gli italiani della Juve erano schiacciati dal mito di Agnelli. Boniek e io eravamo i soli che osavano rispondergli» ricorda con fierezza Platini. D’altronde, tutto era iniziato con uno scambio in punta di fioretto. Quando l’ormai ex capitano del Saint-étienne aveva firmato per la Juve, il principale artefice del trasferimento lo aveva accolto alla sua maniera:

 

«L’ho vista giocare di recente. Ha fatto un buon primo tempo, ma il secondo è stato cattivo».

 

«Non cattivo, meno buono» aveva subito replicato l’impudente.

 

In Italia, questi motti di spirito sarcastici si chiamano «battute». «Sono frasette molto precise, con un lato ironico ma simpatico» decifra Platini. «Sono la versione più sofisticata dell’umorismo un po’ scemo dei calciatori, che passano il tempo a prendersi per i fondelli. Ma si fa dell’umorismo solo sulle persone a cui si è affezionati».

 

Come a dire, Gianni Agnelli non ha apprezzato solo il giocatore, ma anche l’uomo Platini. A Torino, certi cronisti della dinastia sostengono persino che si sia instaurata una relazione quasi filiale tra l’imprenditore sessantenne e il suo giocatore preferito. Vero è che Platini ha solo un anno e dodici giorni di differenza con Edoardo III, unico figlio maschio di Gianni Agnelli e oggetto del suo rimpianto più grande: quello di essere stato un padre troppo assente. Alto, dinoccolato, spesso goffo, «Edoardo irritava il padre per mancanza di aggressività sportiva e maschilismo» rileva Marie-France Pochna nella sua biografia

. Spedito al college a Princeton, il ragazzo che i compagni di università chiamano «Crazy Eddy» scoprirà in seguito il sincretismo e le religioni orientali. Si suiciderà gettandosi da un ponte della Torino-Savona, il 15 settembre del 2000.

 

Nell’ottobre del 1997, in occasione del centenario della Juventus, ho avuto il privilegio di intervistare a lungo e in privato Gianni Agnelli. Il volto un tempo liscio e abbronzato del vecchio playboy mondano si era screpolato, incartapecorito, ma la sua voce restava comunque melliflua. Parlava un francese perfetto, quasi ricercato, punteggiato di qualche parola in inglese e numerose imprecazioni italiane: «Per firmare il contratto, Michel era venuto con un aereo privato, il che, nel 1982, non era una cosa molto comune. E non appena il campionato è iniziato, si è preso tutto il glamour. In campo Platini aveva una classe straordinaria». L’ammirazione del vecchio uomo poteva anche trasformarsi in tenerezza: «Mi ricordo benissimo di Michel la mattina, quando accompagnava la figlioletta a scuola. Per lui, la famiglia contava molto» osservava il padre del povero Edoardo III, con una punta di rimorso nella voce.

 

Dopo un mese e mezzo passato tra le grigie pareti dell’hotel Ambasciatori, la famiglia Platini si è trasferita sulle alture di Torino, in zona Val Salice, la collina dei salici, la Beverly Hills piemontese. Occupa una villa di trecentocinquanta metri quadri dotata di un’immensa terrazza con vista sul Po e sulle vette alpine. «Gli sciatori sono lontani chilometri, ma ti sembra di poterli toccare» si entusiasma il nuovo inquilino, che ha come vicini i suoi capi Agnelli e Boniperti. Dalla casa della sua infanzia in rue Saint-Exupéry a questa villa hollywoodiana di Val Salice, passando per il domicilio dell’étrat che già dominava la città di Saint-étienne, Michel Platini ha sempre amato abitare sui pendii delle colline. Lontano dal trambusto dei centri urbani, lassù si dedica a ricreare un piccolo mondo ben ordinato, per condurre una vita il più possibile normale. «Stavamo davvero bene a Torino. Proprio accanto alla casa c’erano un club di tennis e la scuola francese per i bambini» spiegherà ancora, anni dopo, con nostalgia.

 

A ventisette anni, il giocatore che i giornalisti italiani chiamano ormai «Le Roi» scopre una terra che gli sembra doppiamente promessa. A Torino, non solo il regista delizia una squadra commisurata al suo talento, ma l’uomo privato ritrova un nuovo equilibrio. La Juventus? «Cinque anni di felicità. Tutto era bello. Tutti ci amavano» spiegherà in seguito Christèle Platini, prima di aggiungere: «È il solo periodo in cui sono andata d’accordo con la popolarità».

 

Coppia sovraesposta, poco preparata a tutta quella gloria talvolta malsana, i Platini riannodano insieme i contatti con le proprie origini. Sin dalle prime settimane del loro soggiorno piemontese, Michel ha sentito il bisogno di portare la moglie e i figli a Conturbia. «Volevo solo mostrargli il paese, non avevo avvertito nessuno, e siamo finiti nel bel mezzo di una riunione di famiglia». Da allora, tra un pranzo da Giudice, il suo ristorante preferito, e una visita discreta a Conturbia, Platini indosserà felicemente quell’abito interscambiabile di italiano in Francia e di francese in Italia.

 

Uno sdoppiamento della personalità che, confondendo incessantemente le tracce, gli permetterà di restare sempre ben «camuffato». Ma dietro la maschera del personaggio pubblico, a volte sorridente, a volte irrigidito, si nascondono un marito e un padre di famiglia che non finge più da quando ha compreso molte cose su di sé e sul proprio passato. «L’errore è stato lasciare che decidessero per me, credere che fosse tutto dovuto, farsi condurre per mano. Mi sono rimesso in carreggiata» ammette Michel Platini in una chiacchierata-verità pubblicata prima del Mundial. Qualche mese più tardi, durante una cena al Due Mondi, davanti a un confidente francese di passaggio a Torino, si spinge ancora più in là nel mea culpa. «Era tutto sempre per me: la televisione, i giornali, gli onori. Christèle non esisteva più. Per fortuna ho deciso di cambiare...».

 

Anche con i compagni di squadra i rapporti migliorano. Insieme a Zbigniew Boniek ma anche a Paolo Rossi e Marco Tardelli, sul pullman, sugli aerei, negli hotel, in breve ovunque ci siano un tavolo e quattro sedie, Michel scopre le gioie della scopa in versione originale. Al culmine delle litigate, il taciturno Tardelli non lo chiama più «quello là». Marco il terribile sarà persino il primo giocatore italiano a invitare i Platini per una simpatica cena «tra amici». Detto ciò, sarebbe esagerato a affermare che l’austera Juventus si sia trasformata in una gioiosa colonia estiva. «Tra di noi regna un’atmosfera formale, ma per nulla ostile. Quella che si trova un po’ dappertutto. Non ne faccio una malattia». In cinque anni alla Juventus, dipendente di lusso di un’anonima società, Platini potrà contare davvero su un solo amico: Zbigniew Boniek, che accetterà meno bene quella mancanza di rapporti umani. «Il palmarès dei bianconeri sarà forse ricco di trofei, ma in quanto a baldoria, lì sono veramente pessimi! Bisognava giocare, vincere e basta! Ogni tanto avevo l’impressione di andare al lavoro in fabbrica».

 

In quel finale di stagione 1983-1984, il «lavoro» delle stelle della Juventus consiste nel conquistare il campionato ma anche la Coppa delle Coppe. Missione compiuta su entrambi i fronti. Un anno dopo la frustrante sconfitta con l’Amburgo, la Juventus si impone 2-1 contro il Porto. Autore della rete della vittoria, Boniek brillerà durante e dopo la partita. «Era la mia prima vittoria in una coppa europea, così alle sei di mattina stavo ancor sbevazzando con i tifosi. Tutti gli altri giocatori della Juventus erano ovviamente andati a dormire da un bel po’». Platini, ben marcato durante l’incontro, si limiterà a manifestare la sua gioia spedendo il pallone della partita nella tribuna occupata dai tifosi juventini. In seguito lascerà che l’amico polacco brindi per due a quel primo trionfo europeo. Lui, che si definisce «un semplice lavoratore del calcio in Italia», in ogni caso non è mai stato un gran festaiolo. Piuttosto che ubriacarsi fino alle prime ore del mattino, Platini preferisce inebriarsi di statistiche. «Ho giocato cinquantotto partite in campionato, segnando trentasei gol, venticinque in Coppa Italia con tredici gol, e diciassette nelle coppe europee con sette gol». Basterebbe conquistare gli Europei con la Francia, e la sua algida felicità sarebbe davvero completa.

 

© 66thand2nd 2017

 



 

 

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