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Michael Magnesi alla conquista dell’America
11 nov 2021
11 nov 2021
Abbiamo intervistato il campione del mondo IBO, che ora tenta l'assalto ad altre sigle.
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Nella zona industriale di Ladispoli, tra capannoni di autorimesse, smorzi e officine c’è la palestra di pugilato del maestro Mario Massai. Quando arrivo, fuori dall’ingresso sul retro ci sono un paio di persone in piedi a mani conserte rivolte verso un grande portone in ferro spalancato con l’attenzione di chi ascolta una liturgia, ma invece del Padre Nostro, “sinistro, destro, passo sotto e gancio” è quello che grida da sopra il ring il maestro.

I pugili che aspettano di salire per le figure con Massai si tengono caldi al sacco. È il turno di Michael Magnesi: colpisce sui colpitori del maestro poi corre indietreggiando all’angolo di fronte per tagliare in obliquo il ring e finire con una scarica di ganci al corpo il malcapitato all’altro angolo.

Mancano due mesi all’11 novembre e Michael è in piena preparazione atletica. Il prossimo match sarà in America, a New York in uno dei templi della nobile arte. Dove è stata scritta la storia di questo sport, dove di pugilato si diventa ricchi e le pay per view valgono milioni di dollari. Lo aspetta Eugene Lagos per il primo di tre incontri che lo porteranno a giocarsi la sua seconda chance mondiale. La prima è andata a segno, il 27 novembre del 2020, quando è diventato campione del mondo IBO, battendo per KO Patrick Kinigamazi. A detenere questa sigla in altre categorie di peso sono atleti del calibro di Erislandy Lara, Gennadij Golovkin e Oleksandr Usyk. In America il sogno è quello di unificare le cinture e ottenere anche le altre sigle: WBC, WBA, WBO e IBF.

***

Il 21 giugno del 2019 in via di Monte Stallonara, nell’anfiteatro del Parco della Pace, a Roma, Michael ha combattuto quello che secondo lui è stato il miglior incontro della sua carriera. Di quell’incontro non vi è traccia, ma Magnesi è convinto: «il passaggio da come ero a come sono è stato proprio quel match lì: è stato il mio giro di boa». Dieci riprese di puro furore agonistico, contro il pugile messicano Emmanuel Lopez.

La boxe in Italia non attraversa un periodo facile da molti anni, le riunioni pugilistiche romane, non godono di un gran seguito, e i tempi dove Benvenuti si scontrava con Mazzinghi al Palasport dell’Eur sembrano epica di uno sport che oggi non esiste più. Gli interpreti non mancano, un pugile non è mai sazio di salire sul ring, ma oggi lo fa per pochi, pochissimi soldi.

Tornando a quel ring e a quella sera: il supermercato Tigre sponsorizza l’evento, i pugili più fortunati hanno qualche sponsor sulle magliette, ma nessuno è senza il doppio lavoro, l’America è lontanissima. Sulle gradinate l’ordine dei posti corrisponde all’appartenenza alle proprie palestre di pugilato: Quartaccio, Roma 70, Quadraro, Magliana. Sui gradoni si discute delle condizioni di Giovanni De Carolis, che quella sera avrebbe poi combattuto e vinto contro Khoren Gevor: «chissà come starà, in Germania è stato grandioso». Campione del mondo Giovanni lo era diventato in Germania e per accordi contrattuali sempre in terra straniera aveva dovuto difendere il titolo, riuscendo una prima volta, ma non una seconda. Prima di lui, però, a salire sul ring tocca a Michael Magnesi: solo la quarta volta senza caschetto, ma con la sua maschera da lupo. Quel camuffamento lo deve alla passione del padre per il fumetto disegnato da Fernando Fusco: Lonewolf, il re della solitudine.

Michael è nato nel 1994 a Cave, in provincia di Roma, e combatte nella categoria di peso dei superpiuma. Nell’altro angolo del ring Emmanuel Lopez da Comitán de Domínguez, Messico, soprannominato “el Pollo”. Lopez è un veterano del ring è quella sera avrebbe disputato il suo quarantaduesimo incontro.

Non è stato un incontro come gli altri: anni dopo quella sera mi sono reso conto di quanto mi fosse rimasto impresso. L’ ho cercato su YouTube, ma non ho trovato nulla. Non c’erano televisioni, telecamere, nemmeno una diretta streaming. Non uno smartphone che abbia ripreso l’incontro. L’unico modo di ritrovare quell’incontro è cercandolo nella memoria di chi l’ha visto dal vivo: o ancora meglio, di chi l’ha combattuto. L'ho chiesto a Michael Magnesi.

Perché lo consideri il più bell’incontro di pugilato che hai disputato fino ad ora?

Perché ho messo alla prova tutto, dal coraggio mio, alla forma fisica, al lavoro che stavo facendo in palestra con Silvio Branco, ex campione europeo dei pesi massimi leggeri, mio attuale preparatore atletico, e con il mio maestro Mario Massai.

Cosa ricordi delle 10 riprese contro Lopez?

Ricordo che durante il match portavo colpi su colpi, ma niente da fare, non gli facevo niente. Prendeva colpi in testa, sui reni, ma colpo su colpo rispondeva: siamo stati al centro del ring dalla prima ripresa fino alla decima. Poi quando ho visto che non andava giù ho detto: «va bene dovremmo farle tutte e 12». Alla fine del match avevo le mani completamente gonfie e pensavo di averle rotte entrambe. Ogni cazzotto che gli davo in testa sentivo dolore alle mani, ma lui non sembrava accusarli e restava imperterrito al centro del ring a lavorare come se nulla fosse. Al decimo round però ho deciso di cambiare guardia e ho cercato di infilare un montante destro, se hai visto il match, non un colpo fortissimo, ma preciso, sulla bocca dello stomaco. Il colpo è arrivato mentre lui riprendeva fiato. Tutte queste cose hanno fatto la differenza ed è stato KO. C’è stato un momento alla quarta ripresa che pensavo di aver risolto l’incontro perché lo avevo pizzicato con un bel gancio sinistro, invece quando l’ho attaccato dopo quel colpo è lui che ha reagito infilando a sua volta un gancio sinistro. È stato un momento carico di energia: tutti e due ci siamo colpiti, tutti e due abbiamo sentito il colpo, ma comunque nessuno dei due ha fatto un passo indietro e siamo rimasti lì, al centro del ring. Avevo visto quel piccolo spiraglio, ho provato ed è andata. Ho messo in pratica i consigli che ricevo ogni giorno, di tenere sotto controllo tutti gli aspetti e le occasioni che possono presentarsi durante un incontro.

Non c’è traccia di quell’incontro, questo di cosa ti priva?

Mi priva della possibilità di rivedere il mio punto di inizio. Quello è il punto dove ho cominciato ad avere la certezza delle mie potenzialità. Quel giorno in palio c’era il titolo WBC silver, ma Lopez era anche campione del mondo uscente WBA. È stato un passaggio obbligato anche per testare le mie possibilità di diventare in futuro un campione del mondo.

Come ti sei preparato per affrontare Emmanuel Lopez?

Tutta la preparazione è stata altalenante: ho avuto un infortunio ai gomiti, durante la preparazione ho sofferto di epicondilite e ho dovuto fare delle infiltrazioni. Quando mancavano solo 15 giorni al match mi sono rotto il naso.

Come è successo?

È stata mia moglie con una testata involontaria, che adesso ride dietro di te. Nessuno lo sapeva di questo infortunio, neanche il maestro. Dopo la prima ripresa tornando all’angolo è iniziato a uscire il sangue dal naso, il maestro non riusciva a capire come mai.

Dopo quella serata è cambiato anche il tuo avvicinamento agli incontri?

Quel match lì ha fatto scattare tante certezze e tante consapevolezze. Anche prima di quel match pensavo di essere forte, ma quella volta ho trovato un pugile che non ha detto basta e non sono bastate le mie capacità atletiche. Ho vinto perché ho messo quel colpo millimetrico, ho dovuto lavorare di intelligenza. Ho portato i colpi dove lo vedevo scoperto e vulnerabile. Da quel giorno ho iniziato a portare meno quantità e più qualità nei miei colpi.

Quali erano le indicazioni del maestro Massai per scardinare la difesa del messicano durante l’incontro?

Era preoccupato per il naso. Quindi era concentrato lì a fermare l'emorragia. Nel frattempo la cosa che mi ripeteva spesso era di lavorare sugli spostamenti laterali per non rimanere fermo davanti al mio avversario, così sarei riuscito a spiazzarlo e a inserire i colpi meglio. Fino alla quinta ripresa non gli ho dato ascolto. Io mi mettevo al centro del ring: uno a me uno a te, due a te due a me. Poi visto che il match così non girava ho iniziato a seguire le sue indicazioni e se ti affidi al 100% a lui e se riesci a isolare la sua voce in mezzo a quella di tutti quanti riesci a farti guidare. ha una capacità di darti il consiglio giusto qualche secondo prima del momento giusto. Ad esempio quando sento la sua voce che dice «sposta e metti il gancio» il mio corpo ormai risponde in automatico.

Quali caratteristiche deve avere un incontro per essere considerato bello?

Io mi sono sempre ispirato ad Arturo Gatti. A casa vedevo sempre le trasmissioni di Rino Tommasi, avevamo le videocassette, e quando si parlava di Gatti io mandavo indietro e rivedevo quegli spezzoni all’infinito. Come pugile era un treno: molto generoso. Prendeva molti colpi, andava a tappeto, si rialzava e poi nei momenti più difficili per lui riusciva a girare le sorti del match con un colpo che non ti aspettavi. Mi sono sempre chiesto come fosse possibile subire tutti quei colpi, andare a tappeto diverse volte e poi mantenere la lucidità per mettere a segno quel gancio che poi riusciva a fargli vincere il match. Lui era questo, aveva il gancio sinistro che era tremendo e sapeva metterlo sempre nei momenti di difficoltà, di pressione. Quando entrava quel colpo, magari di incontro, l’avversario finiva KO. Un po' quello che io sono riuscito a fare quella sera alla decima ripresa.

Sono passati due anni dall’incontro di via della pisana con Lopez, in cosa hai lavorato e in cosa ti senti più pronto ora quando affronti un avversario?

La freddezza sul ring: più che portare tanta quantità, cercare la qualità nel colpo e il punto scoperto nel mio avversario. Ho cercato di migliorare in questo e poi nella preparazione in vista della difesa del mondiale si sono visti questi passi avanti, ho messo ko praticamente tutti i miei sparring partner. Ora il problema è che non ho più sparring partner con i quali allenarmi e fare i guanti.

Hai intenzione di cambiare il tuo team per la trasferta in America?

Mi avevano proposto di cambiare tutto il team e di prenderne uno americano e di trasferirmi lì per tutti i mesi della preparazione, ma ho preferito di no. Squadra che vince non si cambia! Adesso ho trovato la giusta armonia con tutti i membri del mio team. Ho il mental coach che è Emiliano Branco. È una persona che ha sempre il sorriso sulla bocca e che nei momenti più difficili nell’avvicinamento ad un incontro mi aiuta a non mollare e sa darmi sempre il conforto di cui ho bisogno.

Hai accennato al mental coach, e al peso anche psicologico che un atleta professionista deve sopportare. Nell’ultimo periodo questo aspetto è salito alle luci della ribalta con i forfait di Osaka e Simone Biles nelle loro rispettive discipline. Tu come vivi e gestisci la pressione?

Guarda io ho la fortuna, che per gli altri membri del team è una sfortuna, che io non ho ansie. Io anche quando ho dovuto combattere per l’incontro valevole per il mondiale non sentivo particolari pressioni o ansie. Il ring è il mio mondo e lì esprimo me stesso. È vero però che prima di arrivare a quel punto faccio tanta meditazione. Il giorno del peso, non mi sente nessuno, avverto Emiliano per cose pratiche, ma fino alla sera del match sono rinchiuso in me stesso. Cerco di interrompere quella che è stata la mia routine negli ultimi mesi e di trasportarmi in un posto sereno per cercare di recuperare tutte le forze perché tre mesi di preparazione sono duri e intensi.

La meditazione è stata una tua necessità o hai iniziato su consiglio di qualcuno?

No, ho fatto tutto da solo è fin da quando ero dilettante che ho trovato questa strada. In questo modo riesco a sentire meno il carico mentale e fisico in vista della serata.

Da Cave a New York cosa ti spaventa di questo salto?

Non molto se non la loro abitudine ai grandi palcoscenici. Sono molto tranquillo. Non vedo l’ora di essere lì e combattere. Non aspetto altro che entrare nel quadrato e ascoltare il pubblico che urla, parliamo di un tifo non indifferente e che qui in Italia purtroppo non c’è. Questo mi dà moltissima carica, soprattutto se sarà un tifo avverso. Quando è così mi carico. La distanza tra il mondo del pugilato italiano e quello americano sembra abissale, ma molto dipende anche dalla pubblicità che se ne fa. I media e i social, il marketing rende quelli dei super atleti, ma poi sul ring è altro quello che conta.

Hai visto le Olimpiadi?

Ho visto le pugilesse e ho fatto il tifo per loro.

Ti sarebbe piaciuto partecipare?

Beh è un evento prestigioso, ma io non posso partecipare perché sono un pugile professionista. Ogni pugile dilettante che inizia a boxare spera un giorno di poter andare alle Olimpiadi, è stato anche il mio di sogno. Poi con il passaggio al professionismo il mio obiettivo è diventato il titolo del mondo.

Ora esiste la possibilità di partecipare alle Olimpiadi anche per i professionisti?

Per partecipare, le sigle professionistiche ti chiedono di rinunciare ai titoli che hai conquistato fino a quel momento. Non credo troveresti qualcuno disposto a fare questa rinuncia, e poi c’è tutto il discorso delle borse. Per un titolo olimpico la borsa per il vincitore quanto potrà essere, 100 mila euro? Non c’è paragone con i guadagni dei campioni del professionismo.

Ma come mai non si arriva, come è stato anche per altri sport ad esempio il tennis, a permettere agli atleti professionistici di partecipare senza nessun tipo di ostacolo alle olimpiadi?

Prima di tutto dobbiamo dire che sono due pugilati completamente diversi. Sono due mondi distanti, faccio fatica ad immaginare un campione dei dilettanti che possa cavarsela con un altrettanto campione del professionismo. Anche la preparazione fisica è diversa. Un professionista deve sostenere 12 riprese, il dilettante 3. È vero che ci sono sempre delle eccezioni, ma di Lomachenko ne esiste uno. E poi se il professionismo diventasse così egemone che fine farebbe tutto il mondo del dilettantismo? E la nazionale ci sarebbe ancora? Credo che convenga a entrambi che le cose non cambino.

Il dilettantismo in Italia ha un suo percorso che termina nei gruppi sportivi delle forze dell’ordine. Invece qual è il percorso del professionismo e quale il suo stato di salute in Italia?

È un momento molto brutto per il professionismo perché non ci sono tutele per un pugile professionista. Vivere di pugilato è impossibile. La borsa di un titolo italiano è di 2mila euro, per fare una preparazione atletica ne spendi 5mila. Neanche rientri. Il mondo del professionismo è poco tutelato: ho difficoltà a trovare dei sparring partner, magari la federazione potrebbe impegnarsi e aiutarmi in questa ricerca perché io sono un tesserato della federazione italiana pugilato, mai nessuno mi hai chiesto se avessi bisogno di una mano.

E tu come fai? Riesci a vivere solo di pugilato?

Fortunatamente 4 anni fa sono riuscito ad avere una sponsorizzazione che ancora continua con il mio amico Roberto Massarone della “Le cinéma café”. Lui ha creduto in me e mi ha dato la possibilità di fare il pugile h24. Credo di essere l’unico se non uno dei pochissimi in Italia che ha la fortuna di potersi dedicare solo al pugilato. Per fare questo sport e arrivare ad alti livelli l’unico modo è dedicargli ogni minuto della giornata. Non puoi andare a lavorare e poi fare il pugilato.

Insomma è raro avere uno sponsor che ti permette di fare il pugile

Talmente raro che ho deciso di tatuarmi la scritta “le cinéma café” sul braccio. Ora è molto di più di un semplice sponsor, c’è sempre. C’è stato anche durante la pandemia, e così ho deciso di ringraziarlo con questo tatuaggio.

Come fanno tutti gli altri pugili che decidono di tentare la carriera professionistica?

Fanno tutti il doppio lavoro. Chi lavora in palestra, chi lavora in cantiere, chi al forno. Prima del contratto di sponsorizzazione lavoravo in cantiere, posso dirti che quando lavori non riesci a fare niente al meglio e poi spesso finisci per farti male perché hai la testa altrove: mi sono bruciato con il braccio nel mio periodo da idraulico.

«Oltre a questo il grande problema sono i manager» aggiunge Alessandra Branco, che oltre a essere la moglie di Michael è anche la sua manager.

Cosa intendi Alessandra?

Se anche quando un pugile con mille sacrifici arriva a giocarsi un titolo italiano tutto quello che gli spetta sono 2 mila euro, capisci da te che non ha modo di crescere. Poi da questi 2 mila euro devi sottrarre anche lo stipendio del maestro, oltre al costo dei tre mesi di preparazione e l’attrezzatura. Il pugilato, se continuiamo così, non guarirà mai. Tante volte gli atleti combattono gratis o addirittura sono i pugili che trovano i fondi per organizzare delle riunioni nelle quali combattere.

Un titolo del Commonwealth - la interrompe Michael - viene pagato fino a 12 mila euro. Fare pugilato in Italia non conviene da nessun punto di vista. Per sopravvivere devi andare fuori, ma spesso la necessità è così tanta che si bruciano le tappe e si arriva impreparati con tutti i rischi per la salute che ne derivano.

Ci potrebbe essere una soluzione a tutto questo?

La federazione dovrebbe tutelare i pugili. Tu sei un tesserato della federazione pugilistica italiana, che è la mamma di tutti questi atleti. Perché non li tutela? Perché quando vengono organizzati gli incontri la federazione non si sincera del fatto che ai pugili venga riconosciuto il giusto? Bisogna mettere degli standard, solo così si può invertire la rotta. All’estero 30 giorni prima dell’incontro si depositano tutte le borse dei pugili come cauzione a un ente che tutela i pugili. Perché la federazione questo non lo impone? In Italia se tutto va bene i soldi li vedi dopo due mesi. Se non li prendi a rate.

Ci dovrebbe essere un tetto minimo per i pagamenti e la federazione dovrebbe tutelare i pugili non i promotori o i manager. Anni fa si era proposto di entrare tutti in un consorzio esterno proprio per cercare di veder rispettati almeno i diritti minimi degli atleti, ma poi non se n'è fatto nulla, si vede che gli piace così alla fine e nessuno ha il coraggio di fare questo passo.

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