Se avessi dovuto cominciare a scrivere questo pezzo dopo il terzo quarto di gara-2 tra i Denver Nuggets e i Miami Heat, probabilmente avrei cominciato su questa falsariga: anche quando Miami fa tutto giusto, non ha abbastanza potenza di fuoco per reggere il passo dei Nuggets. Pur ritrovando le percentuali che le erano mancate per larghi tratti di gara-1 (46% nei primi tre quarti); pur recuperando da uno svantaggio arrivato anche a -15 nel secondo quarto (e dopo essere stati a loro volta a +11); pur eseguendo decisamente meglio il piano partita pensato da Erik Spoelstra (solo 3 assist per Jokic, togliendogli tutte le linee di passaggio preferite); e pur trovando le prestazioni sopra le righe di Max Strus (12 punti nel primo quarto) e soprattutto Gabe Vincent (18 nei primi tre quarti, 23 alla fine), gli Heat erano comunque arrivati alla frazione finale sotto di 8 lunghezze, complice un terzo quarto da 18 punti di Jokic in modalità “non-ho-intenzione-di-perdere-stasera”.
Tra i tanti aspetti straordinari dei playoff di Jokic, la condizione atletica per poter mantenere uno sforzo del genere — anche facendosi tutto il campo in coast-to-coast solitario — è uno dei più sottovalutati.
Ma le cose, ai playoff e in particolare alle Finals, possono cambiare in fretta, specialmente contro questi Heat. Sono bastati due minuti di riposo per Jokic e un cambio di marcatura per ribaltare completamente gara-2 e, con ogni probabilità, l’intera serie, visto che gli Heat hanno sbancato la Ball Arena (prima volta in questi playoff dopo 9 vittorie consecutive e prima sconfitta interna dal 12 marzo a oggi con Jokic davanti al proprio pubblico) pareggiando la serie sull’1-1, salendo sull’aereo per Miami con la consapevolezza che, tolti i primi tre quarti di gara-1 in cui la maggiore freschezza di Denver ha avuto la meglio, la squadra migliore in campo sono stati loro.
Un quarto per domarli tutti
Nei primi tre quarti Miami aveva viaggiato a un rating offensivo tutto sommato accettabile di 113.6 punti segnati su 100 possessi, tenendo in qualche modo il passo dei Nuggets che stavano veleggiando sulla loro media di 122.1 grazie soprattutto a un parziale di 32-11 a cavallo di primo e secondo quarto, realizzato soprattutto con Nikola Jokic seduto in panchina. Denver in questi playoff è riuscita a trasformare lo storico difetto che la accompagna — i differenziali tra quando il serbo è in campo e quando è fuori sono sempre stati tragici — in un punto di forza, cambiando repentinamente stile di gioco e sorprendendo gli avversari. Aveva funzionato anche nel primo tempo di gara-2, ma nel quarto periodo i vecchi demoni sono tornati a far visita a coach Michael Malone.
Nei primi 3:17 del quarto periodo Miami ha messo assieme un parziale di 17-5 che ha permesso loro di rimettere la testa avanti e non voltarsi più indietro, trovando all’improvviso un Duncan Robinson inarrestabile ed esponendo tutti i problemi di concentrazione di questi Nuggets. È in quel frangente che si è avvertita in maniera sensibile la differenza tra una squadra al suo debutto nelle Finals e una che invece da quattro anni ormai gioca stabilmente a certi livelli. Se c’è una qualità che contraddistingue questi Heat è la loro forza mentale di cui avevamo già scritto dopo gara-7 contro Boston: laddove altre squadre sarebbero crollate a seguito di quel parziale di Denver senza Jokic, loro hanno ricominciato a giocare la loro pallacanestro arrivando all’intervallo con uno svantaggio di sole sei lunghezze; laddove altri si sarebbero abbattuti davanti a uno Jokic fuori da ogni logica (41 punti e 11 rimbalzi alla fine con il 57% dal campo), loro hanno continuato a macinare la loro pallacanestro possesso dopo possesso, taglio dopo taglio, blocco dopo blocco — un po’ perché non possono fare altro (specie con un Butler lontano dal 100%) e un po’ perché sono intimamente convinti che alla lunga, in un modo o nell’altro, la spunteranno loro.
Difficile dare loro torto, visti i risultati di queste incredibili playoff che stanno vivendo. Duncan Robinson fino al quarto periodo aveva vissuto una serata in ombra, frutto di un lavoro decisamente più accurato fatto da Denver (e in particolare da un indemoniato Christian Braun) per tirarlo fuori dalla partita. Non a caso il rating offensivo nei 6 minuti e 47 secondi con lui in campo era stato un orribile 50.0, di gran lunga il dato più basso di tutta la squadra; e invece è bastato che i Nuggets per un attimo pensassero di poter “nascondere” Jamal Murray difensivamente su di lui per metterlo tatticamente ed emotivamente in partita. Miami non avrebbe mai vinto questa partita senza i suoi 10 punti per aprire il quarto quarto, un periodo nel quale il suo rating offensivo è schizzato a 200 punti segnati su 100 possessi e gli Heat hanno vinto nella metà campo offensiva, non solo tenendo il passo di Denver ma surclassandolo.
Da -8 a +3 nello spazio di due minuti, costringendo Denver al timeout e a rimettere Jokic in fretta e furia, privandolo del riposo vitale che gli era servito nel primo tempo per dominare il terzo quarto.
Ridurre la vittoria di Miami al solo Robinson sarebbe però riduttivo. Gabe Vincent ha giocato di nuovo una partita sensazionale, usando lo spazio che la difesa dei Nuggets evidentemente gli concede per attaccare il drop di Jokic sui pick and roll e prendersi quei floater che gli servono per entrare in ritmo. Neanche senza i suoi 23 punti (top scorer di squadra) gli Heat ce l’avrebbero fatta, ma coach Spoelstra ha avuto il coraggio e il carisma per metterlo in panchina per più di metà nel quarto periodo, cavalcando un Kyle Lowry che gli stava dando risposte e un Caleb Martin redivivo dopo una partita e mezza in difficoltà, perdendo anche il posto in quintetto in favore di Kevin Love. La panchina degli Heat quindi, da punto di debolezza del primo tempo, si è trasformata nella chiave della rimonta nel secondo, permettendo poi a Jimmy Butler e Bam Adebayo di chiudere i conti.
Nel finale di gara gli Heat si sono insistentemente affidati ai pick and roll tra i loro due migliori giocatori anche per coinvolgere il più possibile Jokic in difesa (uno degli aspetti su cui Spoelstra ha puntato maggiormente rispetto a gara-1), e Butler è riuscito in qualche modo a tirare fuori tre canestri pesantissimi da quello che gli rimaneva in una serata tutto sommato opaca (21 punti ma con 7/19 al tiro). Adebayo invece, oltre ad aver tenuto sempre la distanza perfetta da Jokic — abbastanza vicino per contestarlo ma abbastanza lontano per invogliarlo al tiro e togliergli le linee di passaggio alle sue spalle — come se fosse su una pedana olimpica per giocarsi l’oro nella sciabola, è stato anche lucidissimo in attacco, segnando 7 punti tra cui una roboante schiacciata con fallo e due liberi glaciali a 48 secondi dalla fine per mantenere il +5.
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Questi Heat non sono qui per caso
In qualsiasi modo finiscano queste Finals, in cui comunque Denver rimane la squadra favorita pur avendo perso il fattore campo nei suoi playoff, questa vittoria di Miami in gara-2 certifica quello che ormai dovrebbe essere chiaro a molti eppure ancora non lo è. Questi Heat non sono un fuoco di paglia e non sono arrivati in finale per caso, né hanno alcuna intenzione di arrendersi davanti a un avversario sulla carta più forte come sono questi Nuggets. Ma al contrario continueranno incessantemente a giocare la loro pallacanestro, a eseguire il piano partita escogitato dal loro allenatore da Hall of Fame, a non concedere neanche un punto facile ai loro avversari e a eseguire meglio delle loro controparti.
Se poi perderanno, va bene così: nessuno si aspettava davvero che arrivassero fino a questo punto, e anche questa notte — per quanto abbiano giocato bene nel quarto periodo e siano riusciti a disinnescare il passing game di Jokic — Denver è riuscita a mettere nelle mani di Jamal Murray il tiro del pareggio per mandare la partita all’overtime. Il margine di errore per gli Heat è rasente allo zero. Ma non c’è nessuno in NBA che sappia giocare meglio di loro con le spalle al muro e quando ogni possesso conta: se i Nuggets vogliono vincere il titolo dovranno rendersene conto in fretta, oltre a dover necessariamente vincere almeno una volta a South Beach.