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Diego Guido
Mi hanno voluto bene dappertutto, intervista a Dario Hubner
14 mar 2022
14 mar 2022
L'ex attaccante di Brescia e Piacenza oggi segue il calcio da lontano.
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Diego Guido
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Dario Hubner giocava spettinato. In lui era evidente la totale assenza di orpelli, di una qualsivoglia concessione all'immagine. Sul finire dei Novanta e il principio dei Duemila, la spettacolare pelle di seta della Serie A aveva in Hubner il suo neo di normalità.


 

Il circo itinerante portava in giro per tutta Italia personaggi che riempivano gli spot corali di Nike e i sogni dei bambini di tutto il mondo. C'erano i calzettoni arrotolati e la fascetta bianca di Totti, la luce abbagliante della cometa Ronaldo, i dipinti esterno-interno-suola di Zidane. C'erano lo sventolio dei capelli umidi di Nesta, il pizzetto e il Che di Verón, i ricci biondi di Crespo. E ancora l'eternità di Maldini o la conversione provincialista dell'ultimo Baggio. Una fabbrica di spettacoli al lavoro per produrre un elevatissimo grado tecnico e per pareggiarlo costantemente con un grado che era anche estetico. Poi, però, c'era Hubner.


 

Hubner dimostrava un sereno disinteresse per il clamore che vibrava tutt'attorno al tendone di quel circo. In un certo senso portava in campo il neorealismo pasoliniano, che nell'età dell'oro del cinema italiano aveva portato sul set ragazzi presi dalla strada. I loro volti erano un veicolo che accorciava la distanza tra le poltroncine in legno delle sale e il fascio di luce sparato dal proiettore sul grande telo bianco. In loro potevi vedere te stesso, e così accadeva con Hubner. Guardandolo negli highlights di 90° Minuto, accorciava la distanza tra qui e là. Era una materializzazione del sogno.


 

La squadra dell'Accademia Fabrizio Lori


La prima volta che ho incontrato Hubner è stato davanti ai vecchi spogliatoi di un anonimo campetto alle porta di Mantova, alle spalle della grande cartiera che impegna la sponda del lago di Mezzo. Ero di ritorno dall'avveniristico centro sportivo del Sassuolo in cui per Assocalciatori avevo incontrato Manuel Locatelli. Pochi chilometri lungo la A22, per la verità, eppure mi sembrava di aver coperto una distanza incolmabile. Da una parte l'erba golfistica del modernissimo Mapei Football Center, dall'altra i ciuffi infestanti del vecchio campo sportivo di Colle Aperto; il cappotto sartoriale di Locatelli contro il giaccone Givova dell'Accademia Lori che indossava Hubner; le sneakers fluo e le camicie di chi passava nei corridoi del centro neroverde contro il dialetto mantovano dei due pensionati su una panchina punteggiata di ruggine. Hubner era stato attore protagonista di una Serie A più scenografica di quella in cui al momento Locatelli si ritrova a giocare, eppure adesso sembra perfettamente a suo agio in questo campetto sgualcito.


 

«Io sono qui tutti i mercoledì a vedere i ragazzi», mi aveva detto. «Quando vuoi ci mettiamo d'accordo e andiamo a mangiarci una cosa così mi fai le domande e parliamo». Dopo un paio di settimane eravamo tutti sprofondati nel primo lockdown da Covid-19 e avevamo dovuto rimandare. La seconda volta che l'ho incontrato è stato quasi due anni dopo, su un altro campo del perimetro periferico di Mantova.


 

Oggi Hubner ha 54 anni e un incarico, più simbolico che realmente operativo, come Direttore Tecnico della squadra dell'Accademia Fabrizio Lori iscritta al campionato di Quarta Categoria, quello riservato a disabili. «Mi ha chiamato il pres, mi ha detto che i ragazzi gli avevano chiesto se potevo venire e sono venuto. Mi piaceva l'idea di poterli un po' aiutare». Il pres è lo stesso Fabrizio Lori da cui prende il nome la società sportiva. Lo stesso che aveva rilevato il Mantova neo promosso in C1 nell'estate del 2004 e che lo aveva lasciato nel 2010, fallito. Sei anni di campagne acquisti roboanti aperti nel 2004 dagli acquisti di Paolo Poggi e proprio Dario Hubner, con l'obiettivo di riportare la squadra in Serie B dopo molto tempo. L'impresa era riuscita al primo tentativo e l'anno dopo ne era stata sfiorata una addirittura in Serie A, sfuggita solo nei supplementari della finale di ritorno dei playoff contro il Torino, al Delle Alpi. Poggi e Hubner erano stati tra i pochi, pochissimi, grandi nomi arrivati in città a fine carriera in quegli anni che abbiano reso in linea con le aspettative e non si siano invece rilassati in un clima da prepensionamento, più attenti alla piccola mondanità di provincia che non a chiudere in un modo all'altezza delle loro carriere.


 

Nonostante abbia passato in biancorosso soltanto una stagione, Hubner è sempre stato ricordato in città con enorme affetto. «Mi hanno sempre voluto bene dappertutto. Ho anche avuto forse la fortuna di aver passato dieci anni tra Cesena, Brescia e Mantova che hanno tifoserie gemellate. Forse ha aiutato anche questo, non lo so. Ma anche a Piacenza, per esempio, ogni volta che vado mi trattano da idolo».


 


Foto di Grazia Neri/Getty Images


 

In qualche intervista ho letto che oggi gioca negli amatori con un gruppo di amici. Calcio a 7, fa il portiere. «Mi diverto, è la scusa per vederci. Abbiamo giocato anche ieri sera. C'erano tre gradi». Poi si è messo una mano all'altezza del bacino destro, «Mi sa che ho anche preso una botta qui ma non mi ricordo come». In porta perché ha paura di farsi male giocando fuori? «Non ho più voglia di correre. Ho corso talmente tanto che adesso sono stufo. E poi stare in porta mi piace. A volte lo facevo in allenamento, quando ancora giocavo». Non solo in allenamento. Non era così raro in quegli anni vedere un portiere venire espulso negli ultimi minuti di una partita, con i tre cambi già usati, e l'attaccante che mette l'enorme maglia col numero 1 del compagno, i suoi guanti, e va in porta. Era accaduto anche a lui in un Juventus-Brescia 4 a 0, per sostituire Cervone appena espulso dopo aver calciato forte il pallone in direzione del guardalinee per proteste, mancandolo. «Eravamo 4 a 0 ed è finita così. Non ho preso gol».


 

Quella volta in porta era il 21 settembre 1997. Hubner aveva 30 anni ed era un giocatore di Serie A da soli 22 giorni.


 

Da Borgo Zindis fino al Ponte de l'Alma


Gli hotel di notte si riempiono tutti degli stessi rumori. Un sottofondo ovattato di amplessi, di sciacquoni, di televisori dimenticati accesi. Il borbottio del televisore acceso era lo stesso che usciva anche dalla stanza di Dario Hubner la notte tra il 30 e il 31 agosto del 1997, in un albergo milanese. Era sdraiato in mutande e maglietta sopra lenzuola completamente bianche, le stesse di ogni hotel, e non dormiva. Il giorno dopo, lì a Milano, avrebbe giocato la prima partita di Serie A della sua vita. Avrebbe giocato contro l'Inter, ci sarebbe stato Ronaldo "il Fenomeno" appena arrivato dal Barcellona. A tenere sveglio Hubner fino alle 4 del mattino non era però l'ansia per il debutto: «Non ho mai sentito nessuna farfalla allo stomaco, né da giovane né all'arrivo in Serie A. Mai sofferto di tensione prima delle partite. Sapevo che mi ero preparato e che avrei fatto il possibile, e basta». Piuttosto erano gli speciali che per tutta la notte avevano raccontato dell'incidente in cui era morta Lady Diana a Parigi, sotto il ponte de l'Alma.


 

A Hubner è sempre piaciuto restare aggiornato sull'attualità, seguire approfondimenti in tv. Nel suo appartamento di Fano, all'inizio del 1991, aveva passato molto tempo solo. La moglie era rimasta nella loro casa di Passarera, campagna cremonese, con la figlia appena nata. Non era più il caso di fare trecento chilometri per andarlo a trovare e avevano preferito che la piccola restasse tranquilla a casa loro, la vera casa. La domenica sera, dopo la partita, Hubner le raggiungeva e ripartiva per le Marche il lunedì subito dopo cena. «Per ingannare il tempo durante la settimana facevo puzzle e tenevo accesa la tv sui programmi che parlavano della Guerra del Golfo». Restava alzato fino a tardi a cercare di combinare le tessere sotto la voce di Fabrizio Del Noce in collegamento da Baghdad. Gli chiedo perché proprio i puzzle. «Niente, così. Una volta un mio compagno aveva detto in spogliatoio che sua mamma aveva una cartolibreria e teneva anche dei puzzle. Non avevo nient'altro da fare e quindi ho iniziato. Ogni settimana un puzzle da 1500 pezzi. Me lo portava il martedì e il sabato l'avevo finito».


 

Non ci sono seconde letture delle risposte di Hubner. Escono cristalline, essenziali. Nulla va aggiunto, nulla è più complicato di così. Tutto è lineare e normale, tutto risponde a un basilare rapporto di cause ed effetti. Prima di Fano era stato un bambino più bravo degli altri nelle partite di ogni pomeriggio sul piazzale di Borgo Zindis, a Muggia, e poi era stato un ragazzino promettente nella Muggesana, in Prima Categoria. «Avevo i piedi di marmo ma fisicamente ero già una bestia. Non sentivo la fatica».


 

Muggia è il solo punto d'Italia al di sopra di Roma da cui per osservare il mare serva guardare verso nord. Un'eccezione che sta alla geografia come Hubner sta al calcio di alto livello. Viveva con la famiglia nelle case popolari di Zindis e il calcio non era per lui una prospettiva lavorativa realistica. La scuola l'aveva lasciata dopo la terza media per andare a lavorare. Un anno come garzone in una panetteria, poi operaio in una ditta di infissi. «Se non avessi raggiunto il professionismo probabilmente sarebbe stato il lavoro della mia vita. Va bene che non si può sapere come sarebbero andate le cose, però era un bel posto». Lo stipendio era buono, mi dice, e gli piaceva perché arrivava nelle case delle persone e quando se ne andava, a lavoro finito, le vedeva felici. Una felicità prodotta dai tre strati di alluminio plastica e ancora alluminio dei telai dei nuovissimi infissi Schüco. Mi ha spiegato che tra il 1983 e il 1987, quelli passati da dipendente della Glavina Serramenti tra i suoi 16 e i 20 anni, molte famiglie triestine avevano ancora finestre in legno con un solo strato di vetro semplice. I normali spifferi che lasciavano passare, con la bora potevano diventare interi giorni di un costante fischio intenso.


 

Quei quattro anni trascorsi da allestitore ancora a Muggia si erano interrotti quando aveva ricevuto l'offerta del Pievigina, Serie D. «Ero partito in estate per fare il ritiro, ma senza ansie. Se andava male tornavo a montare finestre, nessun problema». Era invece andata bene. 10 gol in 25 partite e a fine anno la chiamata del Pergocrema in C2. A Crema sembrava andare bene, non aveva sofferto il salto di categoria - «Non è mai stata una cosa che ho patito. Mi sono sempre adattato subito a ogni salto». In estate però l'allenatore era cambiato e l'aveva messo da parte. La finestra di mercato di ottobre gli aveva portato l'offerta del Fano e da rincalzo in Lombardia era diventato punto fermo nelle Marche. Promozione in C1 la prima stagione, alta classifica la seconda con Guidolin in panchina  - «la stagione in cui ho iniziato a evolvere tatticamente» -, retrocessione di nuovo in C2 la terza. Eppure i 13 gol segnati quel campionato gli erano valsi un altro salto, l'estate del 1992. La chiamata del Cesena in Serie B.


 

Nei cinque anni in Romagna ha alzato la sua media gol segnandone uno ogni due partite. Fino allo stesso finale che aveva già vissuto a Fano, con la sua squadra che retrocede e lui che riceve un'offerta da un'altra della categoria superiore. La categoria superiore questa volta è anche la più alta di tutte. Ci arriva con il Brescia, neopromosso in Serie A, e con loro si ritroverà in ritiro in quell'hotel di Milano la notte in cui Lady Diana aveva perso la vita. La notte in cui Hubner stava per incominciarne una nuova di vita, da icona indie del calcio italiano.


 

Dal Ponte de l'Alma fino al Tigrai


Il campo su cui si allenano i ragazzi diversamente abili dell'Accademia Lori è circondato da una serie di palazzine tra i tre e i quattro piani nel quartiere Te Brunetti. Era una zona incolta a fianco di Palazzo Te, divisa dalle simmetrie rinascimentali di Giulio Romano solo dai binari della ferrovia. Nel 1934 il regime l'aveva resa abitabile inaugurando le prime case per chi non ne aveva una e quell'impronta di quartiere popolare si era mantenuta anche negli anni del dopoguerra, con il sorgere di condomini bassi e l'esplosione della popolazione. Redditi bassi, bambini per le strade, qualche storia da piccola criminalità. In città avevano iniziato a chiamarlo il Tigrai, come la regione di Adua in cui l'Italia di fine Ottocento aveva visto impantanarsi le sue ambizioni coloniali.


 


Foto di Claudio Villa /Allsport




 

Su quello scenario di storia popolare, a fianco dell'architettura anni Sessanta della parrocchia, spiccavano i pantaloni sgargianti arancio fluo di Lori. L'ex presidente del Mantova ed ex imprenditore - la sua società nei primi Duemila, prima della bancarotta, aveva raggiunto un fatturato di centinaia di milioni di euro - ha seguito curioso tutta la mia conversazione con Hubner. A volte intervenendo con qualche battuta sugli anni di Hubner al Mantova, altre raccontandomi della sua squadra di Quarta Categoria. Mi ha raccontato che avrebbe voluto crearla anche quando era proprietario del Mantova in Serie B ma che non esisteva ancora una categoria che ospitasse il calcio per diversamente abili. «Alcuni dei ragazzi che vedi hanno disabilità psichiche, altri anche motorie. Sono sia maggiorenni, sia minorenni». Lori mi racconta che quando va a correre su una ciclabile poco fuori dal centro, spesso incontra uno dei portieri della squadra. «Facciamo un bel tratto assieme, poi a un certo punto lui accelera: “Ciao pres, vado a Cerese”. E quando lo dice, da Cerese siamo distanti 15 chilometri. Impressionante. Instancabile».


 

Lo stadio Danilo Martelli è anch'esso dall'altra parte della ferrovia. Vicino a Palazzo Te, il vecchio impianto butta verso il cielo l'obbrobrio architettonico della Curva Te. Uno scheletro di tubi e gradoni in alluminio che ha divelto quel che restava del velodromo che correva tutt'attorno al campo. L'avevano montata di fretta nel 2005, quando la promozione in Serie B aveva reso obbligatorio aumentare la capienza. Ora è solo un segno ormai sgualcito dell'illusione che aveva pervaso la città in quei mesi. Di quando si sentivano le pale dell'elicottero di Lori volare sopra lo stadio e portare chissà quale giocatore ormai ombra del suo passato. Anche Hubner era arrivato con l'elicottero. Anche Hubner aveva visto Lori correre per il campo durante il riscaldamento prima di ogni partita, sfoggiando maglie e camicie talvolta stravaganti, e salutare tutti i quattro lati delle tribune, adoranti per lui. In linea d'aria da quel prato di fasti passati a quello umile su cui ora siamo tutti e tre, a fine 2021, ci saranno a dir tanto 800 metri. Eppure sono lo specchio di come una sola vita in realtà ne contenga molte di più.


 

Abbiamo parlato un altro po' della sua carriera dopo quel debutto in Serie A di fronte a Ronaldo e di fronte alle folgorazioni di Àlvaro Recoba. Alla fine della quarta stagione, nel 2001, Roberto Baggio aveva fatto capire che al suo fianco avrebbe voluto Luca Toni. Allora Hubner era andato a Piacenza, ancora una volta vicino alla sua casa di Passarera. Al primo anno era diventato capocannoniere con 24 gol, gli stessi di David Trezeguet. Poi un altro anno lì e il successivo diviso tra un Ancona raffazzonato e un modesto Perugia. L'anno dopo l'atterraggio a Mantova, in elicottero, seguito nel 2005, a 38 anni, dall'inizio di un lento planare nelle serie minori. Il ritiro solo nel 2011, perché giocare a calcio gli piaceva troppo per smettere.


 

Verso la fine dell'allenamento, durante la partitella, all'improvviso vedo tutti fermarsi. L'allenatore non ha fischiato per fermarli e non stanno nemmeno riprendendo fiato. Stanno lasciando fare un tiro davanti alla porta ad un ragazzo tetraplegico. Si regge su due bastoni tripodi, la sua figura sembra accartocciata. Lo guardo avvicinarsi faticosamente al pallone, fare qualche tocco verso la porta. Alla fine riesce a tirare, con il suo compagno portiere che si era tolto dallo specchio. Tutti applaudono, qualcuno esulta, e un attimo dopo la partitella riprende. «Allenarli non è un lavoro per tutti. Serve una preparazione particolare per capire cosa fare e come gestire. Non è semplice».


 

Hubner guida per poco più di 100 km all'andata e altrettanti al ritorno una volta a settimana per venire qui a sostenere la squadra. E nei periodi in cui c'è il campionato li segue per le partite nel weekend, anche in trasferta. E tentare di lavorare nel professionismo non gli interessa? «Ho preso il patentino per allenare e avevo anche provato con i giovanissimi al Piacenza, ma ha smesso quasi subito. Non trovo più il calcio che piaceva a me. E poi una volta uno dei ragazzi che allenavo mi aveva detto “Mio papà dice che devo fare così”, "Allora ascolta lui” gli ho detto. Suo papà faceva l'agente di commercio. No, non faceva per me».


 

C'è qualcosa di Hubner che restituisce una dimensione che va però oltre il calcio e non riesco a non provare a conoscerlo meglio come persona. Cosa significa, ad esempio, essere cresciuto al confine con la Slovenia? «Nessun significato particolare. Quando vivevo a Muggia era normale andare e venire dal confine come adesso è normale andare e venire dai paesi vicino a Passarera. Ci viveva già mia moglie e quindi è stato normale iniziare a vivere lì».


 

L'allenamento dei ragazzi di Quarta Categoria finisce. Quanto ci metti ora a tornare? «Dipende, a volte anche due ore. La strada non è granché, non si può molto sorpassare. Se trovi camion o trattori devi stare dietro». Mi dice che però questa volta gli passerà meglio il viaggio. «C'è Inter - Spezia alle sei e mezza, tra dieci minuti. La ascolto in radio mentre torno». Poi mi dice che la sera suo figlio guarderà il Milan col Genoa e lui allora si farà qualche partita alla Play Station. Niente di speciale, insomma.


 

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