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Roberto Scarcella
Messico, calcio e surrealismo
20 feb 2023
20 feb 2023
Siamo stati a vedere quattro partite in Messico.
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Roberto Scarcella
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DGCS UNAM
(foto) DGCS UNAM
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A un certo punto il Deportivo Toluca fa un cambio ed entra in campo il numero 190. Non mi sorprendo nemmeno più. Dal primo minuto, sulla fascia sinistra, gioca il 194, tal Jorge Rodriguéz. Sono rimasto un tempo col dubbio di essermi sognato quell’1 sulla maglietta, perché sembra davvero troppo e perché Rodriguéz, terzino sinistro, giocava sulla fascia opposta. E la miopia in questi casi non aiuta. Riuscire a far stare tre cifre sul retro di una divisa da calcio non è facile, e così l’1 sulla maglia del Toluca è talmente spostato di lato da finire quasi sul fianco. E ok le magliette variopinte di Campos, la Cuautemiña di Blanco, l’Azteca, i gol del Chicharito Hernández e quelli di Hugo Sánchez. Ma dopo averlo visto dal vivo il calcio messicano per me rimarrà sempre quei numeri lì: 190-194. Nemmeno il football americano o il basket NBA erano arrivati a tanto. Quante volte usiamo nella vita il 194? La partita in cui scopro i calciatori a tre cifre si gioca nel rinnovato Nemesio Díez, tutto bianco, argento e rosso, talmente splendente, dentro e fuori, da sembrare un’enorme spider appena uscita dall’autolavaggio.

Lo stadio di Toluca è diverso da tutti gli altri stadi messicani. Non è questione di atmosfera. È morfologicamente, geograficamente diverso. L’unico che si sviluppa da est a ovest e non da nord a sud, creando problemi con la luce solare, che si estende in modo non uniforme limitando o addirittura - in alcune zone, in alcuni orari - impedendo la visibilità dei calciatori e delle telecamere che devono riprenderli (FIFA e UEFA, ad esempio, nei loro memorandum dicono chiaramente che gli impianti non dovrebbero mai discostarsi oltre i 15 gradi rispetto all’asse nord-sud). La luce, qui, è sempre stata un problema anche quando non sarebbe dovuto esserlo: di notte. Il Nemesio Díez, infatti, non ha avuto i riflettori fino al settembre del 2006, costringendo la lega messicana a far giocare il Toluca sempre di giorno. Anche i due Mondiali del 1970 (dove aveva sede il girone in cui l’Italia, che affrontò Svezia, Israele e Uruguay) e del 1986 qui sono stati giocati di giorno. A cambiare tutto fu il temporaneo ingresso del calcio messicano nei tornei organizzati dalla CONMEBOL, Copa Libertadores e Copa Sudamericana, e la qualificazione del Toluca alla seconda, la meno prestigiosa, abbastanza comunque da pretendere stadi dotati di illuminazione artificiale. Il 27 settembre 2006, giorno successivo alla prima partita serale della storia di Toluca, i giornali si concentrano più sull’arrivo della luce che sulla partita contro gli ecuadoriani del Nacional. Il sito di ESPN in lingua spagnola e il quotidiano El Universal arrivano entrambi a scomodare la Bibbia e a titolare “E la luce fu”, descrivendo l’emozione e le lacrime dei più vecchi, la gioia dei bambini. Su El Universal viene elencato il numero esatto di riflettori (132) e perfino spiegato che le quattro torri “sono state costruite vicino allo stadio”. Dove sennò? A incaricarsi di abbassare per la prima volta la leva dell’interruttore ci sono le due persone più influenti da lì a Città del Messico, il presidente del Toluca Valentin Díez (figlio dell’uomo che dà il nome allo stadio) e addirittura il governatore dello Stato, Enrique Peña Nieto. Sedici anni dopo, quando nel secondo tempo della partita a cui sto assistendo, Toluca-Monterrey del 7 aprile 2022, vengono accesi i riflettori, la luce quasi mi acceca. Forse è solo una sensazione data dalla stanchezza di un lungo viaggio aereo, o forse gli ha preso la stessa smania di abbondanza che prende a volte chi ha convissuto troppo a lungo con una privazione. Non hai una cosa che vorresti, quando finalmente puoi averla, esageri: che siano soldi, sesso, dischi o alcolici poco cambia. A ciascuno la sua sbornia, il suo eccesso: a Toluca è la luce artificiale. Sugli spalti, almeno nella mia porzione di tribuna, la scena se la prende tutta "El Diablo Rojo" in persona, il diavolo rosso, un tifoso sulla sessantina con mantello rosso, camicia rossa, scarpe rosse e pantaloni alla Elvis, sempre rossi. E le corna d’ordinanza. Tutti lo conoscono e lui sembra conoscere tutti: sorride, chiacchiera, si lascia fotografare e fa gesti con le mani che sembrano piccole benedizioni del diavolo.

Quando il Toluca segna, ben oltre il novantesimo, il gol del definitivo 2-2, c’è una sorta di processione per abbracciarlo e stringergli la mano, come se il gol l’avesse fatto lui. L’ha segnato invece l’uruguaiano Leo Fernández, che sarebbe il regista della squadra, ma tocca talmente tanti palloni da sembrare più un quarterback, come se il gioco non potesse proseguire senza passare da lui. Il fisico è tutt’altro che da football americano: 1,67 d’altezza, mancino, numero 10 sulle spalle e baricentro basso perfino per gli standard messicani. Per tecnica, andatura e controllo di palla, Fernández ricorda un mix tra il Papu Gómez e Iker Muniain, totem dell’Athletic Bilbao. Fernández telecomanda in rete la punizione dell’1-1 (infilando sul suo palo l’ex Boca Andrada) e poi si carica sulle esili spalle la squadra fino a 15-20 minuti dalla fine, quando - completamente scoppiato - inizia a sbagliare stop e lanci per lui, fino a quel momento, facili. La fede dei compagni nei suoi confronti resta incrollabile e continuano a piovergli addosso palloni: sembra il piano sciagurato di un allenatore senza uno straccio idea e con un unico talento in campo. Eppure funziona. Sotto per 2-1, al 95esimo Fernández riceve palla, quasi la perde, poi riparte e subisce fallo. Siamo poco oltre il centrocampo, praticamente impossibile tirare, difficilissimo mettere un pallone pericoloso in area. Fernández ci riesce con una parabola tesa e arcuata che manda in tilt la difesa del Monterrey: c’è una trattenuta e anche una deviazione in calcio d’angolo. L’arbitro non vede né l’una né l’altra. Metà dei giocatori del Toluca chiede il corner, l’altra metà il rigore. Richiamato dal VAR, l’arbitro indica il dischetto, dove si presenta - nemmeno a dirlo - Fernández. Gioca nel Toluca da un pugno di partite, ma era già passato di qua nel 2020, quando il Tigres lo girò in prestito: 8 gol in 10 presenze e una sintonia con l’ambiente che alla fine l’ha fatto tornare, definitivamente.

La sua presentazione, in due tempi, è uno di quei concentrati di America Latina che sembrano buoni per un film a basso costo: prima, in un video chiamato “Il ritorno del figliol prodigo”, canta la canzone “Ya estuve aquí” (“Sono stato già qui”), poi allo stadio si esibisce con un’altra canzone (“Motivos”), suonando anche la chitarra tra gli applausi del suo pubblico ritrovato. Al centesimo minuto della partita col Monterrey nessuno fiata. Fernández va sul dischetto con l’aria esausta. Ti aspetti un tiro, magari anche preciso, ma debole, stanco. E invece il 10 spara una cannonata nell’angolo: 2-2. L’arbitro, a quel punto, non fa nemmeno tornare le squadre a centrocampo.

***

Se a Toluca erano stati i numeri di maglia a stupirmi, a Puebla sono i calzettoni. Sia i padroni di casa che gli ospiti, i Pumas di Città del Messico, scendono in campo con un calzettone di un colore e uno di un altro: uno bianco e uno blu i giocatori del Puebla, uno arancione e uno nero quelli del Pumas. L’effetto straniante è reso ancora più assurdo dal fatto che tutti i calciatori del Pumas - eccetto un paio - hanno anche le scarpe spaiate. Di colori ancora diversi. Almeno la divisa del Puebla, bianca con una banda blu diagonale e i pantaloncini blu, mantiene tutto sommato un senso. L’altra è talmente incasinata da sembrare un test per la vista e ha quell’effetto ipnotico e insieme respingente di quei quadretti che andavano di moda negli anni Novanta in cui solo fissandoli a lungo - e facendosi venire una specie di mal di testa - potevi veder apparire un castello, un drago, un’astronave o chissà che altro. Qui, nel mezzo, appare un puma dorato e stilizzato.

Ovviamente in campo c’è un giocatore a tre cifre, è un altro laterale sinistro, quello dei Pumas, che porta il 183. Comincio a pensare che sia un trattamento riservato ai terzini. Invece questa volta c’è chi riesce a darmi una spiegazione: i numeri particolarmente alti vengono assegnati ai giocatori delle squadre giovanili in modo da avere la stessa maglia se convocati in prima squadra senza che i numeri confliggano con quelli di chi c’era già. Se nella stagione successiva al loro salto rimangono stabili nella rosa allora possono scegliersi un numero più basso. Risolta questa, più avanti, proprio nello stadio dei Pumas ci sarà modo di stupirsi per altri numeri. Di Puebla mi resta una partita piena di giocate raffinate ed errori grossolani finita anche questa 2-2; un’enorme bottiglia di Red Cola gonfiabile appena fuori dalla linea laterale accanto a una specie di Supertele gigante; la musichetta tipica del baseball (quella che sembra uscire da un organetto) suonata a ogni calcio d’angolo, a cui il pubblico risponde ogni volta nello stesso modo, con la stessa intensità, con un riflesso quasi pavloviano; l’altoparlante che alterna hit messicane a un evidente plagio de “L’ombelico del mondo” e a “Seven Nations Army” (Popopopopopopo, quella); Capitan Capsulita, supposta-mascotte dello sponsor locale, una catena di farmacie.

E un vicino di posto che riesce a essere ugualmente scortese con me, con chi gli vende da bere e da mangiare e anche con la ragazza che gli sta accanto. Lui ha la classica faccia belloccia ma arcigna, sconfitta in partenza e vagamente inespressiva che nei film romantici ha quello a cui il protagonista alla fine riesce a soffiare la fidanzata. Ha la maglia del Puebla mentre lei indossa quella dei Pumas. Non sono gli unici.

***

Anzi, queste coppie spaiate come i calzettoni dei giocatori in campo sono - o perlomeno sembrano, visto che è più facile che ti cada l’occhio - la maggioranza. Un mix aiutato dalla relativa vicinanza con Città del Messico che, quando - quattro giorni dopo - vado all’Azteca per il derby tra Pumas e Cruz Azul che vale la finale della Concachampions (la Champions League centro-nordamericana) assume proporzioni quasi ridicole. Fuori dall’Azteca ci sono momenti in cui le coppie con addosso due maglie diverse sono talmente tante che ti viene da pensare che l’ingresso sia consentito solo a chi si presenta ai cancelli con un tifoso avversario per mano. Il culmine si raggiunge con quelle famiglie in cui regolarmente un figlio ha la maglia del Cruz Azul, l’altro quella dei Pumas. Raggiungere l’Azteca dal centro cittadino è un viaggio della speranza che inizia in metropolitana e finisce su un trenino locale oltre un’ora dopo. Su quei binari iperaffollati credo di aver incrociato più gente di quanta ne abbia mai vista in vita mia (Città del Messico ha ufficialmente 23 milioni di abitanti, ma pare che siano almeno tre in più, vale a dire quanto Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia e Islanda messe assieme). L’arrivo ripaga fin da subito la fatica con un tramonto violaceo proprio oltre lo stadio. Su un piazzale su cui si potrebbe costruire un impianto altrettanto grande c’è la più lunga fila di bancarelle mai vista: vendono qualsiasi tipo di gadget possa venirvi in mente e a volerle girare tutte non basterebbe una giornata.

Una volta dentro, l’Azteca - maestoso - si mostra degno della sua nomea. La partita decisamente meno. Qui hanno giocato la mitica Italia-Germania 4-3 e poi la finale con Pelé che resta sospeso in aria mentre Burgnich viene attratto dalla forza di gravità come un qualsiasi altro essere umano; qui Maradona ha segnato i suoi due inscindibili gol all’Inghilterra e alzato la Coppa del mondo davanti ai tedeschi. A me tocca in sorte uno sciapo 0-0 le cui uniche emozioni sono un’espulsione e un rigore dato e poi tolto dal VAR. Il Cruz Azul, che giocava in casa, doveva vincere per raddrizzare la sconfitta per 2-1 dell’andata, che il mio aereo ha mancato per una manciata di ore complice un balletto nel calendario della CONCACAF. Quella partita era stata l’esatto opposto, un inno al caos che può diventare una partita di calcio, con errori a ripetizione, lanci geniali, rovesciate improbabili, batti e ribatti prolungati in area, uno dei quali aveva portato al primo gol, in cui il centravanti dei Pumas, Juan Dinenno, sbaglia un gol da un metro, con il portiere fuori causa, colpendo un difensore sulla riga e cadendo goffamente dopo una giravolta. Il difensore, impacciato, spazza colpendo il tacco di Dinenno, inerte, ma talmente vicino alla porta che la palla in qualche modo, rimbalzandogli addosso, supera la riga.

***

Quella gara si è giocata all’Olimpico Universitario, lo stesso in cui vado a vedere l’ultima di campionato tra i Pumas e il Pachuca primo in classifica. Lo stadio e il complesso di cui fa parte sono un’attrazione cittadina a prescindere dalla passione per il calcio. I Pumas sono infatti la squadra dell’Unam, la più grande università dell’America Latina, con 350mila studenti (per dare un minimo di proporzioni, l’università europea con il maggior numero di iscritti è la Sapienza di Roma, che ne ha meno di un terzo). Il suo campus è anche famoso per avere splendidi murales sulle facciate degli edifici. Dopo aver rifiutato un invito al rito della birra pre-partita (che iniziava alle 10.30 del mattino) con un gruppo di tifosi della Pebetera (la curva dei Pumas, che però è nella tribuna centrale) conosciuti la sera prima, l’idea è di girare il grande parco dell’Unam prima di andare allo stadio. Con i murales ho poca fortuna, perché sono quasi tutti coperti e in ristrutturazione, ma l’atmosfera vale senza dubbio la passeggiata: ci sono lezioni all’aperto di arti marziali e balli tradizionali, partite extralarge di frisbee, picnic sull’erba con cestini e capelli che sembrano usciti da un dipinto impressionista, un coro, una ragazza e il suo istruttore che ballano il tango - ipnotici - sotto i portici che collegano due edifici. Avvicinandosi allo stadio riappaiono le immancabili bancarelle, che qui hanno una particolarità: esibiscono le vertiginose e coloratissime magliette che indossava (e pare si disegnasse da sé) Jorge Campos, il portiere del Messico (e dei Pumas) che trovò il modo di farsi notare, non solo tra i pali, a USA ’94. Le maglie sono di pessima qualità e tuttavia tra le più care. Molti, però, le comprano comunque.

All’ingresso una lunga coda fa immaginare il tutto esaurito, invece lo stadio è pieno per metà, forse neanche. La partita è decisiva per i Pumas, obbligati a vincere per entrare nei playoff. Di lì a pochi giorni hanno però la finale di ritorno della Champions nordamericana (che perderanno 3-0 contro i Seattle Sounders, dopo essersi già fatti rimontare due gol nei minuti finali all’andata) e alcuni titolari vengono lasciati in panchina. A stupire ancor prima del fischio d’inizio sono ancora una volta le maglie. Una specialmente. Il Pachuca infatti scende in campo con una divisa bianca e azzurra. L’azzurro però non sono le classiche righe né altri motivi geometrici, ma maschere di lottatori di lucha libre (il popolarissimo wrestling locale). Avrebbe insomma tutto per risultare brutta e pacchiana, ma qui ha il suo perché. A non averlo, almeno apparentemente, è il numero sulla schiena dal centravanti Roberto de la Rosa, che non indossa il 9, ma lo 09. Per non smentirsi, entrambe le squadre hanno in campo un 195. Il Pachuca ha anche in panchina il 226 e il 229. La novità è l’interazione quasi ossessiva del pubblico con maxischermo e altoparlante. Prima di ogni calcio d’angolo lo speaker ricorda che si sta battendo un calcio d’angolo (“tiro de esquina!”), indicando anche il nome di chi va dalla bandierina. Ma l’esperienza più straniante è l’apparizione, in modo il più delle volte casuale, della mascotte - un puma in divisa da calciatore - sul maxischermo. Quando compare fa un gesto con la zampa assimilabile al movimento di un direttore d’orchestra alla prima battuta, nel frattempo parte il karaoke, talmente semplice e ripetitivo che forse nemmeno ce ne sarebbe bisogno: «Goya, Goya! Cachún, cachún, ra ra! Cachún, cachún, ra ra! Goya! Universidad!». Il coro si chiude con un gesto del puma assimilabile a un “bravi, bene così”. Non mi sono messo a contare, ma questo siparietto si sarà ripetuto almeno venti volte.

A fine primo tempo è sempre il maxischermo protagonista, con alcuni giocatori del Pumas che - preregistrati - passeggiano per il terreno di gioco e rispondono a domande come “chi è il tuo calciatore preferito?”, “chi è il compagno di squadra che fa più ridere/che balla meglio/con cui non faresti mai a botte?”, “preferisci il mole (la salsa che accompagna praticamente ogni piatto messicano) rosso, verde o non piccante?”. La risposta sul mole è quella più commentata dal pubblico, d’altronde in Messico, come in Italia, il cibo è una cosa maledettamente seria, proprio come il calcio. Il tabellone torna protagonista durante le sostituzioni e dopo i due gol dei Pumas, mostrando i volti dei protagonisti non come sono ora, ma quando erano bambini, ripresi accanto a un pallone grande quasi quanto loro o magari con indosso gli stessi colori di oggi. A fine partita i tifosi ballano tra le bancarelle e la stessa banda che aveva suonato per tutta la partita sembra non voler smettere più. C’è euforia e anche parecchio alcol. Mi allontano dal caos e mi avvicino al grande altorilievo realizzato sulle mura esterne dello stadio, lo stesso in cui si sono tenute le Olimpiadi del 1968, quelle del pugno alzato e ribelle di Smith e Carlos dopo la premiazione dei 200 metri, uno dei momenti iconici, quasi sacrali, della storia dello sport. Il murale è firmato da Diego Rivera, l’artista che più di ogni altro è riuscito a disvelare con le sue opere la multiforme, stratificata anima del Messico. Ci ha lavorato per anni assieme a un centinaio di persone e non l’ha nemmeno finito, eppure a guardarlo si viene pervasi da quella solennità che solo un Paese dalla storia così antica e densa può avere. Il momento di contemplazione viene interrotto da un rumoroso tifoso con addosso una maglia dorata di Jorge Campos. Vuole a tutti i costi una foto davanti al murale, girato di schiena, con il nome in bella vista. Intanto, mentre un poliziotto saluta calorosamente un signore con i baffi posticci e il volto truccato da puma, una ragazza in abiti tradizionali incrocia un tifoso con la maschera da lottatore.

Da non si sa dove arriva anche un pallone, inseguito da due cani, mentre la banda, sempre più ubriaca, continua a suonare, sovrastata per un attimo dal megafono di un’auto di passaggio che pubblicizza una polleria. Mi guardo intorno chiedendomi dove sono finito. La risposta sta in una frase di Salvador Dalí: «Il Messico? Non sopporto l’idea di visitare un Paese più surrealista dei miei dipinti».

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