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(di)
Dario Saltari
Mercenari
18 dic 2015
18 dic 2015
È davvero inaccettabile giocare solo per soldi? Le storie di Asamoah Gyan, Diego Tardelli e Jucilei.
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Dario Saltari
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Mercenari: nel calcio non c’è parola più dispregiativa. La si legge sugli striscioni dello stadio e la si sente sulla bocca dei tifosi quando una squadra va particolarmente male e l’allenatore viene sollevato dalle colpe. Il mercenario è colui che non si interessa dei risultati della propria squadra (e quindi, sostanzialmente, delle nostre sofferenze), contento del proprio ricco conto in banca.

 

È un’accusa paradossale, perché da circa un secolo tutti i calciatori sono tecnicamente mercenari (e cioè offrono le proprie prestazioni in cambio di denaro), ma che risiede nelle stesse radici del gioco. All’inizio, infatti, giocare per denaro non solo era visto come un disonore, ma era addirittura vietato dalle società, che mettevano fuori squadra chi veniva sorpreso a ricevere compensi. In Italia, il professionismo venne legalmente accettato solo nel 1926.

 

È buffo immaginarsi cosa sarebbe successo se nel calcio avesse resistito il dogma del dilettantismo. Probabilmente il gioco non avrebbe mai avuto quel successo popolare globale che ha oggi e sarebbe invece rimasto uno sport ristretto a un’aristocrazia agiata, simile al polo o alla caccia, praticato solo da chi si potesse permettere il doppio lusso di avere del tempo libero e di poterlo trascorrere facendo qualcosa di sostanzialmente futile.

 

Eppure la retorica dei mercenari sopravvive ancora oggi, nonostante un secolo di professionismo. L’immaginario collettivo del calcio, infatti, rimane troppo legato al mondo militare, dove l’accezione dispregiativa del termine è nata. È un retaggio che ci arriva dalla cultura illuministica, che concepì la nascita degli eserciti di massa riconvertiti ai nuovi concetti di patriottismo e nazionalismo, e ancora prima da quella rinascimentale, in particolare italiana.

 

Famosa, ad esempio, l’invettiva di Machiavelli contro le truppe mercenarie all’interno del

: «… Se uno tiene lo Stato suo fondato in su l’armi mercenarie, non starà mai fermo né sicuro, perché le sono disunite, ambiziose, e senza disciplina, infedeli, gagliarde tra gli amici, tra li nimici vili, non hanno timore di Dio, non fede con gli uomini, e tanto si differisce la rovina, quanto si differisce l’assalto; e nella pace siei spogliato da loro, nella guerra da’ nimici».

 

È un’idea che sopravvive ancora oggi, che pure sta vedendo un ritorno importante dei mercenari proprio nel mondo militare, tanto che per indicarli si preferisce la neutralità dell’inglesismo

.

 

All’interno del rettangolo verde, però, i

sono più difficili da individuare, proprio perché tutti i calciatori, nessuno escluso, sono assoldati da società private in cambio di denaro. Come in tutti gli altri lavori, però, quasi nessuno basa le proprie scelte

sul denaro, anche se bisogna ammettere che il denaro gioca ormai un ruolo determinante. In gioco ci sono anche altri fattori, come l’importanza data alla carriera, la gradevolezza di un ambiente o l’amore per una storia.

 

Una prima evidente discriminante è proprio questa: i mercenari effettuano le proprie scelte basandosi solo sul denaro. L’utopismo del mercenario è avere uno stipendio da star senza avere la pressione psico-fisica di esserlo per davvero, essere ingaggiati dallo sceicco del Brunei con il contratto di Cristiano Ronaldo solo per palleggiare nei giardini della sua reggia.

 

Con la globalizzazione del calcio, le possibilità di questo tipo si sono moltiplicate esponenzialmente, essendoci grosse disponibilità di denaro anche al di fuori dei continenti che calcisticamente stabiliscono gli standard di “normalità” di una carriera, e cioè l’Europa e il Sud America. Oggi si possono avere stipendi all’altezza dei top club europei in molti altri paesi, dal Qatar alla Cina, dall’Arabia Saudita all’India.

 

Tra l’apparente normalità del calcio europeo e il modello distopico dell’ex terzo mondo ci sono però una miriade di sfumature che differenziano i mercenari. Ho cercato di distinguerle proprio con l’aiuto del Machiavelli.

 



 

«I capitani mercenari o sono uomini eccellenti, o no; se sono, non te ne puoi fidare, perché sempre aspirano alla grandezza propria».



 

I mercenari egotisti siedono in un certo senso al punto opposto di quelli pragmatici. Per loro il denaro non è un mezzo per garantirsi una vita agiata, è soprattutto la conferma terrena della grandezza della propria esistenza (non per forza professionale). Il loro ego si ciba del lusso per crescere, assomiglia ai demoni senza volto della Città Incantata, quella specie di fantasmi che diventano sempre più enormi divorando qualsiasi cosa gli passi a tiro, con la grossa differenza che quelli corrompevano le proprie vittime producendo magicamente piccole pepite d’oro. Il più grande mercenario egotista della nostra epoca è Asamoah Gyan.

 



Asamoah Gyan davanti alla sua Rolls Royce dorata da circa 400.mila euro, che a volte sfoggia tra le vie di Accra. La didascalia: «Non conoscevo la parola ISPIRATO fino a quando mia madre mi chiamò all’età di 13 anni e mi disse: "FIGLIO, TU SEI ISPIRATO DA DIO". Gli hater faranno bene a pensarci due volte».



 

Posso solo immaginare quanto Gyan debba aver considerato deprimente la propria vita all’inizio della carriera, quando si costruì una fama internazionale tra Modena, Udine, Rennes e Sunderland, con compensi evidentemente troppo modesti rispetto a quello che diventerà il capitano del Ghana. Dubito che la titolarità in un’importante squadra di Premier League gli potesse bastare.

 

E infatti, nel pieno della sua maturazione fisica e tecnica, a 26 anni, accetta l’offerta dell’Al-Ain, club di Abu Dhabi, che dopo un prestito annuale lo acquista a titolo definitivo. Nell’estate del 2012 firma un contratto che secondo le ricostruzioni dei giornali si aggira tra gli 8,5 milioni di euro a stagione e i 10, più o meno 200.mila euro alla settimana.

 

Per Gyan l’essersi trasferito in un campionato meno blasonato non è un declassamento, anzi, il fatto che venga pagato così tanto costituisce per lui l’attestato delle sue capacità. Quando nega di essersi trasferito negli Emirati Arabi Uniti per soldi è sincero: non si trasferisce per quello che i soldi possono comprare, ma per ciò che i soldi rappresentano. E infatti alla CNN

: «Spostarmi nella lega asiatica è un altro passo importante nella mia carriera. Chissà, forse posso portare lì un po’ di esposizione mediatica. Ho molti fan in Africa e Europa». Non è lui a dover inseguire la fama, è la fama a seguire lui.

 



Il ritratto di Asamoah Gyan fatto di paillettes e il 3, il numero di Asamoah Gyan, sulle scarpe di Asamoah Gyan.



 

È il primo passo per la crescita del suo ego, che da quel momento inizia a cibarsi dei beni che il suo stipendio

può acquistare. Non solo diverse Rolls Royce e altre macchine sportive, ma soprattutto quella che è a metà tra una dimora personale e un museo commemorativo ad Accra, che Gyan ha umilmente rinominato La Basilica. Dieci camere da letto, un cinema da 50 posti, una piscina e un prezzo che si aggira intorno ai tre milioni di dollari: dalle foto che

, la casa di Asamoah Gyan sembra riempita soprattutto da premi e ritratti di Asamoah Gyan.

 

Tra il 2014 e il 2015, cioè tra quando l’Al-Ain gli alza l’ingaggio a quando passa allo Shanghai SIPG diventando così il sesto giocatore più pagato al mondo (davanti a lui solo Messi, Ronaldo, Rooney, Ibrahimovic e Bale), la situazione precipita, assumendo il più delle volte connotati grotteschi.

 

Nel settembre del 2014 Asamoah Gyan

dell’omicidio del suo amico rapper Castro, che secondo le fantasiose ricostruzioni dei media ghanesi sarebbe stato ucciso in un sacrificio umano per propiziare il futuro della sua carriera. Un’ipotesi assurda, ma che metaforicamente dà comunque la giusta proporzione del personaggio. La grandezza della sua autostima assume addirittura connotazioni geografiche quando, in

alla BBC, dichiara che l’intero popolo ghanese odia Luis Suaréz per ciò che ha fatto ai Mondiali del 2010, cioè aver esultato a un rigore da lui sbagliato. Sul Play Store potete scaricare la sua app personale per Android, dal nome originale: “Asamoah Gyan”.

 



Un’immagine che contiene mille altri immagini, una specie di riassunto.



 

In mezzo a tutte queste controversie, quest’estate Gyan va al

Sports File dell’emittente ghanese MetroTV. Probabilmente è una tattica per riappacificarsi con i media del suo paese. E infatti il conduttore tocca tutte le sue note di colore, dalla leadership della Nazionale ghanese alla dimora di Accra, con domande spuntate. Gyan, ovviamente, si limita quasi sempre a dichiarazioni d’ufficio, forse anche per una conoscenza non perfetta dell’inglese. Alla fine del programma, però, il conduttore inizia a leggere le domande arrivate per lui da Twitter. Un suo fan gli chiede: «Saresti stato un giocatore migliore se fossi rimasto in Premier League?». Lui ci pensa un po’, guarda per terra, mette in fila alcune premesse confuse, ma poi risponde: «Penso sarei stato un giocatore migliore, ma il trasferimento che ho fatto mi ha reso un uomo felice».

 

Gyan è diventato l’eroe nazionale del suo paese e vive nel lusso. È riuscito a usare l’industria del calcio per soddisfare i propri bisogni psicologici, mentre in Europa e in Sud America la stessa industria consuma esseri umani su scala industriale con il miraggio della fama e del successo per distrarci dalle nostre vite non esaltanti.

 



 

«Vogliono bene essere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra; ma come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene».



 

A portare la bandiera dei mercenari indecisi c’è Diego Tardelli (il suo nome è un omaggio del padre ai suoi due giocatori preferiti: Diego Armando Maradona e Marco Tardelli). I mercenari indecisi sono quelli sempre sul punto di rinnegare il dio denaro, almeno in apparenza. Difficile dire da cosa derivi questa indecisione, se un reale conflitto interno su tali questioni esistenziali o solo un modo per convincere gli altri (o sé stessi) di avere davvero un cuore.

 



La sobria casa cinese di Diego Tardelli (credo di non aver mai visto una foto in cui il soggetto e la location si abbinino peggio). Nella didascalia si legge: «Non rinunciare mai alle cose che ti fanno sorridere».



 

Al contrario di Jucilei, Tardelli ha tentato in giovane età di sfondare in Europa, provando una carriera che rientrerebbe nei nostri canoni di normalità. Tra il 2006 e il 2007, dal San Paolo va prima al Betis e poi al PSV. Ma il richiamo di casa è troppo forte. Torna in Brasile, prima al Flamengo poi all’Atletico Mineiro. Nel 2011, quando ha 25 anni, per lui arriva la chiamata dell’Anzhi.

 

Lui accetta, sicuramente allettato da un lauto stipendio, ma non si trova bene, stretto tra la situazione difficile del Daghestan (Jucilei, che in quell’anno è all’Anzhi con lui, ha dichiarato che rimaneva in Daghestan solo per le partite, il resto del tempo lo passava a Mosca) e la

di casa. Tra l’altro non gioca quasi mai e non riesce mai a segnare, si trova

con il proprio allenatore: «Mi metteva in posizioni diverse; era più facile fare un autogol che segnare il primo».

 

Nella stessa intervista dichiara di voler tornare in Brasile a fine anno, di riacquisire di visibilità per arrivare a giocare il Mondiale. Ma a fine stagione il Brasile non lo rivede ancora, anzi se possibile si allontana ancora di più: Diego Tardelli accetta l’offerta dell’Al-Gharafa, ricchissimo club qatariota.

 



L’entrata di casa Tardelli a Doha.



 

In Qatar Tardelli torna a giocare e segnare, ma all’attaccante manca la freddezza del contabile e in cuor suo mantiene la speranza di poter tornare in Brasile per «vincere titoli e fare la storia» come

più tardi. La stagione successiva, quindi, decide di tornare all’Atletico Mineiro, il club che l’aveva lanciato, ed effettivamente una piccola parte di storia la scrive: fa coppia con Ronaldinho, vince una Coppa Libertadores e arriva in Nazionale. Alla Copa América di quest’estate, l’evento attraverso cui gran parte del pubblico europeo arriva a conoscerlo, è sostanzialmente l’unica punta di ruolo a disposizione di Dunga.

 

Tardelli ha finalmente ritrovato quello che dichiara di star cercando: i trofei, la storia, il successo, e per convincerlo a cambiare di nuovo vita ci vuole un’offerta irrinunciabile. Non è da escludere che la sua sia in realtà una tattica per alzarsi gradualmente lo stipendio, da una squadra all’altra. E infatti l’offerta irrinunciabile arriva. Secondo

la proposta dello Shandong Luneng è il quasi triplicamento del suo stipendio brasiliano: si passa da 26.500 euro alla settimana a 76.500.

 

Tardelli

e sente il

di giustificarsi: «È una proposta molto buona per cambiare la mia vita finanziaria, cambiare la vita della mia famiglia. Scommetto che tutti i giocatori vorrebbero stare al mio posto in questo momento. […] Devo pensare un po’ a me e al mio futuro. Farò trent’anni tra poco e mi sembra una cosa molto normale». Sembra parlare a sé stesso, per convincersi, più che all’intervistatore.

 

Ma una volta arrivato in Cina i vecchi fantasmi tornano a ripresentarsi. Finita la prima stagione (non esaltante per lui) torna in Brasile a rincontrare vecchi amici e

ai giornalisti del suo malessere orientale: «Abbiamo avuto problemi durante l’anno, non parliamo molto, eccetto durante le partite. Ma poi finiscono e ognuno sta per conto suo». Tardelli sembra quasi deluso della scelta fatta, come se fosse convinto che rimanendo in patria sarebbe potuto diventare davvero un giocatore di caratura mondiale: «Ero abituato a un calcio diverso in Brasile, una qualità più alta. Pensavo fosse una cosa e invece era un’altra».

 



Una delle ultime, malinconiche, foto di Diego Tardelli sul proprio profilo Instagram. Con una citazione, inconsciamente indicativa: «Andiamo a vivere i nostri sogni, abbiamo così poco tempo».



 

Il dubbio continuerà a corrodere il cuore di Diego Tardelli, per quanto possa riempirsi il suo conto in banca.

 



 

«… Non hanno altro amore, né altra cagione che le tenga in campo, che un poco di stipendio, il quale non è sufficiente a fare che è voglino morire per te».



 

I mercenari pragmatici sono quei calciatori che avvertono la mortalità della propria carriera fin da giovani. Degli innocui Walter White per i quali il tempo di seguire la strada difficile e rischiosa per raggiungere traguardi ambiziosi è finita prima di iniziare: gli rimangono solo dieci anni scarsi di carriera per raccogliere quanto più denaro possibile per il proprio mantenimento e quello della propria famiglia. Su questo altare vengono sacrificati tutti quei valori che per il calcio sono sacri, come l’amore per la maglia, per il proprio paese e per il successo.

 

Uno dei principali rappresentanti contemporanei di questa categoria è Jucilei da Silva, o più semplicemente Jucilei. Mediano brasiliano dalle buone qualità tecniche, Jucilei inizia la sua carriera al Malucelli, un club minore dello Stato del Paraná, e poi al Corinthians, dove arriva con un curriculum composto quasi unicamente da

gol (sulla sua pagina Wikipedia in portoghese c’è scritto che è considerato «uno dei gol più belli della storia del calcio, al punto che lo stesso Pelé rimase impressionato»).

 



Jucilei con la maglia dell’Al-Jazira.



 

Al Corinthians fa due ottime stagioni, guadagnandosi anche una convocazione in Nazionale, e le sue prestazioni attirano le richieste di molti club europei importanti: dalla Juve alla Fiorentina, dal Siviglia al PSG. Ma nel febbraio del 2011, quando non ha nemmeno 23 anni, lui accetta l’offerta dell’Anzhi Makhachkala, il club russo che nello stesso anno offrì a Eto’o un salario di oltre 20 milioni di euro annui, che lo acquista per una cifra intorno ai 10 milioni di euro. Da quel giorno Jucilei non è più rientrato nel cosiddetto Calcio che Conta, trasferendosi nel 2014 all’Al-Jazira, negli Emirati Arabi Uniti, e l’anno successivo allo Shandong Luneng, in Cina.

 

La bellezza di un personaggio come Jucilei sta nell’onestà brutale con cui spiega le sue scelte, una serena accettazione del compromesso che manca del tutto alla stragrande maggioranza di noi, che con le dovute proporzioni abbiamo probabilmente fatto lo stesso (o che comunque nella sua stessa situazione avremmo fatto lo stesso).

 

Sul suo passaggio all’Anzhi, che qualcuno potrebbe definire prematuro,

: «Penso di aver fatto la scelta gi

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