
Il Prudential Center di Newark gremito è stato lo spot più significativo e indicativo dell’importanza dell’evento UFC numero 316. Dopo un anno esatto la promotion è tornata a Newark, lo scorso anno si erano affrontati due leggende dei pesi leggeri, Islam Makhachev e Dustin Poirier, in un match molto eccitante vinto dal primo, a garantire spettacolo stavolta sono stati due pesi gallo come Merab Dvalishvili e Sean O’Malley.
Dvalishvili aveva vinto il titolo proprio contro O’Malley a UFC 306, difendendolo contro Umar Nurmagomedov e accettando poi il rematch proprio contro “Suga” Sean. Ad accompagnare la portata principale c’è stato un co-main event per il titolo dei pesi gallo nella divisione femminile: Kayla Harrison ha sfidato (da favorita per i bookmaker) la campionessa in carica Julianna Peña, e si sapeva già prima dell’incontro che sarebbe potuto essere la leva per convincere la più grande fighter di sempre, Amanda Nunes, a tornare nella gabbia.
La conferma più importante della serata è arrivata senza dubbio dal campione dei pesi gallo Merab Dvalishvili. Al suo quarto match in due anni “The Machine” (perché sembrerebbe poter andare avanti per ore) ha dato sfoggio della propria classe e del proprio livello migliorando addirittura la prestazione del precedente incontro con Sean O’Malley.
O’Malley non combatteva proprio da quella sconfitta contro Merab, la prima nella sua carriera così netta e decisa (aveva già perso con Marlon Vera a seguito di un infortunio, una sconfitta che aveva poi vendicato in un secondo scontro). Per chi credeva nelle chance di O’Malley è stato un brutto risveglio: Dvalishvili torna in gabbia ogni volta con una fame diversa, sempre concreta, e con ancora più voglia di dimostrare di essere migliore rispetto alla volta precedente. E, cosa più importante, con una strategia sempre impeccabile.
Il primo round è partito subito a ritmo frenetico: non tantissimi colpi, ma parecchie finte, micromovimenti per indurre l’avversario in errore, in&out costanti per prendere le distanze. Insomma, grande impatto dal punto di vista delle energie nervose e della tensione. O’Malley è il peso gallo più alto e grande a livello di dimensioni: 180 cm, con allungo (183 cm) davvero enorme se paragonato ai 168 cm d’altezza per 173 cm di allungo del campione. La sfida stilistica è resa interessante proprio dall’incastro tra i due: Dvalishvili è un wrestler tecnico molto ben piazzato e dal cardio virtualmente infinito, O’Malley è uno striker tecnico e rapido sulle gambe, capace di colpire rapidamente da qualsiasi angolazione, ma evidentemente debole se paragonato al georgiano nel comparto lottatorio.
Il primo squillo di tromba si è avuto dopo 3 minuti di studio: Merab ha accelerato, è arrivato a costringere O’Malley spalle a parete e lo ha sorpreso con un outside trip, pinzando bene le ginocchia, sbilanciandolo, e costringendolo a finire schiena a terra, in posizione di guardia. Da qui, quello che è un dislivello fisico importante in piedi, si è praticamente annullato, favorendo il lavoro in ground and pound di un metodico e asfissiante Dvalishvili.
Nel secondo round, O’Malley è entrato con qualche certezza in più riguardo misure e distanze. Il suo primo lavoro per entrare nella guardia di Dvalishvili ha subito dato i suoi frutti e ad ogni scontro con combinazioni, ha avuto la meglio mettendo sempre il colpo finale, spezzando le iniziative di Dvalishvili ed imponendo, almeno inizialmente, le proprie distanze. Dvalishvili ha provato a rispondere lavorando all’interno della guardia di O’Malley, raggiungendolo sempre più frequentemente ed evidenziando, ancora una volta, una condizione atletica mostruosa. In questa fase, comunque, O’Malley è sembrato abbastanza fresco e il suo footwork multidirezionale gli ha concesso di rimandare la sentenza, offrendo dei momenti interessanti. Dvalishvili però non ha mai tolto il piede dall’acceleratore e nel fare un match costretto quasi totalmente sul piede posteriore, le riserve di ossigeno di O’Malley si sono presto esaurite.
Dopo essere andato a segno con un overhand sinistro, O’Malley si è per un attimo convinto di avere il momentum dal suo lato ed è incappato in un uno-due secco che lo ha messo spalle a parete, vedendo immediatamente Dvalishvili balzargli addosso per chiudere le distanze. Poco dopo, in un altro momento topico, anziché indietreggiare su un diretto di O’Malley, Dvalishvili l’ha incrociato con un overhand, accorciando ancora. Il georgiano non ha mai avuto paura dei colpi dello statunitense e ha scelto sempre i giusti momenti per punirlo.
La classe di O’Malley, in un match del genere, è risultata effimera prima e si è sgretolata poi davanti alla concretezza spietata mostrata dall'avversario. La sequenza che ha chiuso il secondo round, con Dvalishvili votato totalmente all’attacco con colpi dritti che risultavano lunghi, ma che si trasformavano in colpi in girata subito dopo, senza tregua e senza sosta, ha certificato il lato verso cui l’inerzia si era spostata, nonostante i numeri dei colpi e dei takedown bloccati facessero pensare a un riequilibrio.
Il terzo round è stato quello della verità. Dvalishvili è partito verticalmente per ottenere un atterramento immediato, ma O’Malley ha bloccato e risposto con quello che sembrava un ottimo gancio. Dvalishvili, però, non ha vacillato. Poco dopo, il momento esteticamente più bello dell’incontro, che non è un colpo spettacolare, ma un grandissimo takedown da parte di Dvalishvili. Il georgiano ha insistito su un double-leg portato in maniera certosina, si è caricato O’Malley sulla spalla e lo ha schiantato al suolo. Nella discesa, O’Malley è riuscito a contenere lo schianto col suo piede sinistro ed è riuscito ad impostare guardia.
O’Malley, dopo aver subito qualche colpo in ground and pound ha tentato di mettere un gancio butterfly, ma Dvalishvili si è esteso, ha portato il peso a terra col bacino ed è tornato ad avanzare e colpire. O’Malley non ha più trovato opzioni e quando Dvalishvili ha forzato il crossface, è stato costretto ad aprire la guardia e a concedere l’avanzamento. O’Malley con le ultime energie si è portato in ginocchio a parete e si è rialzato, ma l’illusione è durata poco. Attraverso sbilanciamento e outside trip, Dvalishvili l’ha riportato a terra, sfiancandolo totalmente prima di sottometterlo con una north-south choke.
Dvalishvili è ormai il re incontrastato della divisione. Nell’intervista immediatamente successiva all'incontro ha sciorinato ringraziamenti e messaggi motivazionali come il più classico dei campioni, ma soprattutto si è complimentato con Cory Sandhagen, probabile prossimo sfidante al titolo, affermando che è giustamente il prossimo in linea.
A KAYLA HARRISON RIESCE TUTTO FACILE
Da quando Kayla Harrison è arrivata in UFC (dalla promotion competitor PFL) la sua candidatura a diventare campionessa è diventata sempre più forte. Colpa forse dell’abbandono di Amanda Nunes, la più grande; colpa sicuramente anche di una divisione non proprio piena di talenti cristallini, in cui si è ritrovata ad essere campionessa anche Julianna Peña; merito però anche delle sue due medaglie d’oro ai Giochi Olimpici nel judo.
Juliana Peña ha avuto il merito, in passato, di interrompere una striscia lunghissima di vittorie di Nunes, salvo poi cedere il passo (e anche il titolo) nel rematch. A seguito dell’immediato ritiro di Nunes, Peña si era giocata il titolo vacante contro la non irresistibile Raquel Pennington, vincendo per decisione non unanime un match facilmente dimenticabile. Nel frattempo Harrison aveva dimostrato di poter competere per il titolo, superando Holly Holm e Ketlen Vieira e chiedendo a gran voce la chance titolata.
Dopo un breve momento di indecisione, Harrison ha aperto il match affondando fisicamente Peña e portandola subito a terra da parete, passando rapidamente ad un controllo tenace. Il disagio disegnato sul volto della ex campionessa fa effettivamente rendere conto della pressione e dell’asfissia alla quale Harrison l’ha sottoposta.
Harrison si fa forte di una fisicità eccezionale e di un’ottima tecnica lottatoria per avere la meglio sulle sue avversarie. Peña è da subito riuscita ad ottenere la full guard, la posizione probabilmente dalla quale è più pericolosa per via dei tentativi di sottomissione, ma la pressione della Harrison lascia pochissimo spazio e le scelte, in un momento in cui è difficile pensare, devono essere ponderate con attenzione.
Peña ha provato a staccare il braccio di Harrison che le schiacciava il naso e nel liberarsi ha iniziato a colpire con pugni a martello da sotto la Harrison, che però è rientrata con un pugno secco nella guardia avversaria. Poco dopo, nel tentativo di colpire ancora Harrison con degli upkick, Peña non si è curata di vedere se la sua avversaria fosse con gli appoggi a terra e ha costretto l’arbitro Vitor “Shaolin” Ribeiro ad intervenire per detrarle un punto. L’arbitro ha poi fatto ripartire le fighter dallo stand-up.
Il secondo round è stato quello decisivo. Harrison ha continuato a pressare, mentre Peña ha accettato il ruolo di counterstriker, sebbene la fisicità dell’ex campionessa PFL fosse davvero troppo superiore e, con la detrazione del punto, ci si aspettava che a pressare fosse Peña. Harrison ha preso possesso del centro, costretto prima la sua avversaria a parete e dopo averla portata a terra con un inside trip, l’ha costretta ancora a subire la propria fisicità. Nelle battute finali, Harrison era arrivata ad applicare una sorta di Von Flue choke; Peña ha difeso, ma in un istante, dal controllo laterale, Harrison ha preso una kimura letale che in pochissimi secondi ha costretto alla resa l’ormai ex campionessa.
Harrison è diventata così la seconda atleta a vantare l’oro olimpico e a laurearsi campione UFC, dopo Henry Cejudo. Nell’intervista post incontro ha ringraziato tutti e dedicato la vittoria alle madri (specialmente, ci ha tenuto, alle madri single), prima di esprimere un pensiero diretto su quanto sia brutale il taglio del peso che mette in pratica per rientrare nelle 135 libbre. Poco dopo, mentre una telecamera inquadrava Amanda Nunes Harrison l’ha chiamata in causa, sfidandola apertamente anche se in modo rispettoso. Nunes pare aver accettato e adesso sembra pronta a tornare nell’ottagono.
È sembrato di rivedere il momento in cui Nunes chiamava in scena Ronda Rousey per prendersi, insieme alle certezze di essere la migliore, un po’ della sua energia. Stavolta Nunes si trova dall’altro lato della barricata: è lei la leggenda e Harrison veste il ruolo che era stato suo anni fa. Il match da fare adesso è proprio questo e le domande sono tante: sarà ancora in grado Nunes, a 37 anni e dopo più di due anni fuori dall’ottagono, di tenere testa e magari superare quella che sembra essere la nuova versione della dominatrice che lei era anni addietro?
Solo l’ottagono potrà darci la risposta. A quanto pare, per fortuna, tutti i pezzi del puzzle sono al loro posto.