
Forse avrete visto l’immagine di Luis Enrique appollaiato in tribuna durante il primo tempo di PSG – Lens, lo scorso 14 settembre. Sembrava un esperimento, e invece il tecnico asturiano lo ha ripetuto nuovamente contro l’Atalanta in Champions League, e dopo quella partita ha dichiarato che potrebbe diventare una routine.
«Era da tempo che cercavo un modo per migliorare la mia visione del gioco», ha detto Luis Enrique «E così ho pensato di fare come gli allenatori di rugby che stanno in tribuna. Da lassù si ha una prospettiva del tutto diversa rispetto alla panchina, si può controllare l'insieme del gioco, puoi prendere molte informazioni dirette. Si capisce cosa funziona meglio e cosa meno. Vedi chi gioca bene e chi no. E quindi puoi scendere in spogliatoio alla pausa per prendere le decisioni migliori. È un'opzione che userò in futuro».
Il rapporto tra Luis Enrique e la visuale bird-eye non è una novità. Già da qualche anno, periodicamente, spuntano video o foto in cui lo stesso è impegnato a osservare gli allenamenti arrampicato su una gru o un’impalcatura. Il controllo dello spazio dall’alto, per Luis Enrique, diventa una ragione talmente profonda da non permettere allo stesso la delega ad altri collaboratori o alla tecnologia a disposizione.
Del resto, ormai ovunque e a ogni livello le squadre si avvalgono di analisti e telecamere dediti a vedere il gioco da un'altra prospettiva rispetto a quella tradizionale, cioè il bordo-campo. Gli stessi spettatori, allo stadio o dalla televisione, sono abituati a pensare, vivere, immaginare le partite prevalentemente dall’alto. Si potrebbe dire che, per assurdo, il concetto stesso di calcio è decisamente più condiviso nel mondo dal suo punto di vista aereo che non da quello più pratico, concreto, reale (?), cioè il livello “orizzontale” su cui viene giocato.
A qualcuno di noi sarà capitato di avere la possibilità di guardare dei video di qualche nostra partita registrati dall’alto. È un'esperienza straniante, forse anche per gli stessi calciatori professionisti che dovrebbero essere abituati, come guardare il proprio viso, il proprio corpo, da un’immagine non specchiata come la videocamera frontale dello smartphone o lo specchio del bagno di casa. Sai di essere tu, ma allo stesso tempo non ti ci riconosci, ti sembri strano, magari pieno di difetti. Rivedere una partita dall’alto può essere grottesco, quindi, ma anche rivelatorio. Dall'alto infatti si possono notare cose diverse, che per la collocazione spaziale, o per lo sviluppo degli eventi "a terra", con tutta la componente emotiva e adrenalinica del momento, non si erano notate prima.
Dall'alto si ha la visione di insieme e la si tiene sott’occhio più facilmente. Si ha la possibilità, insomma, di studiare l’entità squadra/squadre da una dimensione anche più unitaria. Il mezzo - in questo caso l'inquadratura, il punto di vista - non è però mai neutrale - non è mai solo una questione tecnica. Dall’alto si possono notare più facilmente delle anomalie rispetto alle intenzioni di squadra o alla struttura di riferimento, ma il significato, la funzionalità e le eventuali “correzioni” da attribuire a tali deviazioni possono cambiare radicalmente a seconda di un’altra prospettiva ancora, cioè del modo in cui vede il gioco chi quelle decisioni le prende.
Scaloni, diametralmente opuesto a Luis Enrique: “Tenemos quien nos mira de arriba. Pero engaña bastante, porque el futbolista ve otra perspectiva, y de arriba uno ve todo tan fácil, que cuando llegás al futbolista, te dice: ‘No es como vos decís’. Hay que matizar, pero ayuda”. https://t.co/UY5W1K685V pic.twitter.com/C1msdrfUBH
— Roberto Parrottino (@rparrottino) September 16, 2025
È interessante da questo punto di vista che un altro grande allenatore come Lionel Scaloni, CT dell’Argentina, abbia un'opinione profondamente diversa da quella di Luis Enrique. «Abbiamo persone che ci guardano dall'alto in basso. Ma è abbastanza fuorviante, perché il calciatore vede le cose da una prospettiva diversa, e dall'alto tutto sembra così semplice che quando arrivi al calciatore, lui ti dice: 'Non è quello che dici'», ha detto Scaloni «Bisogna precisare, però aiuta».
Forse è un caso, ma è significativo che la Nazionale di Scaloni giochi una delle forme di calcio associativo contemporaneo più originali ed efficaci, basata più sulle emergenze spontanee e sulla distribuzione irregolare e meno sulla stabilità strutturale. Certo, Scaloni non nega (infatti se ne avvale) l’utilità di un’analisi aerea, ma ha la premura di mettere subito in prospettiva il discorso, ribadendo come il giocatore possa avere un’altra verità. Quest’altra verità non è necessariamente sbagliata, nociva, inutile: a volte è semplicemente un’altra cosa.
Ogni giocatore ha una relazione con l’ambiente di gioco che è unica e bivalente: dipende, cioè, dalla sensibilità e le qualità tecniche dello stesso. Queste qualità non nascono, non emergono separatamente dall’ambiente di gioco per poi venire messe alla prova al suo interno, bensì esistono solo attraverso esso. Si tratta dunque di un rapporto reciproco in cui l’ambiente fornisce al giocatore delle informazioni, delle possibilità di azione, che James J. Gibson ha chiamato affordances (al riguardo su Ultimo Uomo potete trovare alcuni articoli pubblicati negli scorsi anni). Il modo in cui il giocatore può elaborare questi inviti ad agire dipende però dalla sua relazione con l’ambiente stesso, di cui fanno parte anche le sue esperienze pregresse al suo interno, la relazione di gioco con i compagni, gli avversari, e così via.
Non ci può sorprendere, insomma che il rapporto con lo spazio di gioco, e dunque con le diverse prospettive da cui osservarlo, sia mutevole, agitato: a volte caotico e a volte controllato. Luis Enrique, l’allenatore che voleva “controllare tutto” dopo la cessione di Mbappé, che guardava spesso dall’alto anche gli allenamenti, adesso potrebbe decidere investire regolarmente la prima metà della partita in tribuna, per vederla coi suoi occhi, o meglio, per sentirla col suo fiuto, o meglio ancora, per studiarla con la sua razionalità secondo la prospettiva che gli è più utile per il suo tipo di calcio.
Luis Enrique ha bisogno di controllare la struttura, di sezionare le rotazioni e gli adattamenti lineari della sua squadra. Nonostante, di recente, abbia corretto il tiro sul «controllare tutto», confermando come nella versione del suo PSG che ha trionfato in Champions abbia effettivamente tolto la mano dal volante più del solito, per Luis Enrique rimane comunque necessario allontanarsi fisicamente dai propri giocatori per osservarli dall’alto. Scaloni, in contrapposizione, anche avvalendosi dello studio aereo, rimane più saldo con i piedi sull’erba, tra gli scarpini dei suoi campioni del mondo, rimarcando quanto sia importante la diversa prospettiva di chi in campo le scelte le prende in prima persona.
Dove sta la verità, quindi? Ormai avrete capito che non c'è risposta a questa domanda. Personalmente per quanto riconosca la legittimità, la razionalità logica e l’efficacia comprovata, in diversi casi, di un approccio che si basi sull'importanza della struttura geometrica delle squadre e dell'occupazione dello spazio, credo che il senso del lavoro dell’allenatore sia principalmente quello di aiutare una squadra a fare in modo che le percezioni in campo siano condivise nella loro diversità: l’intesa intangibile prima della struttura, la superiorità socio-affettiva prima di quella posizionale. Questo non per ragioni astratte, che comunque non sono necessariamente intangibili, ma perché le esperienze empiriche e gli approfondimenti accademici in cui mi sono imbattuto mi hanno portato alla convinzione che le squadre abbiano più possibilità di raggiungere il proprio potenziale se riescono a essere adattabili all’imprevisto e a creare le condizioni per sfruttare quei momenti di apparente magia in cui l’intesa fra i talenti raggiunge il suo massimo.
Francesco Farioli ha dichiarato di recente: «Lavoro sui contrasti, cerco di riempire i vuoti. La migliore identità è non averne una immutabile» raccontando che nelle sue ultime esperienze ha cercato di fornire a ogni squadra in cui è stato una prospettiva complementare all’identità già presente. La sua idea, quindi, è di completare, non stravolgere. Al di là delle idee di Farioli, trovo molto rappresentativa questa immagine del ruolo dell’allenatore, e in questo senso sento molto vicina anche la necessità di Scaloni nel precisare che, sì, certo che abbiamo bisogno di guardarci da angoli diversi, perché i paraocchi non vanno mai bene, però dobbiamo sempre ricordarci di dare valore alla prospettiva del giocatore, al suo “sentire”. A valorizzare anche il “contrasto” tra i diversi punti di vista.
Nel medesimo spazio tra due o tre avversari, anche se strettissimo, Neymar può leggerci la possibilità di uno o più dribbling, Messi di un filtrante. L’oggettività nel calcio è meno concreta di quanto si creda: è sempre una questione di prospettiva, e questo concerne anche lo spazio di gioco nella sua interezza. Una partita si gioca in uno spazio predeterminato, ma non credo sia interessante utile concepire questo spazio come un contenitore vuoto in cui le squadre vengono calate dall’alto affinché riproducano dei gesti come delle marionette. Lo spazio di gioco, che potremmo anche azzardarci a chiamare spaziotempo sperando di non offendere chi si occupa di fisica, non è solo denso di possibilità, ma è anche interpretabile, non è scritto su pietra. È delimitato non solo dalle porte e dalle linee, ma anche, e soprattutto, dalle regole del gioco, che definiscono cioè le “leggi naturali” del calcio, quello che si può e non si può fare al suo interno (e anche su alcune di quelle però, come sappiamo, è molto difficile trovare un’oggettività fissa). Preso atto di queste imposizioni più o meno rigide, per quanto riguarda tutto il resto c’è sempre margine di interpretazione.
Mi permetto di cambiare tema per un paio di paragrafi, allontanandomi dal calcio, solo per portarvi un esempio diverso di relazione con l’ambiente di gioco e di significato funzionale dell’interpretazione degli spazi in cui lo stesso avviene.
Il videogioco Dark Souls, uscito nel 2011, è considerato uno spartiacque nella storia del mondo videoludico, non solo per le innovative dinamiche di combattimento e una lore tanto misteriosa quanto affascinante, ma anche per il suo rapporto con lo spazio di gioco. Il level design – cioè la struttura dell’ambiente in cui il giocatore si muove e interagisce – di Dark Souls è ritenuto da molti piuttosto difficile, perché si tratta di un ambiente in cui la progressione non è lineare: il giocatore può esplorare più o meno liberamente i vari ambienti a sua discrezione, correndo il rischio di trovarsi in aree in cui non è sufficientemente abile o attrezzato per sopravvivere o proseguire. Inoltre, [SPOILER ALERT] per la prima parte del gioco [SPOILER FINITO] non è possibile usufruire del teletrasporto tra i vari "checkpoint”, i falò.
Così, il giocatore è costretto a prendere confidenza con gli spazi di gioco, ripercorrendo le stesse strade decine di volte ed essendo incentivato a scoprirne ogni segreto, ogni possibile scorciatoia, a sbloccare nuovi passaggi più o meno nascosti, e imbattendosi strada facendo in delle sorprese sbalorditive legate proprio all’esplorazione dell’ambiente stesso. Insomma, nell’apparente meccanicità di un gioco che ti costringe a passare ancora e ancora e ancora per gli stessi tragitti, si cela in realtà la possibilità di migliorare le proprie abilità in modo diversificato, che sia studiando più a fondo l’ambiente o semplicemente cercando un’altra strada per proseguire, incontrando nuovi NPC (non-playable characters, cioè personaggi non giocanti) o trovando nuovi oggetti e/o equipaggiamenti.
Questo tipo di relazione con l’ambientazione di gioco, sebbene appartenente a un contesto molto diverso – il tipo di connessione motoria con gli input ricevuti è limitata alle sole mani, per dire la più banale – ci può aiutare a comprendere meglio non solo come l’essere umano sia abituato naturalmente a percepire gli spazi in modo funzionale, ma anche come nei giochi e negli sport l’interpretazione degli spazi ha necessariamente un ruolo strategico, e quindi non può essere ritenuto un aspetto neutrale.
Come Luis Enrique e Scaloni ci dimostrano, ci possono essere diverse strade per arrivare al successo, a volte controllando e codificando di più, a volte meno. Riprendendo le parole di Farioli, magari una delle più grandi abilità di un allenatore è proprio saper fluttuare in queste zone grigie, cercando sempre di affrontare i problemi da prospettive differenti per provare ad aiutare le proprie squadre a creare percezioni più ampie e ad avere i giusti strumenti per sfruttarle. Allenare, in fin dei conti, è spesso una questione di prospettiva, e di questo sarebbe bene tenerne conto anche quando viviamo il gioco da fuori.