Mega guida alla Western Conference 2016/17
C’è vita oltre Golden State?
10) DALLAS MAVERICKS
Ranking overall redazione UU: 15.7
Nicolò Ciuppani
Se non ti chiami Tim Duncan, piuttosto verosimilmente prima o poi arriva un anno nella tua carriera in cui Father Time sopraggiunge inesorabilmente a chiedere numerosi interessi arretrati. Un paio di esempi:
Steve Nash, 37 anni: 13 punti, 11 assist, 53% dal campo, 39% da 3, 62 partite giocate
Steve Nash, 39 anni: 7 punti, 3 assist, 38% dal campo, 33% da 3, 15 partite giocate
Kevin Garnett, 36 anni: 15 punti, 8 rimbalzi, 3 assist, 68 partite giocate
Kevin Garnett, 37 anni: 6 punti, 7 rimbalzi, 1 assist, 54 partite giocate
È quindi naturale essere un filo preoccupati per le sorti del profeta di Wurzburg nell’anno in cui le primavere diventeranno 38. Dirk Nowitzki finora ha mantenuto livelli di rendimento elevatissimi, e la sua parabola è stata quanto di più costante ci si possa aspettare, ma i Mavs non possono permettersi di farsi trovare impreparati a una discesa improvvisa.
Dall’inizio della sua carriera in NBA, la parabola della carriera di Dirk non ha mai avuto una discesa così netta; dopo il picco tra i 25 e i 30 anni, il rendimento di Dirk è oscillato attorno ad un valore costante, più che precipitare a piombo. Nel grafico sono riportati i valori di Win Shares, Value Over Replacement Player e Player Efficiency Rating.
In ogni caso, sia per l’età che per il rischio infortuni, il minutaggio di Dirk dovrà essere sensibilmente ridotto quest’anno. Le rotazioni dei Mavs e il nuovo assetto del roster potrebbero tuttavia agevolare la transizione: Dallas l’anno scorso aveva una difesa mediocre, classificandosi 16° sia per rating che per percentuali concesse agli avversari, ma la base era quantomeno solida. Williams-Matthews-Nowitzki avevano registrato un Net Rating positivo di oltre 6 punti, che li posizionava come quarto terzetto assoluto in NBA, e le aggiunte di Bogut e Barnes sembrano i naturali complementi per comporre un quintetto base competente. Il ruolo di sesto uomo sembra essere cucito addosso a Justin Anderson, che ha mostrato una buona combinazione di forza fisica e tiro da fuori, aggiunte a un’attitudine in difesa con punte di eccellenza. Sarà suo il compito di sostituire Matthews e Barnes dalla panchina, oppure aggiungersi a loro in quintetti più piccoli e mobili. Le presenze di Devin Harris e Salah Mejri possono essere in grado di fortificare ulteriormente l’assetto difensivo della squadra, e J.J. Barea e Seth Curry possono avere il ruolo di party crasher per cambiare inerzia e attacco.
Lo sciamano Rick Carlisle ha numerose possibilità di variazione, cosa che l’anno scorso lo penalizzò soprattutto contro le big, finendo con un record di 2-22 contro le altre squadre da playoff ad Ovest. Se Dirk dovesse tenere botta, Wes continuare a migliorare dopo l’infortunio al tendine, Bogut e gli altri mantenersi il più sani possibili questa potrebbe essere una delle migliori squadre che il duo Dirk-Carlisle abbiano mai avuto negli ultimi cinque anni (e anche nell’anno del titolo, la loro difesa era solo la 7°), ma il rischio infortuni e il minutaggio sono fattori troppo grossi per assicurare una scommessa certa su Dallas.
9) MINNESOTA TIMBERWOLVES
Ranking overall redazione UU: 12.7
Dario Vismara
Trovo veramente triste che il Power Ranking redazionale di UU abbia lasciato i super-mega-ultra-lanciatissimi Minnesota Timberwolves fuori dai playoff, facendoci entrare invece i soliti, tristi Memphis Grizzlies. Però capisco il ragionamento: nonostante l’enorme hype generato dalla fine della scorsa regular season (record di 12-16 dopo l’All-Star Game con vittorie in trasferta contro Warriors, Thunder e Blazers); nonostante la scelta al Draft di un playmaker elettrizzante come Kris Dunn; nonostante l’arrivo di Sua Santità della Difesa Tom Thibodeau (ma soprattutto l’addio a Sam Mitchell) e nonostante l’arrivo di veterani come Brandon Rush, Jordan Hill e Cole Aldrich per rinforzare la panchina, avere dubbi sui T’Wolves è comunque lecito.
Una squadra che fa partire tre 21enni in quintetto deve per forza pagare un deficit di esperienza e continuità, indipendentemente dal fatto che quei tre siano gli ultimi due rookie dell’anno e il miglior schiacciatore che la NBA abbia visto da diverso tempo a questa parte. Attorno a Karl-Anthony Towns, Andrew Wiggins e Zach LaVine gira ovviamente l’idea stessa dei T’Wolves: tutti siamo convinti che a Minneapolis si stia creando qualcosa di speciale, ma è prudente aspettare-e-vedere prima di dichiararli già la prossima Grande Dinastia. Il saggio Phil Jackson sostiene da tempo immemore che l’acronimo NBA non stia per National Basketball Association, ma No Boys Allowed.
Poi però c’è KAT che fa questa cosa qui a Marc Frickin’ Gasol e aw man, goddamn, all hell broke loose.
Il dirty little secret di questa squadra è che già l’anno passato, pur avendo in panchina Sam Mitchell, Minnesota ha chiuso con il 12° miglior attacco della NBA, che è un pensiero piuttosto spaventoso se pensiamo che, con un roster migliorato e un anno in più di esperienza per tutti, la top-10 sia il naturale step successivo. Il motivo per cui hanno vinto solo 29 partite è da ricercarsi piuttosto nell’avere la quart’ultima difesa — ed è qui che le lampadine che compongono il nome di TOM THIBODEAU dovrebbero iniziare ad illuminarsi come con Will Byers in Stanger Things.
Una difesa anche solo attorno alla mediocrità è un risultato alla portata di questa squadra perché, nonostante l’inesperienza di cui abbiamo già accennato, nessuno tra Rubio, LaVine, Wiggins, Towns e Dieng — i membri del quintetto base — è un difensore irrecuperabile. Nella scorsa stagione questo quintetto è stato il più utilizzato della squadra (648 in 46 partite, il secondo con le salme di Garnett e Prince si ferma a 276) e, pur concedendo degli inaccettabili 109.6 punti su 100 possessi in difesa, in attacco ne segnava 113.5 sfiorando il 61% di percentuale reale — ed è comunque quinto per Net Rating tra quelli che hanno giocato 500+ minuti.
Magari finiranno anche fuori dai playoff, non è impossibile pensarlo. Ma che siano un assoluto must-watch di questa stagione direi che siamo d’accordo veramente tutti.
8) MEMPHIS GRIZZLIES
Ranking overall redazione UU: 11.3
Neri
Dopo esser stati devastati dagli infortuni, portando a 28 (!) il numero dei giocatori messi a referto nell’arco della stagione – ovviamente record NBA – riuscendo comunque a chiuderla con record positivo (42-40) strappando un posto ai playoff, i Grizzlies si presentano ai ranghi di partenza con una squadra che non è cambiata negli interpreti principali, ma che rischia di essere rivoluzionata sotto l’aspetto tattico.
Salutato Dave Joerger, che ha preferito una situazione più a lungo periodo rispetto a quanto gli si prospettava a Memphis, alla guida tecnica è subentrato l’emergente David Fizdale, reduce da una carriera di tutto rispetto come assistente tra Heat, Hawks e Warriors. Nonostante sia al suo primo impiego da head coach, Coach Fiz si porta dietro l’apprezzamento degli addetti ai lavori e quello dei suoi stessi giocatori fin dalle prime uscite del training camp.
Questa fiducia sarà necessaria nel momento in cui Fiz inizierà ad allontanarsi sempre più dallo stile Grit&Grind che in questi anni ha definito i Grizzlies come una delle migliori squadre a Ovest, processo dovuto a causa di una squadra che sta lentamente iniziando la sua parabola discendente, come dimostra l’anagrafica di Zach Randolph (35), Tony Allen (34) ma anche Marc Gasol (31), inserito nel discorso a causa di un fisico che ora più di prima inizierà a fare le bizze.
Proprio per questo motivo le chiavi della squadra saranno consegnate definitivamente a Mike Conley, che in estate ha firmato un contratto da 153 milioni per i prossimi 5 anni – cifre di un certo spessore che possono essere criticate se si pensa al valore assoluto del giocatore ma non se si pensa all’importanza del suo ruolo in questi Grizzlies. Conley sarà il giocatore a cui Fizdale si affiderà per cercare di cambiare ritmo all’attacco, aiutato anche dall’acquisizione di Chandler Parsons (altra firma che ha causato mugugni, 94/4) con il playmaking e il QI nel ruolo di ala che si adatta perfettamente alle qualità di Conley e Gasol, oltre a garantire versatilità anche da 4.
Ma la novità più significativa potrebbe arrivare dalla panchina, dove la retrocessione di Zach Randolph a sesto uomo – con l’automatica promozione di JaMychal Green – gli permetterà di scardinare le second-unit dal post-basso, un ruolo che sembra molto più adatto alle qualità odierne di Z-Bo, visto faticare un po’ troppo dietro ai ritmi delle ultime stagioni. L’unico problema in questo cambio di stile lo troviamo quando andiamo a vedere la scarsa lunghezza della rotazione degli esterni – giocare piccolo per larghi tratti vorrebbe dire affidarsi molto a giocatori che ancora devono dimostrare di meritare minutaggio come Jordan Adams, James Ennis, Andrew Harrison e – wait for it – DJ Stephens, oppure antitesi dello spacing come Tony Allen, quando nei ruoli più interni c’è maggior scelta e anche qualità.
PUT A CAMERA ON DJ!
Difensivamente invece gli accorgimenti che dovrà apportare Fiz saranno minimi, dato che il roster ha ancora un alto tasso di bruiser a cui comunque dovrà dare qualche giro di chiave inglese per non continuare il declino avuto nella scorsa stagione a causa dei continui innesti, con il rating difensivo schizzato a 107.8 dopo quella 2014-15 chiuso a 102.2.
La più grossa incognita rimane lo stato fisico della squadra: la storia clinica dei giocatori di riferimento non è assolutamente delle più rosee e questo potrebbe inserire un ulteriore “ma”, così come successo negli scorsi anni. Se gli infortuni daranno tregua a Memphis, senza il bisogno di andare a installare una porta girevole all’ingresso degli spogliatoio, rischiano di essere una gatta bruttissima da pelare, sia per la corsa ai playoff che nei playoff stessi. Una cosa è certa, qualcosa in Tennessee sta cambiando: Il Grit&Grind è moribondo, lunga vita al Grit&Grind.
7) HOUSTON ROCKETS
Ranking overall redazione UU: 11
Davide Bortoluzzi
La scorsa stagione i Rockets non hanno brillato per efficienza difensiva (108 punti concessi per 100 possessi, 21° nella lega) pur potendo schierare tre solidi interpreti di questo fondamentale come Howard, Ariza e Capela. E se con la partenza di Howard verso Atlanta e l’arrivo di Nene sotto le plance il bilancio poteva quasi dirsi in parità, le firme di Ryan Anderson ed Eric Gordon – due dei peggiori 40 difensori della lega per efficienza difensiva – hanno abbassato in maniera esponenziale le aspettative di vedere una Houston competitiva nella propria metà campo. Finita qui? Neanche per sogno: a chiudere il cerchio è arrivato un nuovo capo allenatore, Mike d’Antoni – notoriamente non un cultore della materia difensiva.
L’arrivo di coach d’Antoni porterà verosimilmente all’estremo i ritmi di un attacco che già nella sua versione precedente portava in dote un pace factor tra i più alti della lega (100,2 possessi a partita – sesta squadra NBA la scorsa stagione). Ma uno stile di gioco dai ritmi elevati e che predilige la transizione tende a concedere un maggior numero di canestri nella medesima situazione agli avversari, e a barattare situazioni di contropiede con una solida presenza a rimbalzo difensivo.
I Rockets li trovate là in basso a destra
Per compensare questa tendenza occorre innanzitutto una certa abnegazione da parte dei singoli (auguri con James Harden), oltre allo sfruttamento di alcune peculiarità e punti di forza – pochi sul piano difensivo, come detto – che il roster dei Rockets può offrire. In primis la versatilità di Clint Capela, che ha la mobilità e la stazza per poter essere un vero fattore nella difesa sul pick and roll, oltre a un mastino naturale sul perimetro come Patrick Beverley. E gli esempi virtuosi nella lega ci sono: oltre agli irraggiungibili Warriors, infatti, anche squadre come i Celtics e gli Wizards hanno saputo combinare ritmi elevati con un’ottima efficienza difensiva.
L’alternativa sembra quella di giocare per segnare un canestro in più ogni sera, anche in barba al vecchio adagio “gli attacchi vendono i biglietti, ma le difese vincono i campionati”. Verosimilmente ci saranno sere in cui i Rockets subisseranno di canestri i propri avversari e in definitiva lotteranno per un posto nella griglia dei playoff ad ovest, ma viene difficile immaginarseli oltre il primo turno.
6) PORTLAND TRAIL BLAZERS
Ranking overall redazione UU: 9.7
Andrianopoli
Arrivare al vertice talvolta non è la fase più difficile della crescita di una squadra: il difficile è confermarsi. I Blazers ne hanno tutte le intenzioni, e per dimostrarlo hanno investito in un’estate 226 milioni di dollari per le conferme di Harkless (40/4), Crabbe (76/4), Meyers Leonard (40/4) e l’ingaggio di Evan Turner (70/4). Mosse ardite, coraggiose, che dimostrano quanto questa dirigenza credesse nel gruppo e volesse a tutti i costi confermarlo in blocco.
A prima vista, i punti di forza di questo roster sono innegabili: è una squadra profondissima, giovane, atletica, solida (otto dei primi dieci giocatori del roster hanno giocato almeno 78 partite l’anno scorso, e il nono è Lillard che ne ha giocate 75); ha uno dei migliori backcourt della lega, con Lillard e McCollum che possono spezzare in due qualsiasi partita, un reparto lunghi profondissimo e versatile, una batteria di ali e “three and D” che nessun altro può vantare.
Approfondendo un pochino l’analisi, però, non è difficile trovare qualche crepa, e un primo problema si può trovare proprio in un rischio di sovrabbondanza: ci sono cinque lunghi che aspirano a un minutaggio consistente (Plumlee, Leonard, il neo-acquisto Ezeli, Ed Davis e Vonleh), e potrebbero trovarsi a lottare non per due ma per una sola posizione, perché in realtà la strutturazione migliore di Portland sembra essere quella con Aminu da stretch 4.
Un discorso simile si può fare sugli esterni: Lillard e McCollum monopolizzeranno il backcourt, ma la migliore ala per fare coppia con Aminu è Moe Harkless, che è pure quello che è stato pagato di meno. I minuti per Crabbe e Turner quindi potrebbero non essere moltissimi, e stiamo parlando di quasi 150 milioni investiti in estate che resterebbero in panchina a lungo e malvolentieri. A proposito di Turner: il suo acquisto sembra da solo sufficiente ad abbassare di mezzo punto il voto all’offseason di Portland, visto che garantirà un contributo quasi certamente inferiore rispetto a Gerald Henderson, sotto ogni aspetto, portandosi in dote un carattere non facile e il tutto a un costo annuo praticamente triplo.
Infine c’è un problema difensivo: Lillard e McCollum sono attaccabili da chiunque, alle loro spalle non c’è nessun serio rim protector. Il lungo difensivo migliore del roster, Ed Davis, sarà anche il più sacrificato dei cinque, perché quello con il minor pedigree: in attacco i Blazers sembrano difficili da contenere, ma i loro successi passeranno da quanto riusciranno a migliorarsi in difesa, sia individualmente (McCollum e Crabbe, in particolare, hanno i mezzi fisici per poter rendere molto, molto meglio) che di squadra.
Non è tutto oro quello che luccica, insomma, ma resta comunque una squadra troppo profonda, troppo versatile, troppo “carica” atleticamente ed emotivamente per non considerarla una delle migliori della lega: il quintetto ideale Lillard-McCollum-Harkless-Aminu-Ezeli/Plumlee può tenere botta contro qualsiasi squadra, può alzare il ritmo o giocare a metà campo, garantire spaziature, andare a rimbalzo forte, difendere cambiando su chiunque, e il tutto con spalle coperte da una panchina formata da Turner, Crabbe, Vonleh, Davis e Leonard che è probabilmente la più profonda della lega.