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Tommaso Giagni
Quello che le medaglie non dicono
10 giu 2021
10 giu 2021
Cosa ci dice il modo in cui i calciatori si rapportano a medaglie e trofei?
(di)
Tommaso Giagni
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Guardiola bacia la medaglia d'argento. Ha appena stretto la mano di Aleksander Čeferin, ha ascoltato le sue parole di consolazione, ha ostentato serenità. È lo sconfitto della notte del “Do Dragão”, la guida di una squadra che sembrava più forte eppure ha perso. Il suo progetto a Manchester ha subito un altro colpo, eppure Guardiola appoggia le labbra sul premio dei secondi. A Oporto sono circa le undici di sera del 29 maggio 2021. Dopo gli ufficiali di gara, tocca a giocatori e tecnici di Chelsea e City ritirare le medaglie, e Guardiola è il primo degli sconfitti. Bacia l'argento come fosse oro, un gesto irrituale e simbolicamente forte. L'economista Branko Milanović, esperto di disuguaglianze globali, twitta la sua sorpresa piena di rispetto.


 

Solo tre giorni prima, a tremila chilometri di distanza, Ole Gunnar Solskjær era nella stessa posizione di Guardiola: l'allenatore degli sconfitti in una finale dove si arrivava da favoriti. Aveva ricevuto la medaglia intorno al collo, se l'era levata appena oltre il sorriso di Čeferin. Anche i giocatori del Manchester United, perlopiù, non se l'erano tenuta addosso. Scott McTominay l'aveva tolta in fretta, pareva offeso come se il presidente della UEFA gli avesse fatto un brutto scherzo.


 


Foto di Adam Davy / PA Wire.



 

Nel 2017 la cerimonia di premiazione nelle competizioni UEFA si è spostata dalla tribuna al campo. Non sono più calciatori e tecnici a dover salire verso le autorità dello sport, ma sono queste a scendere da loro. Aleksander Čeferin, da nuovo presidente del governo del calcio europeo,

così la scelta: «Il campo è il palcoscenico dei giocatori, ed è giusto che i loro successi vengano celebrati lì».

 

L'impressione di una recita è diffusa, in effetti, di fronte alla consegna delle medaglie. Sotto l'occhio delle telecamere, vincitori e vinti sono chiamati a interpretare il ruolo di vincitori e vinti. Significa dover rispettare un copione, mostrarsi come l'immaginario impone di rappresentare il successo e la sconfitta. E farlo proprio nel momento in cui la tesa concentrazione sta cominciando a calare, lasciando le emozioni libere di uscire.


 

Se esaminiamo le reazioni dei protagonisti che hanno messo in scena quest'ultima finale di Champions League, però, ci troviamo davanti interpretazioni parecchio diverse. Ed è evidente che non dipenda da diversità culturali, dall'eterogeneità dei retroterra. Né si direbbe che riguardi le età, o i successi e le sconfitte alle spalle.


 


Foto di Nick Potts / PA Wire.



 

Dalle immagini televisive che arrivano da Oporto, quasi tutti i giocatori del Manchester City tengono la medaglia al collo fintanto che sono sulla pedana. Un'eccezione notevole è il più giovane in campo, Phil Foden: ha lo sguardo teso, inequivocabilmente ma in silenzio dice a Čeferin che vuole la medaglia in mano e non intorno al collo. Il simbolo così sarà più lontano dal petto, quindi dal cuore. Čeferin esegue.


 

L'altra eccezione è Oleksandr Zinčenko. Si trascina in lacrime davanti al presidente della UEFA, lascia che gli metta l'argento al collo. Poi fa un passo e sfila il nastro con una mano sola, senza guardare la medaglia e lasciandola oscillare in un giro ampio, privo d'attenzione: se pure sbattesse, se pure si rovinasse, non importerebbe perché è un oggetto di nessun valore.


 

Poi ci sono i vincitori. Qui il rapporto con la medaglia diventa un altro, e non solo perché il metallo sia più prezioso. Il primo a ritirarla è l'allenatore del Chelsea, Thomas Tuchel, esonerato dal PSG esattamente cinque mesi prima: strattona la medaglia con una forza sbalordita, ancora di fronte a Čeferin col quale si sono abbracciati goffamente. Havertz, l'autore del gol decisivo, è l'unico della rosa che sulla pedana metta l'oro tra i denti nel gesto classico che ne verifica giocosamente la qualità.


 


Foto di DAVID RAMOS/POOL/AFP via Getty Images.



 

Per i vincitori c'è però, sulla pedana, un'altra fonte d'attrazione con cui confrontarsi: la coppa della Champions League – il trofeo col nome del Chelsea FC appena inciso sopra. Jorginho non tocca la medaglia che ha al collo, nemmeno la guarda, dirige gli occhi e i passi verso il simbolo più imponente della vittoria. Gli batte le mani, o forse le batte a sé stesso, poi lo bacia con discrezione. Lungo è invece il bacio di Thiago Silva, preceduto da una carezza quello di Gilmour. Si baciano punti diversi del premio, si può immaginare sia una specie di norma anticovid improvvisata.


 

Al trofeo Kanté rivolge uno sguardo intenso, e sfiorarlo poi con le mani pare un gesto dovuto – una rassicurazione a chi guarda – che se fosse stato solo non avrebbe fatto. Quando invece Kepa tocca la coppa e non avvicina le labbra, sembra farlo per pudore. Gli altri due portieri, il titolare Mendy e il decano Caballero, prima di baciarlo appoggiano la fronte al trofeo, e viene in mente il contatto tra compagni di squadra che si compattano. La personificazione è evidente anche nella reazione di Ziyech, che alla coppa sussurra una specie di preghiera, di Rüdiger, che pare ritrovare un vecchio amico, di Chilwell, che dopo il bacio la guarda come ci si assicura che un bacio sia stato gradito. Del capitano Azpilicueta, ancora, che abbraccia il premio e gli dà un bacio svelto e si giurerebbe che quello che sta per alzare al cielo sia diventato un figlio.


 

Su altri giocatori, invece, la medaglia esercita una forza che evidentemente il trofeo non riesce. Forse su un piano non superficiale c'è che appunto il trofeo (materia che prende forma dopo settimane di lavoro della GDE Bertoni di Paderno Dugnano, nell’hinterland milanese) sia fatto d'argento. A ogni modo Reece James neanche ci bada, sulla pedana di Oporto: è troppo preso a chiudere le mani intorno all'oro in un gesto di custodia, gridando in falsetto. Sia Emerson che Anjorin, appena si allontanano da Čeferin la studiano, la medaglia, come se volessero vederla da vicino dopo tante fantasticherie.


 

Forse, per chi ha l'abitudine di vivere tallonato dallo sguardo del mondo, l'espressione di gioia e dolore in pubblico non è meno autentica di quanto sarebbe in casa propria. Nell'impasto di scaramanzia ed esibizione che è la cerimonia, tra le sfumature di imbarazzo e ostentazione, forse emergono più che in altri momenti i caratteri di chi ha appena partecipato alla più prestigiosa prova stagionale. Viene da chiedersi se abbia senso, per un campione del nostro tempo, la distinzione tra pubblico e privato. Davvero abbiamo assistito a una messinscena? Dove comincia su un piano emotivo lo spazio del palcoscenico?


 

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