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Daniele Manusia
McGregor per sempre: riflessioni su un'icona moderna
24 mag 2023
24 mag 2023
Cosa ci dice il nuovo documentario sul fighter irlandese della sua ingombrante figura.
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Daniele Manusia
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IMAGO / Inpho Photography
(foto) IMAGO / Inpho Photography
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In una delle prime scene di McGregor Forever, il nuovo documentario Netflix su Conor McGregor (il secondo dopo Notorious del 2017), vediamo il fighter più famoso di sempre - il volto delle MMA nel mondo intero, colui che ha contribuito più di tutti a far compiere un salto al movimento intero da “sport estremo per pochi intenditori” a “spettacolo commercialmente appetibile se non ti impressiona il sangue” - giocare con il proprio figlio piccolo. Conor alza il piccolo Conor Jr. con il pannolino e ancora le pieghe da neonato sulle braccia fino alla sbarra per le trazioni e lo aiuta a sollevarsi. Oppure, sarebbe meglio dire, lo solleva simulando una trazione. Poi si stupisce del fatto che per qualche secondo il bambino resti appeso e, guardando dietro alla telecamera, dice una cosa tipo: Incredibile no? Si dà il caso che anche io abbia avuto un figlio piccolo, anzi una figlia, e una sbarra per le trazioni a cui - è inevitabile se avete queste due cose a portata di mano: un bambino piccolo e una sbarra - l’ho appesa. Anche mia figlia, credo come tutti i figli a una certa età, diciamo intorno a un anno, ha stretto la sbarra ed è rimasta appesa per poco. Per cui guardando quella scena ho pensato: No Conor, non è incredibile. Non tutto quello che ti succede è incredibile. Eppure il suo sorriso da persona piena di sé, la sua energia da mitomane, il suo entusiasmo per quella cosa così comune, mi arriva lo stesso. Be’, sì, è banale: mi arriva la sua sincerità. Non è questo il segreto del suo magnetismo, però. Credo che quello sia nella ricerca bisognosa di chi ha davanti, di condivisione, sia pure con una troupe che sta girando un documentario. In questo caso: il fatto che non si eccita guardando la camera, ma guardando le persone che stanno dietro di essa. Forse per questo l’ultimissima scena di McGregor Forever è una vecchia clip, forse risalente ai suoi esordi in UFC, in cui è lui con il suo smartphone a fotografare il plotone di fotografi e giornalisti che ha davanti (che possiamo solo immaginare, di cui il nostro punto di vista fa parte). È come se l’egocentrismo di un’icona come McGregor fosse una porta che può essere attraversata in entrambe le direzioni: la usa lui per entrare in contatto con noi, la usiamo anche noi per proiettarci verso di lui. E immagino che l’effetto ad avercelo davanti dal vivo sia notevolmente superiore.Perché Netflix fa un altro documentario su Conor McGregor, che non combatte da quasi due anni? Perché Netflix fa un documentario sulle due tremende sconfitte con Dustin Poirier e sull’odio con Khabib Nurmagomedov, con in mezzo, fugace, la piccola soddisfazione di battere “Cowboy” Cerrone? Voglio dire, il perché lo capisco benissimo: quando hanno girato probabilmente pensavano che McGregor, già personaggio di fama mondiale, stesse tornando al suo meglio, pensavano che avrebbe vinto con Poirier, che avrebbe trovato una qualche conclusione edificante alla sua parabola; perché, però, farlo uscire lo stesso? Per non buttare tutto quel materiale su uno dei personaggi più magnetici di questi anni? Ok, capisco. A vent’anni Conor McGregor è stato un visionario, un genio nel suo campo. Ha fatto da apripista a tutti quegli artisti marziali che vogliono vivere delle loro abilità. In un’intervista di repertorio riprodotta nel documentario, un giovane McGregor dice che all’inizio si sentiva come una scimmia che combatteva in gabbia per una banana. Ma lui è andato oltre e si è portato dietro tutto il movimento delle MMA. A trent’anni, però, sembra arrivato il momento di farsi parte. Che razza di apripista sei se poi la pista la occupi tutta te? Gli ultimi anni di Conor McGregor sono uno stillicidio di infortuni, sconfitte, cadute di stile e nessun artificio retorico avrebbe potuto riscattarli. Neanche ripetere in ognuna delle quattro puntate di McGregor Forever, almeno una o due volte a puntata, il fatto che con tutti i soldi che ha Conor McGregor avrebbe benissimo potuto scegliere di non combattere, di godersi la vita da ricco e famoso e basta. Sarebbe una domanda interessante se fatta non retoricamente: perché combatte ancora? Ma il documentario non ha una risposta e la domanda resta una specie di ricatto che pende sulla testa degli spettatori.

D’accordo, McGregor ha fatto e detto cose disdicevoli (la maggior parte delle quali non entrano nel racconto della serie: tipo quando ha colpito un sessantenne in un bar di Dublino perché si rifiutava di assaggiare il suo whisky e poi, due anni dopo, ha comprato quello stesso pub vietando l’ingresso al suo nemico; oppure tipo le quattro accuse per aggressione sessuale, l’ultima delle quali da parte di una donna che per scappare si è gettata in mare dal suo yacht) ma guardate che generosità, che tenacia, guardate quanto duramente si allena, guardate che macchina biologica straordinaria, che spirito competitivo. E siate grati che, con tutti i soldi che ha fatto, al punto da avere una macchina con la granita per i figli nel suo yacht grande quanto un piccolo paesino umbro, decide comunque di entrare in gabbia e combattere.C’è una scena che a mio avviso, però, ci fa vedere quanto sia autentico il desiderio di combattere di Conor McGregor. È la scena in cui vuole combattere con un alligatore. Credo sia in Florida, su una barca turistica con moglie e figli. La sua capacità di entusiasmarsi per i semplici fatti della natura non ha limiti, sembra un bambino che i genitori hanno portato per la prima volta allo zoo a trent’anni. Un alligatore a un certo punto si mette a seguire la barca e Conor a torso nudo gli fa vedere i muscoli. Fa la faccia da pazzo come quando sale sulla bilancia per la cerimonia del peso prima di un incontro. Qualcuno gli dice di fare attenzione e lui risponde di essere “in controllo” della situazione. Si sdraia sul pavimento e fissa l’alligatore, come per farlo andare via con lo sguardo. L’animale si ferma e torna sotto il pelo dell’acqua. Forse lo avrebbe fatto lo stesso, chissà, ma Conor pensa sia merito suo. “Così, bravo”, dice all’alligatore col suo tipico tono da bullo. Magari non sarebbe mai arrivato al punto di entrare in acqua e combattere con un alligatore, ma se c’è una persona al mondo che non la vedrebbe come una follia, quello è Conor McGregor.McGregor Forever o, insomma, chi ha montato insieme quelle interviste e quelle immagini, prova a fare due cose opposte contemporaneamente: da una parte ci mostra quanto sia cambiato McGregor con il successo, con i figli, nel secondo incontro con Poirier sembra una specie di Papa delle MMA, sereno e signorile persino nella sconfitta; dall’altra però ci dice che è in fin dei conti è sempre lo stesso, quello che diceva di pensare al combattimento “24 ore al giorno, non mi interessa nient’altro”, quello che nel terzo incontro con Poirier gli offende la moglie, lo tratta da zoticone cercando disperatamente di convincersi che insieme agli insulti sarebbe tornata anche la vittoria. Da una parte sembra un vecchio settantenne milionario che brinda con la moglie sul suo jet privato ricordando i tempi in cui non avevano niente; dall’altra, subito dopo che il chirurgo gli ha rimesso insieme la gamba spezzata nell’ultimo incontro con Poirier, gli chiede dopo quanto tempo sarebbe potuto tornare a combattere. Ma quindi, quella di McGregor è una storia di trasformazione o la storia di un uomo che non riesce a separarsi dalla parte più oscura di sé? Un uomo per cui non esiste cosa materiale, gratificazione, che lo faccia sentire davvero soddisfatto di sé, in pace e non in guerra?In questo stesso periodo McGregor sta girando la nuova stagione di The Ultime Fighter, il reality show della UFC in cui due allenatori seguono un gruppo di aspiranti fighter professionisti in una serie di incontri a eliminazione che culminano in un incontro tra i due allenatori stessi. Dovrebbe combattere, quindi, con Michael Chandler, entro il 2023 dice. Nel frattempo però è diventato gigantesco, tutti muscoli sia chiaro ma sembra veramente che qualcuno lo abbia gonfiato con la pompa. Qualcuno sospetta si sia aiutato con sostanze vietate e il suo rifiuto a farsi testare dall’USADA, l’agenzia antidoping americana, non aiutava, adesso però sembra più disponibile e quindi vedremo. Ah, sembra anche sia ricorso alla chirurgia estetica, la sua faccia ha assunto una lucentezza iperreale da filtro Instagram.

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Conor McGregor oggi sembra già cambiato rispetto al documentario McGregor Forever ma quella che resta intatta è l’illusione che può sistemare tutto, forzare tutto facendolo entrare nell’imbuto della sua forza di volontà. Con i primari, i fisioterapisti, i migliori allenatori, le migliori macchine in palestra, le migliori metodologie, studiando, riguardando e ripensando agli errori commessi in passato. Anche questo è parte del suo magnetismo, delle ragioni per cui ha una fandom così fedele: Conor McGregor pensa davvero che potrebbe battere Khabib Nurmagomedov se solo avesse un’altra possibilità, che avrebbe battuto Dustin Poirier se la sua gamba non si fosse spezzata come un grissino, che battendo Chandler, adesso, tornerà come prima. Anzi, meglio di prima. È questo che fa di McGregor l’incarnazione stessa del sogno capitalistico dell’occidente. Non c’è fine al successo. Con davanti agli occhi il miraggio di un se stesso migliore, più forte, più tecnico, più furbo, Conor McGregor non ha neanche bisogno degli avversari, che infatti si vedono pochissimo e nei suoi discorsi, quando visualizza l’incontro con i suoi allenatori, sono sempre delle bambole inermi in balia della sua strategia. Ci crede veramente, ma è come un bambino che crede che il trasferello che il papà gli ha messo sul braccio con la spugna imbevuta d’acqua, sia un tatuaggio vero. Ecco cos’è, il suo personaggio aggressivo - “sono pronto a uccidere”, “lo faccio a pezzi”, eccetera - un tatuaggio per bambini, una seconda pelle finta che si sgretola come un vecchio affresco in una chiesa abbandonata. Eppure McGregor Forever un servizio alle MMA lo rende. Restituisce l’attesa di chi la segue e si informa, la fatica, il lavoro incredibile di quelli che sono sportivi di altissimo livelli, atleti d’élite, per poi confrontarsi in gabbia in pochi minuti di un’intensità emotiva e fisica insostenibile per chiunque tranne loro. L’orrore del suo infortunio finale, come l’orrore della prima sconfitta subita con Poirier, chiuso con gomitate nel ground and pound, a terra, sembrano una punizione per la superbia di McGregor stesso. Le MMA lo hanno portato in alto, ma sono sempre loro a riportarlo con i piedi per terra. Un finale terribile per un documentario agiografico.Il vero senso di McGregor Forever sta nella sua umanità, nel fatto cioè che - surprise surprise - Conor McGregor in fondo in fondo è un essere umano. Eccezionale, incredibile, fantastico sotto certi aspetti e disgustoso per altri, ma comunque un essere umano. Banale, eh? Il romanziere Martin Amis, morto pochi giorni fa, diceva che il suo mestiere era fatto di: “banalità servite con una forza straordinaria”. Mi sembra una bella definizione anche per descrivere chi si guadagna da vivere e diventa famoso prendendosi a pugni con altre persone. Tutta la banalità degli esseri umani, orgogliosi, competitivi, autodistruttivi, megalomani e fragili, servita con brutalità.

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