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Cosa resterà del Tottenham di Pochettino
21 nov 2019
21 nov 2019
Cosa significa l'esonero del tecnico argentino.
(articolo)
8 min
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Sul prato della Johann Cruyff Arena, vestito in total black, Mauricio Pochettino ha le ginocchia piegate, le braccia aperte con i palmi all’insù e gli occhi spiritati che guardano il cielo.

È una posa che contiene qualcosa di ancestrale, e che rimanda bene l’energia che circonda Pochettino, più di un allenatore. Un condottiero, un guru, un santone, capace di creare squadre dall’organizzazione tattica certosina ma al contempo di ricondurre il gioco del calcio a una dimensione spirituale: «Credo nell’energia universale. Tutto è connesso. Niente succede per caso. Tutto è una conseguenza di qualcosa. Forse questa è la ragione per cui Harry Kane segna sempre nei derby. Credo in quell’energia. Per me esiste».

Foto di Chris Brunskill.

Non c’è forse foto migliore per fare da cornice alla dimensione aleatoria, persino magica, del percorso in Champions del Tottenham 2018/19.

Un percorso che si è retto su un filo sottilissimo ma resistente fino alla finale; che stava per spezzarsi già ai gironi, prima del gol di Lucas Moura a 5’ dalla fine dell’ultima partita contro il Barcellona; che non si è spezzato per miracolo nei quarti di finale contro il City, vinti forse grazie al favore dell’energia universale di cui parlava Pochettino viste le sliding doors di cui è stata disseminata la partita, tutte favorevoli agli Spurs; un filo che non si è rotto neanche nella semifinale contro l’Ajax, vinta grazie a una rimonta impossibile, tutta concentrata in un secondo tempo in cui Lucas Moura - giocatore di cui oggi abbiamo un ricordo solo sbiadito - ha segnato una tripletta.

Una cavalcata così assurda che dopo la semifinale Pochettino, sconvolto dalle lacrime, ha rilasciato un’intervista tra le più emotive degli ultimi anni di calcio: «Thank you, thank you football. Thank you this guys, my players, they are heroes. Thank you fans, thank you the people that believe in us».

Niente succede per caso, dice Pochettino, e magari quel miracoloso percorso era il modo che gli Dei del calcio (o l’energia universale) avevano trovato per offrire al Tottenham un’ultima possibilità per vincere un trofeo, il più grande trofeo, quello che avrebbe coronato nel modo più nobile possibile il lavoro di Pochettino sulla panchina degli Spurs.

E verrebbe allora da chiedersi, visto insomma che le cose non succedono per caso, cosa voleva dirci il calcio con l’ennesima sconfitta in finale del Tottenham. Cosa voleva dirci il calcio con l’ennesima storia di una squadra bella e amata da (quasi) tutti che arriva in finale, a un passo dal trofeo, ma finisce per perdere?

Per chi voleva vederlo, il declino del Tottenham si poteva leggere già in controluce dietro il velo di questa straordinaria cavalcata. È un paradosso ma non una provocazione: quello 2018/19 non era il miglior Tottenham degli ultimi anni.

I picchi del periodo di Pochettino sono stati altri: la stagione 2016/17, culminata con il secondo posto; il 4-1 inflitto al Liverpool di Klopp; la vittoria contro il Real Madrid; quella contro il Chelsea per 5-3, dove cominciò la scalata di Harry Kane al calcio europeo - una partita in cui Pochettino sembrava un allenatore troppo aggiornato per Mourinho, che curiosamente oggi ha preso il suo posto.

In quei momenti di brillantezza il calcio di Pochettino aveva raggiunto la sua forma più pura, un equilibrio sottile tra ordine e caos. Mancava giusto un po’ di solidità mentale e di quella capacità immateriale di non sciogliersi nei momenti decisivi, che è quello che il Tottenham ha mostrato lo scorso anno in Champions.

Non era più una squadra brillante, ma una squadra che riusciva a ottenere tanto da poco, capace di portare a casa il risultato anche navigando nelle opacità. Non era più, insomma, la squadra che Chiellini, dopo la rimonta della Juventus in Champions sugli Spurs, si permetteva di prendere in giro dicendo: «È la storia del Tottenham. Creano molto, giocano bene ma alla fine gli manca sempre qualcosa per arrivare alla fine».

Nella scorsa stagione si poteva vedere una crescita di maturità della squadra, oppure il segno che il Tottenham era diventata una squadra diversa da sé, non più la squadra di Pochettino.

In estate il tecnico sembrava poter passare alla Juventus, o al Real Madrid, o al Manchester United, poi alla fine è rimasto, e ha visto la sua creatura andare lentamente in putrefazione. Oggi il Tottenham è quattordicesimo in Premier, con appena 14 punti in 12 partite, 11 punti sotto l’ultimo posto utile per una qualificazione in Champions, vitale per cementare lo status del club nella lega più difficile al mondo.

Pochettino ha visto la sua squadra andare in pezzi e perdere 2-7 in casa sotto i colpi del Bayern Monaco - peggior sconfitta interna della storia del Tottenham - e poi uscire dalla Carabao Cup perdendo ai rigori contro il Colchester, un club di quarta divisione.

L’equilibrio tra ordine e caos sembrava essersi ormai spezzato, come spiegato da Charles Onwakpa in questo articolo di ottobre.

Sempre Lucas Moura, nel bene o nel male. Non è bastato neanche il peccato di hybris del Colchester, che si è fatto parare un rigore tirato a "cucchiaio".

C’erano poi altre situazioni su cui Pochettino non sembrava più avere controllo: Christian Eriksen in scadenza, senza l’intenzione di rinnovare il contratto e ormai lontano dalla sua forma abituale; Danny Rose nella stessa situazione, con in più la dichiarazione esplicita di non voler rinnovare.

Mentre Harry Kane continuava a segnare, non suggeriva comunque di poter tornare al picco di un paio di anni fa e in Inghilterra si è arrivati a parlare esplicitamente del suo calo, nelle prestazioni e nei numeri.

Poi c’è Dele Alli, a cui Sky Sports ha dedicato un articolo negativo che si apre con una mestissima citazione di Rocky Balboa: «Tre anni fa eri sovrannaturale. Eri duro e sporco. Ma dopo, ti è successa la cosa peggiore che può succedere a un combattente. Ti sei civilizzato».

Insomma, a guardare il quadro generale è difficile dire che ci sia qualcosa di sbagliato nel licenziamento di Pochettino. Eppure il semplice fatto che ci abbia lasciato addosso un certo senso di malinconia e incompiutezza ci dice molto su alcune dinamiche del calcio contemporaneo.

Pochettino ha dato vita al miglior Tottenham della storia. È il tecnico degli Spurs con più panchine in Premier, quello con la media punti migliore tra quelli con più di 30 panchine; uno dei tecnici a raggiungere prima il traguardo delle 100 vittorie (in 169 partite, in Premier peggio solo di Mourinho e Ferguson).

È riuscito quindi a dare al Tottenham una dimensione che prima non gli apparteneva, e lo ha fatto in un periodo finanziariamente complicato per il club, alle prese con la costruzione del nuovo stadio.

Un po’ per necessità e un po’ per scelta, Pochettino non ha fatto mercato in questi anni. In estati in cui City, United e Liverpool si impegnavano in acquisti sempre più onerosi, il Tottenham era fuori dalla catena alimentare, e ha continuato a puntare su un gruppo di giocatori ristretto e che era arrivato al club con un investimento minimo.

Dele Alli, Harry Kane, Son ed Eriksen sono costati al Tottenham complessivamente 49 milioni, meno di quanto il Manchester United abbia pagato il solo Anthony Martial nell’estate del 2015.

Il Tottenham in questi anni ha dimostrato che puntando sulla continuità, su un gruppo di giocatori consolidato e migliorato progressivamente negli anni si può ambire ai massimi palcoscenici europei. Si può giocare un calcio seducente e diventare fra le squadre più affascinanti in cui giocare.

La strategia della continuità ha fatto le fortune del Tottenham, ma si è rivelata la trappola che ha incastrato Pochettino sul lungo periodo. Dopo la finale di Champions persa, probabilmente il Tottenham aveva bisogno di rinnovarsi del tutto. Pochettino deve convincere i suoi giocatori ad aderire a una causa, il suo gioco richiede uno spirito di dedizione assoluta: il pressing, i continui movimenti senza palla, la capacità di competere con i migliori club al mondo senza averne gli stessi mezzi.

E i calciatori del Tottenham non avevano più l’energia per giocare un calcio così esigente. In estate molti si erano seduti al tavolo per rinnovare il contratto chiedendo i soldi che pensavano gli spettassero, e il sistema è collassato.

Secondo la ricostruzione del Guardian, Pochettino aveva minacciato di andarsene già un anno fa, presagendo che senza cambiamenti significativi nell’ossatura della rosa il Tottenham sarebbe stato destinato al declino. Ma quest’estate, dopo la finale contro il Liverpool, la situazione non è cambiata di molto: è stato ceduto Trippier e sono stati acquistati tre giovani (Sessegnon, Ndombele e Lo Celso), ma sostanzialmente Pochettino ha continuato a puntare sullo stesso gruppo di giocatori.

In fondo il Tottenham ha ancora un gruppo giovane, con un’età media in linea con quella di City e Liverpool e i suoi migliori giocatori ancora teoricamente nel prime. È questa forse la cosa più triste del licenziamento di Pochettino: il messaggio che i cicli finiscono, anche quelli che sembrano gonfi di futuro, che sembrano parlare a un calcio che deve ancora arrivare.

Nell’ecosistema del calcio contemporaneo tutto ha una fine naturale insita nella grandezza delle cose. Più una squadra ci mostrerà, ci farà vedere, meno le sarà rimasto da farci vedere. Il ciclo naturale dei calciatori ad alto livello ha un inizio, un picco e una fine che non corrispondono per forza alla loro età anagrafica.

Harry Kane ha 26 anni, Dele Alli 23, ma siamo sicuri che il picco del loro gioco non sia già alle spalle?

Nel senso di malinconia c’entra ovviamente anche il fatto che questo bellissimo ciclo non abbia portato a nessun trofeo. Confermando quella visione del mondo cinica secondo cui nel calcio la bellezza e il successo sono due cose che non vanno insieme.

È ironico e crudele, quindi, che a prendere il posto di Pochettino sia adesso Josè Mourinho, che dopo aver vinto il suo ultimo trofeo europeo aveva chiosato «I poeti non vincono i titoli».

Probabilmente il lavoro di Pochettino, che con pochissime risorse ha portato un club in un’altra dimensione, mostrandoci la possibilità di un calcio unico, possiede un valore intrinseco più alto di qualsiasi titolo vinto. Almeno vorremmo crederlo.

Ma alla fine, tra qualche anno, a cosa assoceremo questo stupendo ciclo del Tottenham, a quale momento, a quale partita, a quale vittoria?

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