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Berrettini non è in semifinale a Wimbledon per caso
08 lug 2021
08 lug 2021
Il punto più alto di una crescita lunga e costante.
(articolo)
9 min
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Quando il recupero di Auger-Aliassime si è fermato al di là della rete, Matteo Berrettini ha lasciato andare la racchetta per poter stringere i pugni e gridare con la faccia rivolta all’erba. Un’esultanza energica ma contenuta, in fondo, per un risultato storico. L’ultimo italiano a qualificarsi in semifinale a Wimbledon era stato Nicola Pietrangeli nel 1960 e perse dal leggendario Rod Laver in cinque set. Eppure quella di Berrettini non è un’impresa, non è un risultato inaspettato. In effetti non pare troppo sorpreso da sé stesso, non ha l’aria dell’eroe: è lì dove ci si aspettava che fosse, pure in semifinale del più prestigioso torneo al mondo. Ci è arrivato con la naturalezza dei più forti: cedendo solo due set, dando l’impressione di non poter mai perdere, incontrando giocatori modesti. Nessuna testa di serie fino ai quarti: il lusso di entrare in tabellone da testa di serie numero sette. In fondo la tradizione vuole che il vincitore del Queen’s sia il favorito di Wimbledon. E Berrettini al Queen’s ha vinto con autorità, perdendo un solo set al tiebreak in finale con Norrie, spezzando i suoi avversari uno a uno con una velocità di palla semplicemente ingestibile. Certi avversari di Berrettini a volte abbandonano le velleità di rispondere ai suoi colpi, sembrano più preoccupati di non farsi male.

Eppure non c’è niente di scontato nel modo in cui Matteo Berrettini è entrato nell’élite dei migliori tennisti al mondo. Sono passati solo tre anni da quando ha calpestato per la prima volta l’erba di Wimbledon. In uno dei campi periferici, lontano da attenzioni e telecamere, aveva perso al secondo turno in tre semplici set da Gilles Simon. Un veterano dall’efficacia controintuitiva sul veloce, fenomenale non per come tirava ma per come si muoveva. Al primo turno però, in una maratona da cinque ore e rimontando due set di svantaggio, aveva eliminato Jack Sock, all’epoca numero 15 del mondo. Il pubblico italiano poteva dirsi soddisfatto. Berrettini aveva già ventidue anni e sembrava uscito fuori dal nulla, col braccio rigido e nessun segno di predestinazione. Tutto ciò che arrivava da lui veniva accolto come un regalo inatteso. Aveva iniziato a giocare a tennis a sette anni trascinato dal fratello: fino a quel momento preferiva il judo.

C’era però già qualcosa di speciale in Berrettini, o che almeno lo rendeva anomalo nel movimento tennistico italiano. Berrettini è molto alto, i suoi servizi sono potenti e partono da altezze e con angoli difficili da controllare per gli avversari. La prima palla fa i buchi per terra, ma la seconda non scherza. Una vera rarità, in un tennis che ha prodotto quasi sempre giocatori con problemi patologici al servizio. Alla fine di quel luglio del 2018 vince il suo primo torneo, sulla terra di Gstaad, in finale contro Roberto Bautista Agut, che prevede: «Matteo ha una grandissima carriera davanti». Nel frattempo vince anche il torneo di doppio in coppia con Daniele Bracciali. E insomma, le aspettative iniziano ad alzarsi, e quando l’anno dopo si presenta al suo secondo Wimbledon ci si aspetta qualcosa in più dell’onore della presenza. Nel frattempo ha iniziato a vincere sul serio. Fra aprile e luglio ha vinto due tornei in modo impressionante. Sulla terra di Budapest ha sconfitto Krajinovic, ma soprattutto ha vinto un torneo su erba a Stoccarda. Nel percorso ha sconfitto specialisti come Khachanov, Kyrgios e Auger-Aliassime, senza perdere neanche un set. Diventa il primo tennista a vincere due tornei senza cedere neanche una volta il servizio dal 1999. I segni che Berrettini fosse speciale, insomma, erano evidenti, eppure quando a Wimbledon ha perso contro Federer mettendo insieme la miseria di cinque game i commenti del pubblico italiano sono stati durissimi. Un conto è perdere, un altro è farsi umiliare, sembrare inadeguati a certi palcoscenici, come si dice. Finita la partita, stringendogli la mano, gli si è avvicinato sorridendo e gli ha chiesto: «Quant’è per la lezione?».

Berrettini è cresciuto col mito di Federer. Dice di aver smesso di tifarlo quando ha iniziato a giocare i suoi stessi tornei. Contro di lui era sembrato in soggezione: un tifoso che paga gli omaggi al suo idolo. Ai microfoni poi ha messo la questione in termini quasi ontologici: «Noi siamo qui perché prima c’è stato lui». Federer lo ha rincuorato, raccontando di aver vissuto la stessa agitazione paralizzante contro Agassi a inizio carriera. Il Corriere è duro: «Berrettini annientato» titola, in un articolo in cui parla di “esecuzione” e di “strazio”. Berrettini è un altro fuoco di paglia dopo Cecchinato semifinalista al Roland Garros? Un altro tennista sbocciato tardi dai risultati destinati a peggiorare?

Poche settimane dopo, però, Berrettini si spinge fino alla semifinale degli US Open. Ma allora non è un fuoco di paglia. Ai quarti elimina Gael Monfils in una battaglia da cinque set in cui viene fuori dai momenti difficili meglio dell’avversario. Sul 6-5 nel quinto set si lascia annullare tre match point, eppure al tiebreak non perde la testa e, un servizio dietro l’altro, vince la partita. La sconfitta con Nadal in tre set in semifinale è decisamente meno squilibrata di quella con Federer a Wimbledon. Berrettini è diventato top-10, e si è anche qualificato alle ATP Finals. Un anno prima non era nessuno, un anno dopo c’erano solo una manciata di tennisti meglio di lui. Noi che non sappiamo goderci niente ci chiedevamo quanto sarebbe durato, mentre osservavamo lo schianto impetuoso delle comete Sinner e Musetti.

Da quella sconfitta contro Federer, due anni fa a Wimbledon, Berrettini non ha fatto altro che migliorare. A costruire, attorno al suo gioco violento ed essenziale, alternative e durezza mentale. Il suo rovescio coperto è migliorato, il suo back anche; il suo servizio e il suo dritto hanno mostrato margini di miglioramento che non immaginavamo possibili. Oggi sono tra i più temibili del circuito. Ma è nella dimensione invisibile della partita che Berrettini è migliorato. Un noto scarto tra i giocatori normali e i top-10 è la capacità di vincere anche quando non non si gioca in maniera brillante. Ieri, a Wimbledon contro Felix Auger-Aliassime, Berrettini non ha giocato il suo miglior match, ma è riuscito a vincere in quattro set contro un avversario forte e col vantaggio di avere minori pressioni. Aliassime ha vent’anni e un talento speciale. Agli ottavi di finale ha disinnescato il servizio di Zverev con un istinto prodigioso in risposta. La sua pallina non corre veloce, non sembra avere niente di eccezionale, se non quello che è meno visibile: un gioco di piedi magico, che lo fa sembrare sempre muoversi sospeso da terra di qualche centimetro. È entrato in campo contratto e falloso, e Berrettini ha vinto il primo set lasciandogli tre game. Poi il suo gioco si è pian piano centrato. Ha iniziato a leggere il servizio di Berrettini sempre meglio, mentre quello gli leggeva sempre peggio il suo. Una volta partito lo scambio, Aliassime era a proprio agio. Controllava il contesto, in attesa che Berrettini sbagliasse. I numeri dell’italiano hanno cominciato a colare a picco: i vincenti troppi meno degli errori gratuiti, la percentuale di prime palle modesta. A un certo punto Aliassime aveva anche più ace di Berrettini: non c’era un segnale peggiore. La forza di Berrettini, però, è la sua solidità: a differenza del suo avversario ha due colpi eccellenti, che non lo abbandonano mai del tutto e che possono tirarlo fuori dalle sabbie mobili in un momento qualsiasi.

Quel momento arriva all’inizio del terzo set. Aliassime domina al servizio, alza il livello da fondo, Berrettini deve difendere due palle break nel terzo game. È sotto 15-40, quando due prime portentose lo tolgono dai guai. Per qualcuno è un trucco, avere un gioco così sbilanciato sul servizio. Su internet i giocatori come Berrettini vengono definiti, spregiativamente, “serve bot”. Ma è un argomento strano: sull’erba da almeno trent’anni, cioè dall’introduzione delle racchette in grafite, si vince attraverso il servizio. Persino su un’erba rallentata; persino Roger Federer - il miglior giocatore su erba di sempre - ha sempre avuto bisogno di un servizio dominante per poter vincere a Wimbledon. Ce ne siamo accorti ora?

Nel terzo set Berrettini resta in una situazione difficile: rimane attaccato nel punteggio, ma dà la sensazione di non controllare più il contesto del match. Aliassime non perde più punti sul suo servizio, si arrivasse al tiebreak sarebbe un problema. Sul cinque pari tiene il servizio ai vantaggi, non è il miglior giocatore in campo, ma ha messo pressioni sul suo avversario. Aliassime è giovane e mentalmente non è certo il più duro del circuito. È noto per il suo talento precoce, ma anche per un’ostinata tendenza a perdere le finali dei tornei. Ne ha già persa una con Berrettini un paio d’anni fa. Forse anche per questo ha deciso di farsi allenare dal sergente Toni Nadal. Fatto sta che in quel game gli viene il pensiero di essere molto vicino a perdere un set giocato nettamente meglio del suo avversario, e in effetti lo perde. Berrettini esplode col suo dritto. Un dritto che sembra diventare più veloce e penetrante partita dopo partita. Su questi campi - almeno in certi tratti di partita particolarmente ripidi - il suo schema dritto e servizio sembra aver riportato in vita Andy Roddick. Lo tira con una posizione “open stance" accentuatissima, che ovviamente manda ai pazzi i puristi. Forza col dritto negli ultimi centimetri di campo e costringe Aliassime al tergicristallo difensivo, poi la palla gli arriva sul rovescio. È il suo colpo peggiore, ma sull’erba lo può mascherare con un back sempre efficace. Ne sceglie uno incrociato, che gli frutta una palla a metà campo comoda da spingere ancora col dritto. È un inside out massiccio, su cui Aliassime non riesce a tenere in campo il passante. Berrettini vince il set e poi dilaga nel quarto.

In Italia qualcuno storce il naso per il suo gioco, lo considera noioso, monodimensionale. Ma è sempre una questione di gusto. Certo, se non si ama il gioco rapido di potenza è difficile farsi piacere il tennis contemporaneo, al di fuori di qualche giocatore. E quelli che giocavano più o meno così, tipo Krajcek o Ivanisevic, oggi vengono rievocati con nostalgia o romanticismo grazie alla patina nostalgica degli anni che passano. L’impressione è che - tra la fragilità di Musetti, la monotematicità di Sinner e la noia di Berrettini - sia sempre facile trovare un motivo per essere infelici.

Godiamoci un giocatore assiduamente nelle ultime giornate dei grandi tornei, in top-10 da ormai due anni. L’impressione è che gli manchi solo un grande picco per essere celebrato come merita. Vincere in semifinale con Hurkacz lo porterebbe in finale a Wimbledon, e forse farebbe cadere anche la piccola aura di sottovalutazione che lo circonda. Non sarà una partita semplice. Hurkacz ha appena rifilato a Federer il primo bagel della carriera a Wimbledon (un set perso a zero), chiudendo nel modo più triste la probabile ultima partita del Re nel suo giardino. Anche Hurkacz, come Berrettini, è cresciuto col mito di Federer. Anche lui è molto alto e domina le partite col servizio. Ma il suo gioco è meno minimale di quello di Matteo, più completo e ricco di soluzioni. Hurkacz è bravo a rete e a fondo gioca bene e sbaglia poco. Sa interpretare bene i contesti tattici: contro Sinner, in finale a Miami, ha lasciato cuocere il suo avversario nei suoi sbagli. Il tipo di errore che deve evitare Berrettini: ha più vincenti potenziali nel braccio, ma deve stare attento a non diventare falloso. Giocare bene senza pensare per un attimo alla verità semplice che sta scendendo in campo da favorito nella semifinale di Wimbledon. Ce l’avessero detto qualche anno fa, ma chi ci avrebbe creduto.

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