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Matteo Berrettini non vi sente
25 gen 2022
25 gen 2022
Una partita epica vinta con la testa e il cuore.
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C’è stato un momento in cui Matteo Berrettini sembrava morto, sportivamente morto: esausto, senza energie fisiche e mentali, prosciugato da due set giocati male come raramente gli era successo negli ultimi anni. La sconfitta sembrava l’esito più probabile del suo quarto di finale contro Gael Monfils. Mats Wilander lo dava per spacciato, un sondaggio fatto da Ben Rothemberg su Twitter gli dava il 32% di possibilità di vittoria al quinto. Magari non voleva dire niente, ma era il sentimento comune.

***

È stata una partita dalle tante partite. Nel primo set Berrettini ha servito come sa, cioè come uno dei migliori due o tre servitori del circuito in questo momento. Ha tenuto percentuali altissime di prime palle in campo, ed è riuscito nell'impresa paradossale di vincere più punti con la seconda palla che con la prima. Se funziona il servizio, per Berrettini tutto il resto viene naturale, a cascata. Un servizio che funziona si porta dietro un dritto penetrante, scambi corti, un gioco rapido in cui si tira molto e si pensa poco.

Nel primo set è riuscito a giocare quasi solo punti sotto i tre colpi. Quando serviva non si sono giocati scambi sopra i 9 colpi. Nel secondo set Berrettini è stato meno brillante, la palla filava meno, riusciva a penetrare meno nelle maglie della difesa di Monfils. Gli scambi si sono allungati leggermente, Monfils dava l’impressione di essere un tantino più presente. All’inizio del set si gioca un game da venti minuti, uno di quelli che rendono il tempo del tennis un frattale ipnotico di partite nelle partite. Berrettini annulla tre palle break, e si fa cancellare una moltitudine di possibilità di chiudere il game. Mette sempre la prima da destra, e fa il punto, non entra mai la prima a sinistra, e perde il punto, ma alla fine riesce a chiudere, stringe il pugno, fa la faccia truce che abbiamo imparato a conoscere, mentre guarda Vincenzo Santopadre. Poco dopo passa alla cassa di quel game che sembrava aver dato un colpo decisivo alle energie di Monfils. Nel settimo game il francese gioca un turno di servizio sciroccato, sembra perdere tutte le distanze, Berrettini ne approfitta e fa il break, che poi manterrà fino ad andare avanti 2-0.

In due set, un manifesto del miglior Matteo Berrettini: quello che vince un set col suo tennis ultra-violento, e che ne vince un altro tenendo un rendimento alto anche senza brillantezza, mantenendo l’intensità giusta nei bivi decisivi. Non si può giocare sempre bene, Berrettini lo sa e ha imparato a modulare il proprio rendimento sulle esigenze che gli avversari e le partite gli mettono di fronte. Giocare con le marce del proprio gioco come fanno i grandi tennisti.

Nel terzo game del terzo set, Berrettini ha una palla break. Monfils tira un paio di dritti inside-out che fanno il pelo al nastro ma passano, e il secondo cade sulla riga e annulla la palla break. Berrettini ride, si sistema il cappello. Poi tiene un bello scambio, Monfils va fuori giri, e ottiene un’altra palla break, annullata con una prima esterna. Poi ne guadagna un’altra, e si fa annullare anche quella, con un rovescio incrociato o la va o la spacca del francese. La superficie di Melbourne si bagna delle gocce di sudore di Monfils.

L'immagine della fatica di Monfils.

Chissà se in quel momento Berrettini ha ripensato alla partita con Alcaraz, quando al terzo set si era lasciato sfuggire l’occasione di chiudere il match.

Eppure sentiva la partita in mano. Monfils gioca in modo sconclusionato, non pare avere spazio per rientrare, e questo è un motivo sufficiente a non darlo per spacciato. Se non ha più nulla da perdere, e può giocare attraverso l’entusiasmo e la disperazione, Monfils diventa un tennista pericoloso. Lo avevamo visto anche al terzo turno degli scorsi US Open, quando era sotto di due set contro Jannik Sinner, e si è aggrappato a tutto per sporcare la partita e a complicarla dal punto di vista mentale. Sembra un trucco, quello per cui riesce a convincere i suoi avversari che l’ultimo passo per il traguardo sarà quello più duro. Monfils in questi casi porta il pubblico dalla propria parte e si affida al suo tennis istintivo, fatto di ritmi irregolari, accelerazioni improvvise. Per due set, siamo stati tutti dentro la sua allucinazione. È tutta la carriera che Monfils oscilla fra queste due versioni di sé stesso. Un Monfils tignosamente passivo, rintanato diversi metri oltre la linea di fondo, a fare un tergicristallo titanico, dando fondo ai propri incredibili mezzi atletici (in una recente intervista Nick Kyrgios ha definito Monfils “il più grande atleta del circuito”). Nessun tennista ha provato a trasformare la fase difensiva in spettacolo come lui. Poi però c’è l’altro Monfils, che invece fa qualche passo in avanti e cerca di essere padrone del proprio destino. Un Monfils che può trovare il vincente da tutti i lati del campo con una facilità di braccio imbarazzante. Nel terzo set ha cominciato a giocare più aggressivo e, mentre trovava colpi sempre più puliti, faceva qualche passo in più dentro al campo, prendendo una sicurezza alla volta.

Non sarebbe stato possibile senza un calo del rendimento al servizio di Berrettini, ma quel calo è arrivato. La percentuale di prime è stata sotto al 60%, e con la seconda ha vinto appena il 36% dei punti giocati. Senza l’inerzia del servizio gli scambi si sono allungati e sporcati, Monfils ha imposto il proprio ritmo e le proprie diagonali; Berrettini ha perso il controllo, il dritto ha smesso di essere pericoloso. Nei primi due set aveva infilato 29 vincenti, nel terzo e nel quarto invece appena 14, contro i 23 di Monfils. C’era anche qualcosa di preoccupante: Berrettini sembrava arrivare sempre un secondo troppo tardi sulla palla, costretto ad arrangiare colpi corti e sciapi. Aveva qualche problema fisico o era solo la stanchezza? Nel frattempo lasciava che un pubblico più indisciplinato del solito lo distraesse. Se la prende in particolare con uno spettatore, che non riesce a riconoscere, che lo disturba durante il servizio. Tutto sembrava remare contro di lui.

***

È quello il momento in cui Berretti ha avuto una di quelle illuminazioni prosaiche che hanno gli sportivi di alto livello dentro situazioni tirate. Se deve perdere la partita, vuole perderla come dice lui. Non rimanendo passivo dietro la riga di fondo, a innervosirsi per il pubblico, a guardare Monfils che esulta alzando le braccia al cielo, chiamando le emozioni a raccolta. È a un set dalla prima semifinale di un italiano agli Australian Open, e chiede al suo corpo mal messo uno sforzo in più. Fa qualche metro dentro al campo, ricomincia a tirare.

Il servizio è ancora lontano dal rendimento visto contro Carreno Busta - «Una delle migliori prestazioni al servizio della mia vita» aveva detto - ma da fondo ricomincia a imporre la propria rapidità, i propri dritti. Gli scambi tornano brevi, e anche quando si allungano e diventano manovrieri, riesce a vincerli. Nel quinto set riesce per la prima volta a vincere più scambi di Monfils sopra i nove colpi. Un dato che dà la misura dello sforzo di volontà ed energie fatto da Berrettini, che pareva svuotato. Come fatto notare da Wilander alla fine del match, nel quinto l’italiano è riuscito a eseguire il 10% dei colpi in più dentro il campo, rispetto al set precedente.

Al terzo matchpoint, quello buono, si porta il dito alle orecchie e urla forte «Non vi sento», in una polemica col pubblico inusuale per uno come lui. Ha sofferto tremendamente il tifo per il suo avversario e la particolare buca emotiva in cui si era ritrovato. Berrettini, però, ancora una volta ha trovato la forza per uscirne. Come aveva fatto con Alcaraz, nel momento di massima difficoltà ha pescato da un serbatoio invisibile. Gli hanno chiesto dove ha trovato le energie per quel quinto, ha risposto «Nel cuore». Una di quelle risposte retoriche che per questi atleti, nelle situazioni primitive a cui li costringe lo sport, non sono affatto retoriche. Berrettini ha davvero qualcosa di magico, l’estremo sforzo di testa e cuore con cui riesce a uscire vincitore dalle battaglie più compromesse è qualcosa che non smette di stupirci.

Lo avevamo conosciuto agli US Open del 2019, quando aveva battuto Monfils in cinque set ai quarti di finale, e si era poi arreso a Rafael Nadal in semifinale - tre set, sciupando un set point. Pensavamo fosse un exploit, due anni e mezzo dopo ha di nuovo battuto Monfils ai quarti, e di nuovo ritroverà la leggenda Nadal in semifinale. Nel frattempo è cresciuto, nella testa e nel suo tennis, e tutti hanno imparato a prenderlo sul serio. Qualcuno lo prende in giro per un rovescio bruttino, non all’altezza, ma lui ha trovato il modo di fregarsene e per mascherare le proprie debolezze con lucidità. Mentre continua ad aleggiare attorno a lui una certa aura di sottovalutazione - forse perché non ha mai avuto le stimmate del predestinato - è diventato il primo tennista nato negli anni ’90 a fare quarti in tutti gli Slam.

Cosa c’è in fondo di più sorprendente, in uno sport così pazzo, della consistenza?

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