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Dario Vismara
Matrimonio di convenienza
27 ott 2017
27 ott 2017
San Antonio e LaMarcus Aldridge sono stati a un passo dall’addio, ma è bastato parlarsi per cambiare tutto.
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Dario Vismara
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A fine maggio, appena dopo l’eliminazione dai playoff per mano dei Golden State Warriors, era difficile immaginare che LaMarcus Aldridge sarebbe tornato a vestire la maglia dei San Antonio Spurs. Di indizi per una possibile separazione ce n’erano in abbondanza visto che, nonostante i risultati fossero superiori a quelli del 90% delle squadre NBA, nessuna delle due parti era davvero contenta della direzione in cui stava andando il loro matrimonio. In due anni Aldridge non era riuscito a imporsi come “l’erede di Tim Duncan” che qualcuno si immaginava, né giocandogli al fianco per l’ultima stagione di TD in NBA e neanche prendendone fisicamente il posto in quintetto dopo il ritiro (come se fosse la cosa più facile del mondo raccogliere un’eredità del genere, peraltro). L’ascesa di Kawhi Leonard a indiscussa e indiscutibile prima stella della squadra nella scorsa stagione lo ha inevitabilmente relegato al ruolo di “secondo violino”, ma a differenza di quanto Tony Parker e Manu Ginobili fossero “secondi violini” per Duncan, Aldridge non ha mai dato la sensazione di poter essere la co-stella di Kawhi, ma che fosse uno o due gradini sotto rispetto al cyborg col numero 2.


 

Aldridge nei suoi anni ai Portland Trail Blazers si era abituato a essere la prima opzione offensiva della propria squadra e ad avere a disposizione il suo “menù completo” di 17-18 tiri a partita, 6-7 possessi in post basso e continue ricezioni dalla media distanza per mettere a referto i suoi canonici 20+9 sera dopo sera dopo sera con una costanza invidiabile. Con quel modus operandi era stato convocato per cinque volte consecutive all’All-Star Game e il suo massimo salariale nell’estate del 2015, quando si è presentato sul mercato dei free agent come il pezzo pregiato di tutta la lega, non era neanche in discussione. L’unica cosa da capire era dove l’avrebbe firmato, e il fatto che lo abbia fatto a San Antonio è stato per certi versi rivoluzionario: gli Spurs in epoca Duncan non erano mai stati una destinazione per free agent della sua rilevanza (anche per il poco spazio salariale rimasto); e per uno con un gioco “individualista” come quello di Aldridge, l’adattamento al sistema democratico dei nero-argento faceva storcere un po’ il naso, visto che sembrava lontanissimo dal suo modo di giocare. Nelle migliori intenzioni, il loro matrimonio era nato con l’intento di venirsi incontro: gli Spurs avrebbero dovuto modificare il proprio sistema per inserire i suoi morbidi tiri dalla media distanza; lui avrebbe dovuto rinunciare a parte del suo “menù completo” per diventare un giocatore di un livello superiore rispetto a quello che era stato fino a quel momento, imparando a giocare per vincere.


 

Solo che… non è davvero successo fino in fondo, ed entrambe le parti sono arrivate al redde rationem della scorsa estate con molti dubbi e poche certezze sul proprio rapporto. Gli Spurs hanno scoperto un giocatore dal carattere particolare, piuttosto taciturno ed enigmatico nel suo essere diva, tanto passivo-aggressivo da disattivare tutti i suoi account social dopo una brutta partita contro i Golden State Warriors, o da lamentarsi privatamente dello spazio che Damian Lillard si era guadagnato a Portland, e fondamentalmente non in grado di “get over himself”,  liberamente traducibile come “non sapersi prendersi in giro” — una qualità fondamentale nello spogliatoio guidato da Gregg Popovich. Oltretutto, Aldridge in campo è stato autore di prestazioni incomprensibili, mostrandosi a tratti quasi impacciato e fuori luogo nel sistema di San Antonio, venendo spinto da una parte all’altra in maniera apatica, faticando a lasciare un segno della propria presenza proprio quando ce n’era più bisogno — anche per dei problemi fisici, tra cui una delicata aritmia al cuore e tendinite in entrambe le ginocchia che hanno avuto un grosso impatto sul suo biennio in Texas. Sia chiaro, altre volte è stato spettacolare e trascinante, non ultima la prestazione da 34+12 in gara-6 sul campo degli Houston Rockets con Kawhi Leonard infortunato — una partita che sembrava potesse rappresentare una svolta nel suo rapporto con la franchigia. Invece la situazione è crollata dopo la sconfitta in gara-2 contro gli Warriors in cui Aldridge ha chiuso con 8 punti e 4/11 al tiro con 3 palle perse, che unite alle 6 della partita precedente hanno fatto traboccare il vaso della pazienza di Popovich, presentatosi davanti ai microfoni per dire chiaramente che “LaMarcus deve segnare per noi, non può essere timido. Oggi ha rinunciato a dei tiri… ha un’enorme responsabilità per gara-3”.


 


 

L’enigma Aldridge


Con quelle dichiarazioni così inusuali per un ambiente ermetico e militare come quello degli Spurs, Popovich aveva cercato di pungere nell’orgoglio la propria enigmatica stella, ricevendo però solo una risposta a metà in gara-3 (18 punti sì, ma con -27 di plus-minus) e l’impressione che qualcosa si fosse rotto nel rapporto personale tra Aldridge e il resto della franchigia, con la tifoseria in prima linea. I tifosi degli Spurs non sono mai riusciti ad abbracciarlo per davvero perché fondamentalmente diverso rispetto a tutte le altre stelle del roster dell’era Popovich: a differenza di Duncan, David Robinson, Tony Parker, Manu Ginobili o Leonard, Aldridge pagava il peccato originale di non essere un Prodotto di Spursello™ e per questo di non essere cresciuto insieme alla squadra, ma di essere arrivato “già pronto”. Come scritto da Shea Serrano, Aldridge non è passato attraverso “la Prova del Fuoco di Sviluppo del Carattere e Addestramento alle Avversità di Pop negli anni più istruttivi, informativi e influenti della sua carriera”. Giusto o sbagliato che sia, anche il fatto che appena arrivato abbia chiesto il numero 12 ritirato in onore di un’icona degli Spurs come Bruce Bowen ha infastidito i più ferventi tifosi dei nero-argento — una delle fan base più abrasive di tutta la NBA.


 

Se gli scricchiolii di un rapporto in crisi erano già iniziati ad arrivare dopo la prima stagione in Texas, quelli alla fine degli scorsi playoff sono diventate delle realtà che neanche i diretti interessati si sono impegnati a smentire: il matrimonio tra le parti era a un passo dal divorzio e gli Spurs hanno cercato di cederlo per tutto il mese di giugno senza che il giocatore ne fosse dispiaciuto — anzi, probabilmente lo aveva richiesto anche lui. La situazione contrattuale di Aldridge ha però raffreddato moltissimo il mercato di quello che comunque rimane un All-Star: le altre squadre erano preoccupate di pagare troppo per un noleggio di un anno di un ultra-trentenne, visto che nell’estate del 2018 il texano sarebbe potuto uscire dal contratto e trovarsi un’altra squadra di suo maggiore gradimento. Sopratutto, gli Spurs non potevano permettersi di scambiare Aldridge “tanto per scambiarlo”, ma avevano richiesto dei giocatori in grado di permettere di colmare il gap (o almeno tentarci) con i Golden State Warriors, anche perché convinti che con Leonard sano la serie contro i campioni della Western Conference sarebbe stata decisamente più equilibrata — magari non da dar loro 20 punti di distacco come in gara-1 prima dell’affaire Leonard-Pachulia, ma comunque combattuta e con una chance non disprezzabile di passare il turno. E per questo il prezzo di Aldridge non poteva che essere alto, visto che le ali versatili che sanno giocare entrambe le metà campo necessarie per tenere il passo degli Warriors sono i pezzi più pregiati della boutique NBA.


 

E così, come una coppia di sposi che si ritrova a un passo dal divorzio per incomprensioni, delusioni e reciproche insoddisfazioni, entrambe le parti si sono fatte i conti in tasca e hanno capito che, fondamentalmente, non avrebbero trovato niente di meglio da nessun altra parte — e hanno ricominciato a fare l’unica cosa veramente importante in un rapporto di coppia: comunicare. “Ci siamo parlati più di una volta durante l’estate” ha dichiarato coach Popovich a inizio training camp facendo (una sorta di) mea culpa. “Semplicemente non si trovava a suo agio, e il 98.75% della colpa è mia. Sono stato io a provare a cambiarlo. Quando Timmy [Duncan] è arrivato qui, la gente mi chiedeva ‘Che cosa farai con lui?’ e io rispondevo ‘Niente. Lo osserverò per sei mesi e vedrò cosa sa fare, è già un bel giocatore di suo’. Quando è arrivato LaMarcus, invece, ho detto ‘OK, ora devi fare questo, questo e quest’altro’ — e ho cercato di cambiarlo, di renderlo un giocatore diverso. E penso che questo abbia avuto un brutto effetto sulla sua fiducia in campo. Ce ne siamo occupati e gli ho fatto sapere che quest’anno avremmo approcciato le cose in maniera diversa — e che era responsabilità mia, non sua”. Dal canto suo, anche Aldridge non ha più nascosto il malcontento delle stagioni precedenti:  “Gli ho semplicemente riversato addosso tutto quello che provavo, e lui è stato grandioso. Le conversazioni di quest’estate sono state molto costruttive ed era una cosa necessaria, dovevamo dirci le cose con il cuore. Ovviamente lui è Pop, perciò bisogna fare le cose in un certo modo, è uno diverso da tutti gli altri. Ma è molto disponibile all’ascolto e anche io mi sono sentito meglio. Sono contento che sia successo e posso mettermi alle spalle tutto quello che si è detto quest’estate: ora mi sento più a mio agio in campo, sono di nuovo me stesso e penso di poter dare una mano per vincere”.


 

Un nuovo, particolare contratto


Le conversazioni più importanti sono state però consumate in un’altra sede, ovverosia nelle contrattazioni per l’estensione di contratto tra l’agente di Aldridge e la dirigenza guidata da R.C. Buford. E dalle parole si è passati ai fatti. La notizia che “LMA” e i nero-argento avevano esteso il loro accordo per altre tre stagioni ha colto di sorpresa tutta la NBA e ha provocato reazioni interlocutorie un po’ ovunque — un po’ come quando una coppia a un passo dal divorzio decide di rifare le promesse di matrimonio per ricominciare da capo, per la sorpresa di tutti i loro amici che ormai li avevano dati per spacciati. Ovviamente però qui si parla soprattutto di affari, prima ancora che di sentimenti: Aldridge e gli Spurs sono giunti a questo accordo perché favorevole per entrambe le parti, pur con dei ragionamenti da dover fare anche perché l’estensione è stata “venduta” come un triennale da 72.3 milioni di dollari, mentre in realtà gli speroni hanno “solo” aggiunto un anno (e un terzo) al contratto che già avevano con il lungo texano.


 

I termini dell’accordo sono stati resi noti solo in un secondo momento e sono molto interessanti: di fatto Aldridge ha accettato già da ora di esercitare la player option da 22.3 milioni prevista per la prossima stagione, rinunciando a diventare free agent in cambio di un altro anno a 25 milioni per il 2019-20 e un ultimo anno da altrettanti milioni, ma con solamente 7 garantiti se verrà tagliato prima del 30 giugno 2020. Quindi di quei 72.3 milioni solo 32 sono “nuovi”, mentre gli altri o erano già previsti dal contratto precedente o non sono garantiti, dando agli Spurs la possibilità di mantenere un minimo di flessibilità per l’estate del 2020 se le cose dovessero andare male — ma soprattutto di poter mettere sul mercato un contratto più appetibile poiché sicuro, senza l’incertezza del possibile addio dopo un noleggio di un anno.


 

Detto questo, rimane comunque un azzardo su un giocatore di 32 anni che ha mostrato i primi segni di cedimento, e che soprattutto non sembra in grado di colmare il gap con gli Warriors neanche riscoprendo la fontana della giovinezza, e che li obbliga a mantenere questo roster per gli anni a venire. Gli Spurs però si trovano con l’obbligo di dover costruire una contender attorno alla grandezza di Kawhi Leonard, che di fatto entra solo ora negli anni migliori della sua carriera avendo scollinato i 25 anni. Soprattutto, gli Spurs erano convinti (a ragione) che Aldridge avrebbe comunque esercitato la player option per tornare tra un anno, perché di sicuro non avrebbe trovato di meglio su un mercato dei free agent in cui ci sono pesci più grossi a cui offrire i 22.3 milioni a cui avrebbe dovuto rinunciare. E quindi, mettendosi una mano sul cuore e l’altra sul portafogli, gli Spurs si sono detti che di meglio in giro non c’era e lo stesso Aldridge si è convinto che, tutto sommato, a San Antonio non si stava nemmeno così male — portandolo a ripresentarsi con un atteggiamento più conciliante nei confronti di Popovich e dell’ambiente, oltretutto forte di una condizione fisica scintillante al training camp.


 

Il nuovo & vecchio LaMarcus


Perché comunque Aldridge, al netto di tutti i suoi difetti tecnici e caratteriali che fanno impazzire chi lo guarda, rimane un giocatore che possiede una qualità che il 90% degli altri giocatori NBA non avrà mai: delle doti di tiro unite a una stazza che lo rendono immarcabile quando è in giornata. Nei giorni in cui Aldridge “se la sente”, il suo tiro parte da talmente in alto da non poter essere contestato, e anche quando le difese provano a concentrarsi su di lui, ha sviluppato negli anni un bagaglio di contro-mosse in grado di punire ogni tipo di scelta. È una versione in miniatura — e decisamente meno frequente — del dilemma portato da Dirk Nowitzki alle difese di tutto il mondo per un ventennio: come si ferma un giocatore che tira così bene in qualsiasi situazione e da qualunque parte all’interno della linea da tre punti (sulle triple ci stiamo lavorando, anche se ha iniziato a tentarne di più), e che sa anche mettersi spalle a canestro così bene per crearsi il tiro? Oltretutto, Aldridge è anche un difensore sopra la media: non possederà le doti di intimidazioni necessarie per pattugliare il ferro da solo o la rapidità di piedi per tenere le guardie e le ali sui cambi con continuità, ma è solido, è mediamente più grosso degli avversari, sa eseguire uno schema e non commette grossi errori — tanto è vero che gli Spurs hanno chiuso con la miglior difesa della lega nella scorsa stagione pur facendo partire Pau Gasol e David Lee in quintetto, e promettono di essere in top-5 anche quest’anno.



31 punti contro Miami, sua miglior prestazione finora


 

In questo inizio di stagione in cui i San Antonio Spurs sono l’unica squadra imbattuta della lega insieme ai Clippers, Aldridge ha mostrato la miglior versione di se stesso — 26 punti e 9 rimbalzi di media con il 50% dal campo — trascinando la squadra a quattro W in fila anche dovendo fare i conti con l’assenza di Leonard. Popovich lo ha cavalcato concedendogli la bellezza di 8.3 possessi in post basso a partita, primo in assoluto in NBA, e “LMA” lo ha ripagato mantenendo un’efficienza che lo pone nel 95esimo percentile della lega anche grazie a uno sforzo extra nel guadagnarsi una posizione più profonda, che gli permette tiri più comodi e maggiori viaggi in lunetta. La fiducia e la confidenza nei propri mezzi con cui sta giocando in questo momento, forte del sostengo della squadra che si appoggia a lui continuamente, è incredibile se solo si ripensa a quanto stava andando male il rapporto tra le due parti fino a pochi mesi fa, e Aldridge è diventato una risorsa da cui andare quando il cronometro si avvicina allo scadere: il 20% dei suoi tiri arriva negli ultimi 7 secondi dell’azione e, contro una difesa già mossa, sta convertendo con il 45% dal campo. Ma con l’estensione del contratto gli Spurs contavano esattamente su questo, ovverosia dare a Aldridge la fiducia necessaria per essere l’All-Star che si immaginavano quando è arrivato due anni fa. Senza cercare di farlo diventare il nuovo Tim Duncan, ma un giocatore su cui poter contare sera dopo sera per punire i quintetti piccoli che oramai quasi tutte le altre squadre schierano, facendolo scalare da 5 senza che questo provochi un atteggiamento scontroso da parte della propria stella. E poter schierare in campo un 5 che occupa quel tipo di spazio e allo stesso tempo apre il campo in quel modo è un privilegio che non molte squadre possono permettersi, specie con gli atleti dalle braccia lunghissime presenti nelle altre quattro posizioni.


 

In tutto il resto della lega, una situazione così complicata che coinvolgesse il secondo miglior giocatore di una contender avrebbe tenuto banco per mesi — ma visto che stiamo pur sempre parlando di San Antonio, tutta la questione è stata gestita con una discrezione al limite dell’ermetismo (un po’ come il misterioso infortunio di Leonard), fino al colpo di scena finale dell’estensione. E come nelle migliori storie d’amore, ora il sereno sembra splendere sopra l’unica squadra che non ha ancora conosciuto la sconfitta nei primi 10 giorni di stagione. Sembra poco, ma se gli Spurs potranno contare su questo Aldridge anche ai playoff, le pretendenti a Ovest non potranno che fare i conti di nuovo con Gregg Popovich e la sua banda.


 

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