Alla fine del febbraio 2019 la Nike presenta lo spot “Dream Crazier” in cui celebra le atlete in grado di abbattere le barriere del pregiudizio nello sport grazie alla loro determinazione. Mentre scorrono le immagini è la voce di Serena Williams, tornata a vincere nel tennis dopo aver partorito, a scandire il messaggio. «Quindi se ti vogliono chiamare pazza, va bene. Mostra loro cosa può fare una pazza», è la chiusura enfatica nel classico stile del marchio sportivo americano.
Per Alysia Montaño è la goccia che fa traboccare il vaso: qualche giorno dopo si rivolge al New York Times e racconta la sua storia. Nike Told Me to Dream Crazy, Until I Wanted a Baby è il titolo dell’articolo che esce il 12 maggio: «Il mio sponsor Nike conduce campagne pubblicitarie a favore della parità di genere. Il loro slogan invita a “fare sogni da pazzi”, “just do it”, fallo e basta. Ma anni fa, quando avevo comunicato ai loro manager, quattro uomini, che volevo un bambino, mi hanno risposto semplicemente: fallo e noi blocchiamo il tuo contratto».
La mamma che corre
Nel 2014 Alysia Montaño è la mezzofondista di punta della nazionale statunitense, bronzo ai Mondiali dell’anno prima negli 800 metri. Nel 2014 rimane anche incinta. La prima cosa che fa è informare la Nike, il suo sponsor e principale fonte di sussistenza, di voler comunque continuare a gareggiare e allenarsi fin quando le sarà possibile. Da un lato sta cercando di abbattere i pregiudizi esistenti sullo sport e la maternità, dimostrando di potersi allenare e correre come sempre, dall’altro è probabile che stia cercando di spostare in avanti lo scontro con l’azienda americana che le costerà molti soldi.
La Nike infatti comunica immediatamente all’atleta la sua decisione di mettere in pausa il contratto per tutto il tempo in cui non potrà gareggiare. A questo si aggiunge la minaccia del Comitato olimpico statunitense di toglierle l’assicurazione medica finché resterà in pausa per la maternità. In un colpo solo Montaño perde non solo la più importante entrata economica, ma anche l’assistenza sanitaria – di certo non la condizione migliore per mettere al mondo un figlio. Montaño decide allora di lasciare Nike come sponsor e passare ad Asics, ma è comunque costretta a ridurre al minimo il tempo trascorso al di fuori della pista atletica per non vedere i suoi guadagni troppi ridotti.
Si presenta ai campionati nazionali e gareggia mentre è incinta di otto mesi, finisce ultima su 29 negli 800 metri. In pista inizia a essere chiamata “the running mother”, la madre che corre. Il cambio di sponsor inoltre non risolve il problema, lo sposta soltanto più avanti nel tempo, visto che Asics la minaccia di rescindere il contratto se l’atleta non sarà in grado di partecipare ai campionati di atletica previsti circa sei mesi dopo il parto.
Montaño quindi torna in pista il prima possibile, vince il titolo nazionale e si qualifica per i Mondiali. La convivenza tra la carriera sportiva e quella del ruolo di madre è complicata, soprattutto per l’allattamento che non può essere continuativo, visto che Montaño è costretta a viaggiare e allenarsi. Inoltre il poco tempo avuto per rimettersi in condizione al meglio la costringe a correre con la pancia tenuta insieme da strisce di scotch medico. Montaño è costretta ad accettare queste condizioni perché in America chi fa atletica leggera non ha uno stipendio vero e proprio, ma guadagna attraverso sponsor, pubblicità e risultati. A questo si aggiungono le clausole molto severe che sono presenti nei contratti con le multinazionali e che impediscono agli atleti di parlare apertamente delle condizioni imposte. Un circolo vizioso che rende impossibile ogni tipo di denuncia, e quindi di cambiamento, di un sistema economico e di trattamento che è evidentemente sbagliato.
È principalmente a causa di questa clausola che la storia di Montaño resta nascosta fino a quando l’atleta, come abbiamo visto, non si rivolge al New York Times. Quello che viene scoperchiato è un vaso di Pandora, perché nel mondo dell’atletica tutti sanno come stanno davvero le cose e in molte hanno pagato il prezzo: nel giro di poco alla denuncia di Montaño si aggiungono quelle di altre atlete come Mary Cain e Allyson Felix, che con declinazioni leggermente diverse hanno avuto problemi nei rapporti con Nike.
Davanti alle storie di queste atlete, che per anni hanno vinto medaglie olimpiche e mondiali, è impossibile per le multinazionali sportive evitare di cospargersi il capo di cenere, soprattutto dopo aver puntato per anni a messaggi di inclusività come forma di marketing. Nel giro di poco tempo Brooks, Burton, Altra, Nuun e altri marchi di abbigliamento sportivo apportano decise modifiche alla regolamentazione fino a quel momento vigente in termini di maternità. A queste aziende, il 12 agosto 2019, si aggiunge anche Nike, dichiarando di aver messo in atto una nuova policy per le atlete sponsorizzate che prevede uno stipendio e un bonus per diciotto mesi durante la maternità.
Quello che rimane è la consapevolezza che per anni, fino almeno al 2019, i contratti nel mondo dello sport, anche quando si tratta di sponsor, sono pensati e calibrati sul profilo di un atleta maschio. La storia portata alla luce da Montaño è ancora più degradante perché la maternità è spesso il primo punto che viene citato quando si elencano i motivi per cui lo sport femminile non può stare al passo di quello maschile. Immaginare una donna e una atleta nella stessa persona sembra un esercizio di pensiero impossibile per molti, anche per chi dello sport definisce le narrative.
Madri e atlete
Certo, ci sono delle eccezioni. Serena Williams è stata capace di mostrare in tutta la sua magnifica forza che un’atleta può avere una figlia, tornare in campo con un fisico provato dalla maternità e comunque vincere. La tennista americana ha dimostrato al mondo che la maternità non è una malattia per un’atleta, ma solo una fase, che non c’è un’atleta vincente prima e una madre a tempo pieno dopo, ma che le due cose possono convivere.
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Ma Serena Williams è oltre l’élite dello sport. Grazie alle sue vittorie è riuscita a guadagnarsi uno status quasi unico nel mondo dello sport femminile (anche grazie alla particolare struttura economica del tennis). Come abbiamo visto, il supporto totale che Nike le ha dato prima, durante e dopo la sua maternità è un caso quasi unico, perché ad altre atlete è stato offerto un trattamento nettamente diverso.
Un altro caso di atleta estremamente conosciuta diventata madre è quello di Alex Morgan, che nel 2020 ha messo al mondo un figlio ed è diventata la terza calciatrice più pagata al mondo, a dimostrazione che almeno ad alto livello le cose stanno cambiando. A febbraio, appena prima che la pandemia cambiasse i programmi dello sport, l’abbiamo vista allenarsi con le compagne della nazionale incinta di sette mesi, per prepararsi a quelle che dovevano essere le Olimpiadi di Tokyo del 2020. Nel video Morgan corre su e giù per il campo allo stesso ritmo delle compagne nonostante il suo ventre mostri uno stato avanzato della gravidanza. In un altro video, di poco successivo, si vede Morgan esercitarsi a dribblare e calciare a rete conservando la stessa classe, con l’unica differenza il fatto di essere incinta di otto mesi ormai. Pare inoltre che Morgan abbia continuato a correre per 10 chilometri al giorno nonostante lo stato avanzato della gravidanza. Ma a pensarci bene sarebbe strano aspettarsi il contrario da un’atleta che ha fatto dell’allenamento una parte integrante della sua vita e che fin da piccola ha giocato a calcio per otto ore al giorno.
Morgan ha avuto la forza di allenarsi fino all’ultimo, mostrando come la maternità non fosse un impedimento alla sua condizione di atleta, ma la sua scelta non deve essere al centro del dibattito. Non si tratta infatti di difendere una posizione o l’altra, dire che se ce l’ha fatta lei tutte dovrebbero farcela o al contrario pensare che Morgan abbia messo a rischio la propria gravidanza per non mettere in pausa i suoi vantaggi da atleta. Il punto è arrivare a una società, nello sport e fuori, in grado di accettare che ogni donna reagisca alla maternità in maniera diversa e che qualsiasi sia la sua scelta in relazione ad essa debbano esserci tutele che la supportino e la rendano possibile anche in termini economici.
Il problema delle atlete incinta
Il 4 marzo del 2021 la foto di una cestista argentina che allatta il figlio a bordo campo inonda il feed del mio Instagram. Dentro la mia bolla pare che non si parli d’altro. Antonella Gonzalez è una giocatrice di prima divisione in Argentina e durante un cambio in panchina tiene il figlio in grembo e lo allatta, fra un ingresso in campo e l’altro. La novità di quell’immagine colpisce tutti, ma ciò che colpisce ancora di più è la risposta dell’atleta: «Mia madre faceva la stessa cosa, le è capitato di allattarmi a bordo campo. Per me e le mie sorelle è un gesto assolutamente normale, per questo mi stupisce vedere una simile ripercussione. Intendiamoci, mia figlia solitamente l’allatto prima di andare a giocare. Ma può capitare l’imprevisto. Stiamo sempre parlando di neonati». Gonzalez normalizza l’allattamento nello sport e anzi dichiara di essere cresciuta con un modello che le ha mostrato sin da subito che non è necessario compiere una scelta di campo, e che in determinati casi prendere parte a una gara agonistica non significa necessariamente mettere da parte il ruolo di madre.
È interessante come questa foto, scattata a un'atleta argentina, abbia avuto tanto risalto anche in Italia, infiammando gli animi del dibattito. Per un paio di giorni Gonzalez è stata presa a esempio di virtù e di coraggio da un sistema come quello italiano che fino a oggi ha mostrato perlopiù diffidenza nei confronti delle atlete in gravidanza o già madri.
Il 13 settembre 2020 Carli Lloyd, pallavolista americana della squadra di Casalmaggiore, pubblica su Facebook una foto in cui tiene in mano un test di gravidanza positivo e una radiografia del feto e annuncia in questo modo di aspettare un bambino. La gogna mediatica è immediata, i commenti di una cattiveria incomprensibile. Qualcuno arriva a scrivere: «È come quando assumi un’operaia dell’Est a tempo indeterminato e lei magicamente resta subito incinta».
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Lloyd commenta così: «È difficile essere atleta e avere paura di parlarne, provare vergogna, è una situazione molto strana. Ringrazio tutte le persone che mi sono vicine, soprattutto il Presidente». Oltre al dispiacere è anche il danno economico a essere immediato. Quello che impropriamente viene chiamato contratto con la società italiana viene interrotto per scelta della pallavolista, che decide di tornare in America a portare a termine la gravidanza.
Il caso di Lloyd riapre una vecchia ferita dello sport femminile in Italia, e cioè la legge sul professionismo. Secondo la legge 91/1981 nessuna donna che pratica sport in Italia è professionista. Questo comporta anche che tutti i diritti e le tutele legate allo status di lavoratrice previste dalla Costituzione per le donne, nello sport non esistono, a meno che un’atleta non faccia parte di un corpo dell’arma. Il pezzo di carta che comunemente viene denominato “contratto” fra una società e un’atleta in Italia, altro non è che una scrittura privata fra le due parti, in cui chi firma si impegna a competere per una società previo compenso di rimborsi spese. Da queste scritture private sono esenti ferie pagate, contributi pensionistici e tutele in materia di maternità. In sintesi restare incinta è il bacio della morte e allo stesso tempo rende queste scritture private carta straccia.
Ad aggravare la situazione del non professionismo ci si mette anche il fatto che in queste scritture private fra società e atlete sono comuni le così dette “clausole anti-mamma”, secondo le quali per le atlete è severamente vietato restare incita, pena l’esclusone immediata dalla società con il rischio di non poter mai più tornare in campo, anche dopo il periodo di recupero.
Il caso Lara Lugli
Una condizione, quella delle sportive italiane, quasi totalmente taciuta almeno fino a pochissime settimane fa. Il 7 marzo 2021 la pallavolista Lara Lugli racconta sul proprio profilo Facebook la controversia legale in corso con la sua ex squadra, risalente alla stagione sportiva del 2018-2019, quando Lugli aveva 38 anni e militava nel Volley Pordenone in serie B1. Durante quella stagione Lugli era rimasta incinta e all’inizio di marzo del 2019 aveva informato la società della sua gravidanza. La scrittura privata fra Lugli e il Pordenone Volley viene interrotta immediatamente, come di consueto. Tuttavia Lugli chiede ripetutamente di essere retribuita anche per il mese di febbraio, l’ultimo della sua carriera a Pordenone in cui si era allenata regolarmente e aveva preso parte alle partite di campionato, adempiendo pienamente ai suoi doveri. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, Lugli decide di intraprendere la via legale.
Il caso riemerge a marzo di quest’anno perché a Lugli arriva un atto di citazione per danni dalla stessa società, in risposta al decreto ingiuntivo in cui chiedeva gli arretrati. Nell’atto si spiega che il pagamento di febbraio 2019 era stato trattenuto perché nella scrittura privata fra le due parti era indicato che in caso di inadempimento della prestazione da parte della giocatrice sarebbe stata prevista una sanzione pari al 10% del compenso mensile. Una sanzione che in maniera del tutto arbitraria viene fatta ammontare all’intero stipendio, in considerazione della violazione della buona fede e del danno causato alla società, che a seguito del ritiro di Lugli è rovinata dalla zona playoff al fondo della classifica.
Per quanto riguarda la buona fede contrattuale, si legge nel decreto di ingiunzione, la società dichiara che «la Signora Lugli che all’epoca dell’ingaggio aveva 38 anni compiuti, ha taciuto al momento della trattativa contrattuale la sua intenzione di avere dei figli, puntando a un ingaggio sproporzionato, quasi del doppio rispetto ai normali ingaggi per il campionato di B1 e per l’età, “vendendo” la sua esperienza sapendo che la sua presenza poteva diventare indispensabile. Invece ha cessato l’attività sportiva a marzo, non prestando più il suo impegno per i 4 mesi successivi, i più importanti nel campionato per qualunque società sportiva».
Che Lara Lugli avesse firmato un contratto avendo in piano di avere un figlio nella stessa stagione sportiva è ovviamente un’illazione. E sostenerla è grave per almeno due motivi. Il primo è che il Volley Pordenone sta dicendo che Lugli avrebbe firmato in maniera preterintenzionale un contratto per la stagione intera sapendo già di non poterla portare a termine. È una assurdità che non vuole fare i conti con il fatto che una donna adulta, in qualsiasi ambito lavorativo, deve avere sempre la libertà di poter venire meno ai vincoli contrattuali in caso maternità, senza doverne pagare le conseguenze sia a livello economico che lavorativo. Lugli poi non è di certo la prima donna a essere messa in condizione di dover “tacere l’intenzione di avere figli” in fase di trattativa contrattuale, né sarà l’ultima.
Il secondo motivo è l’accusa secondo la quale Lara Lugli avrebbe puntato a un “ingaggio sproporzionato” per la sua prestazione in B1 dopo aver militato per anni nella Serie A femminile. Ma sproporzionato sulla base di cosa? Lugli non è certo la prima atleta a patteggiare il suo stipendio, al contrario è proprio così che va nel mondo dello sport dove, non essendoci livelli di inquadramento, la contrattazione è la norma e si basa anche su elementi volatili come la fama dell’atleta e altri più concreti come gli anni di carriera, le medaglie, l’esperienza; tutti elementi in cui Lara Lugli brillava per la categoria e che ha fatto valere in fase di contratto, tanto che l’ingaggio “sproporzionato” le era stato proposto dalla società.
Il caso di Lugli è la conferma che il pensiero comune, anche delle società, è che le donne debbano fare sport per divertimento, o al massimo per l’onore, e non per lo stipendio. Se parlano di soldi, o vogliono essere pagate per le loro prestazioni, spesso vengono accusate di essere delle mercenarie, se poi rimangono incinta sono delle approfittatrici. Che sia un sentimento provocato dal pubblico oppure dalla società, sembra che le atlete si debbano vergognare quando decidono di intraprendere il percorso della maternità. La vergogna è una sensazione irrazionale, e come tale è difficile smettere di provarla, soprattutto in un contesto in cui mancano completamente delle tutele reali che permettano alle atlete di non pensare che la maternità per loro sia una colpa.
Se il diritto di diventare madre per le atlete fosse scritto da qualche parte nero su bianco, se ci fosse a disposizione un fondo di contributi accessibile e che non andasse a pesare economicamente sulle sole società mettendole in ulteriore difficoltà economica, è possibile che la vergogna di diventare madre di cui ha parlato Carli Lloyd verrebbe meno nel mondo dello sport. La maternità è un tema delicato soprattutto in una società volta alla produzione e al consumo come la nostra. Ci hanno detto per anni di laurearci, trovarci un lavoro, poi un fidanzato e infine solo dopo aver fatto tutto questo, ci hanno dato il permesso di fare un figlio. Molte di noi hanno inseguito con rigore questo cursus honorum e adesso hanno superato da un po’ la soglia dei trenta anni e sono consapevoli del fatto che prendere ora una lunga pausa per avere un figlio significherebbe uscire di scena proprio nel momento in cui siamo arrivate a essere dove volevamo essere. Un percorso condiviso da milioni di donne che si aggrava quando si declina nella dimensione dello sport professionale dove, anche per questioni che riguardano le conseguenze della maternità sul corpo dell’atleta, una volta uscite rientrare sembra impossibile.
Tuttavia il passaggio al professionismo per lo sport femminile in Italia in tempi brevi è utopico. Solo la Federcalcio al momento si è mossa in tal senso (dalla stagione 2022/23 le calciatrici di A diventeranno professioniste), ma ha potuto sfruttare l’improvvisa crescita del movimento e soprattutto un apparato strutturale ed economico che non ha nessun altro sport in Italia. Finché il passaggio al professionismo resterà materia di decisione per le singole Federazioni, il pericolo di essere sottoposte agli umori delle società o ancor peggio, alla consuetudine di come si è fatto per anni, terrà le sportive in scacco rendendo così vana l’idea che ogni atleta è libera di reagire alla maternità come desidera. Che continuare ad allenarsi sul piano dei diritti avrà la stessa valenza dello scegliere di non farlo. Queste storie ci hanno mostrato che ognuna sceglie la sua narrazione. Sarebbe auspicabile però che non ci fosse nessun prezzo da pagare per questo.