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Fabrizio Gabrielli
Da dove spunta fuori Mateo Retegui
13 mar 2023
13 mar 2023
Chi è e come gioca il centravanti che Mancini ha convocato per i prossimi impegni della Nazionale.
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Fabrizio Gabrielli
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IMAGO / ZUMA Wire
(foto) IMAGO / ZUMA Wire
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Le immagini che ci restituisce un drone in volo sullo stadio José Dellagiovanna riescono a includere, nel loro sguardo di mosca, la sponda destra del fiume Luján, uno dei rivoli in cui si sfalda il Paraná nel margine sud del suo delta. Là, da qualche parte sullo sfondo, a Dique Luján, si è spento Diego Armando Maradona. A qualche chilometro di distanza, in un albergo chiamato «El Tropezón», nella stessa municipalità di San Fernando, alla fine degli anni ‘30 lo scrittore Leopoldo Lugones – caduto in depressione dopo che il figlio aveva scoperto la sua relazione clandestina con una studentessa di trent’anni più giovane – ha ingerito una capsula di cianuro mescolato col whisky e si è tolto la vita. Al centro di quelle paludi umide, depositarie di una malinconia malmostosa e fatale, con la maglia del Tigre, oggi, un giovane e mortifero attaccante di 23 anni sta facendo sfaceli, sublimazione di una vitalità che risplende per contrasto.

Lo hanno soprannominato “tábano”, tafano: come l’insetto è molesto e impertinente. Prima di esplodere al Matador ha dovuto compiere un processo di espiazione, una lunga catena di parricidi. Si chiama Mateo Retegui, e oggi lo conoscono un po’ tutti come “Chapita”: al perché ci arriveremo. Per ora basti sapere che nel 2022 nella prima divisione argentina si è laureato capocannoniere con 19 reti in 26 partite, e che nella stagione successiva, quella in corso cioè, ha avuto un inizio flamboyante segnando sei reti nelle prime sei partite.

La conseguenza più sfavillante è che Roberto Mancini, disperatamente alla ricerca di attaccanti centrali in una stagione in cui Immobile non è stato al meglio fisicamente e le sue alternative hanno giocato poco, lo ha convocato per le due gare della finestra FIFA di marzo che gli Azzurri disputeranno contro Inghilterra e Malta. Ma che c’entra il “Chapita” Retegui con l’Italia?


E soprattutto: chi è, Mateo Retegui?

Non credo esista un termine maggiormente capace di racchiudere l’essenza di Retegui della parola centravanti. Mateo Retegui è archetipicamente un centravanti: alto, aitante, con una muscolatura possente e le spalle larghe. Anche il suo gioco è quello di un centravanti ideale: difende la palla spalle alla porta, aiuta a salire i compagni nelle transizioni offensive, fa a sportellate in area e crea spazi. E poi: è rapido nei movimenti, agile nel girarsi e puntare la rete avversaria, fulmineo nel lanciarsi al recupero delle palle perse. E poi: tira indifferentemente di destro e di sinistro, e non sono tiri qualsiasi, ma classiche saracche, che fanno il rumore degli schiaffi sulla collottola.

Ho chiesto a un amico giornalista di Córdoba, Matías Ramazzotti, che lo ha visto giocare a lungo nella sua permanenza al Talleres, di descriverlo in due parole: quelle che Mati ha scelto di utilizzare sono state «mucha polenta», inteso come molta potenza. Perché non avrà grandi virtù tecniche ma esprime un senso di poderosità, di nerbo, tanto quando esplode nelle progressioni sulla fascia quanto quando si catapulta in area per svettare su avversari e compagni. È risolutivo. È cinico. È – come lo ha definito Francesco Totti, che qualche anno fa lo ha fatto entrare nella sua scuderia di rappresentanza – devastante.

Per farvi capire meglio l’essenza del suo talento da centravanti prenderei alcuni gol segnati con l’Estudiantes, una delle sue prime tappe tra i professionisti: tre diverse declinazioni del termine, tre diverse interpretazioni del ruolo.

Il primo non è un gol a caso, ma messo a segno nel clásico de La Plata al Gimnasia y Esgrima, all’epoca allenato da Maradona (qua mentre salta sui cori dei tifosi a inizio partita).

Con la testa fasciata, come i grandi centravanti tragici degli Anni Novanta, Mateo riceve palla sulla trequarti, spalle alla porta: la smista sull’enganche e subito attacca la profondità. L’enganche lo cerca di nuovo, e Mateo è ancora una volta spalle alla porta. Soltanto che questa volta decide di ammaestrare la palla con l’esterno destro, un tocco in controtempo che manda fuori fase il suo marcatore, e di aggiustarsela per poi insaccarla all’angolo basso sul suo palo. Un gol da centravanti manovratore.Questo, invece, è un gol da centravanti devastante. Magari Totti ha coniato la sua definizione dopo aver visto questo tiro di controbalzo da dentro l’area, contro il Defensa y Justicia.

E questo, infine, è un gol da centravanti astuto. Lo segna di fronte al San Lorenzo, disegnando una diagonale per ricevere il lancio lungo, contando i passi del difensore, mesmerizzandolo, per poi gabbarlo prendendo in controtempo il portiere con una zampata furbetta.

Ricurvo su sé stesso, lontano dall’idea di sinuoso ma piuttosto cinico e barbaro, con una postura che ricorda quella di Belotti, o del Tanque Dénis, o di Gaich, Mateo Retegui sembra un mezzo di guerra anfibio e mimetico, che non si manifesta in tutta la sua dirompenza, col petto in fuori, come Gabriel Batistuta, ma trama nell’ombra come un guerrigliero. Irrompe nella battaglia in area con il cipiglio del risolutore, del delantero che ha come unico obiettivo il gol.

Eppure non è il tipo di attaccante che esige il pallone sui piedi: rientra spesso, crea spazi, gioca di sponda. Si allarga per creare spazi centrali, sprimacciandosi spesso sulla fascia, ed è per questo che predilige compagni di reparto con le sue stesse caratteristiche (non a caso, nel Tigre, ha permesso l’esplosione di Facundo Colidio). E poi è generoso nei recuperi: non si dà mai per vinto, ha la cultura del duello: nella disputa della palla usa le gambe come gli hockeysti usano la mazza. E non è una metafora del tutto casuale. Mateo, infatti, è figlio di Carlos José Retegui detto “Chapa”, ex commissario tecnico della Nazionale argentina di Hockey su prato tanto femminile quanto maschile, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Rio con Los Leones e campione del mondo nel 2010 con Las Leonas.

E sua madre, Maria Grandoli - il legame con l’Italia - è stata anche lei campionessa di hockey su prato, come hockeysta è sua sorella Micaela, argento olimpico alle Olimpadi di Tokyo. L’hockey, insomma, a casa Retegui, è una questione seria. «Ho giocato per tutta la mia vita a hockey su prato», ha dichiarato Mateo, «fin da quando posso ricordarmelo». San Fernando, la cittadina che gli ha dato i natali, in effetti è un po’ la capitale argentina dell’hockey su prato. E lo stesso Mateo, durante l’adolescenza, ha praticato lo sport, sia prima che dopo una parentesi non troppo felice nelle giovanili del River. A Núñez non hanno mai puntato davvero sul suo talento: giocava da cinco, e forse ha anche avuto la sfortuna di trovarsi davanti un certo Exequiel Palacios.

Il calcio e l’hockey si dividevano il cuore di Mateo. Una sera, durante un picadito, lo nota Diego Mazzilli, un osservatore del Boca, che lo segnala a Casa Amarilla. Nonostante sia tifoso del River, “Chapa” incoraggia Mateo a provarci, ed è lui stesso a suggerire all’allenatore delle giovanili Ernesto Perissé di schierarlo centravanti. Per un periodo Mateo si è diviso tra due prati verdi: nel 2016, dopo una tournée negli USA con la Nazionale Juniores di hockey, ha deciso di scegliere per sempre il calcio. «Ho dovuto scegliere uno dei due, rischiavo di farmi male sul serio». E chissà che l’hockey non abbia lasciato qualche scoria, qualche retaggio nel suo modo di giocare.


In un’intervista in cui lo stesso Retegui ha scelto le sue tre reti più belle, quelle che secondo lui più lo rappresentano (ci dice sempre molto, la scelta, di come si percepiscano i calciatori), oltre a questo in cui si destreggia con un dribbling sullo stretto e a questo in cui strappa palla dai piedi del difensore del Colón per poi tirare un colpo di mortaio, Mateo ha scelto questa rete molto bella in effetti segnata al Rosario Central.

Largo sulla fascia, impegnato in uno spalla a spalla col difensore, Mateo una volta in area manda col sedere a terra l’avversario toccando la palla con il tacco destro: nel vederla, l’azione ricorda quei momenti in cui gli hockeysti nascondono la pallina di plastica con l’interno del bastone. Il controllo di esterno destro e il tiro a chiudere, potente, di sinistro, sono solo un corollario inevitabile.

Quella partita, peraltro, è stata una mezza vendetta familiare: Carlitos Tévez, che per uno strano scherzo del destino era stato l’uomo in sostituzione del quale Mateo aveva fatto il suo ingresso in campo il giorno dell’esordio tra i professionisti, con la maglia del Boca, aveva appena rilasciato dichiarazioni piuttosto pesanti sul “Chapa”, sul padre di Mateo, al quale aveva sostanzialmente dato del cagasotto per aver rinunciato all’incarico di entrare nel suo staff al Rosario Central.

Nella stagione in corso è stato l’uomo che nella Primera Liga ha tirato più di ogni altro in porta, con una media xG di 2,75 (ogni novanta minuti), una cifra semplicemente senza senso. È anche uno degli attaccanti ad essersi imbarcato in pochissimi duelli, con una bassa percentuale di dribbling riusciti. Non è un attaccante appariscente, ma uno che partecipa molto alla costruzione: qua, per esempio, con l’Estudiantes, alla prima giornata della stagione in corso, è lui a dare avvio all’azione con una spizzata di testa, e a concluderla con un tiro magari non irresistibile. Sa farsi valere nel gioco aereo, trovare gli spazi anche con mestiere, è smaliziato e non ha paura di tentare soluzioni anche di prima, anche di fronte a due avversari (più il portiere) che rischiano di inghiottirlo.In fin dei conti, non è esattamente il tipo di attaccante – quello che per un periodo, nel suo prime, forse è stato Belotti – che all’Italia farebbe particolarmente comodo? Un archetipo di cui Mateo Retegui – e chissà quanti altri riusciranno a scovarne il team di match analysts capeggiato da Viscidi localizzato in Sudamerica – rappresenta la quintessenza. Un tipo di attaccante di cui, a certe latitudini, si continua a preservare il carattere indomito, e che chissà non ci riconcili con un’idea di centravantitudine che abbiamo un po’ perso di vista.

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