
«È un finalizzatore», «ha qualità che in questo momento non abbiamo», diceva Roberto Mancini di Mateo Retegui, quando nella primavera del 2023 lo è andato a pescare da una squadra di metà classifica argentina per portarlo nella nazionale italiana. «Noi pensavamo non volesse venire, invece ha accettato subito».
Era già tutto molto strano, ma lo sarebbe stato ancora di più se Mancini ci avesse detto che nel giro di due anni Retegui avrebbe segnato 11 gol con la maglia azzurra. Se avesse guardato nella sfera di cristallo e ci avesse raccontato che, in una delicata partita di qualificazione contro Israele, con cui sudando ci saremmo conquistati il passaggio per i playoff del prossimo Mondiale, Retegui si sarebbe conquistato e avrebbe trasformato il rigore dell’1-0 e che poi avrebbe segnato il 2-0 mettendo la palla sotto l’incrocio da fuori area.
Eh già, sono passati due anni e mezzo da quando Retegui è saltato fuori dal nulla. Solo due anni e mezzo? Già due anni e mezzo? Eravamo scettici, non senza ragione. Scaloni non lo aveva ritenuto all’altezza della nazionale argentina anche se col Tigre era diventato capocannoniere del campionato segnando 19 gol. Quando è arrivato a Genova, Alberto Gilardino aveva parlato di “grandi margini di miglioramento” ma si riferiva a tutti quegli aspetti che nei centravanti consideriamo secondari: il gioco spalle alla porta, il controllo. “È un giocatore che dentro i 95 minuti non deve avere come ossessione il gol, ma deve giocare per la squadra", diceva il Gila.
Sembrava un attaccante sgobbone, di fatica, in Argentina lo soprannominavano tafano, per come dava fastidio. Un attaccante potente, volitivo, insistente, qualità di quelli che non hanno molta tecnica a disposizione. A ventitré anni parlava a malapena - non che oggi tenga discorsi più lunghi di poche frasi - e non sembrava neanche interessato a farsi capire o conoscere al di fuori di quello che era in grado di fare in campo. Forse non si conosceva benissimo neanche lui stesso, anche lui voleva vedere cosa era capace. Ha segnato 7 gol nella sua prima stagione al Genoa, abbastanza da non finire nella cesta dei panni sporchi ma comunque pochi per lasciar pensare che ci fosse molto altro da vedere e conoscere.
Poi si è infortunato Scamacca e in fretta e furia lo ha preso l’Atalanta di Gasperini, pagandolo in tutto 25 milioni. Sei giorni dopo ha esordito in Supercoppa europea contro il Real Madrid. A quei tempi, ci sembrava semplicemente incredibile. Retegui pareva un miracolato, un venditore ambulante arrivato al momento giusto nel posto giusto, anzi era lui la merce, magari non di grande livello, ma che nella penuria del mercato attuale poteva essere venduta a prezzi senza senso.
E invece Retegui è andato oltre le aspettative, finendo per diventare capocannoniere del campionato con 25 gol (con 8 assist e altri 3 gol in Champions League). Un pericolo costante in area di rigore, abilissimo negli smarcamenti, nel posizionamento nei duelli coi difensori, capace di segnare con entrambi i piedi (10 di destro e 10 di sinistro, in campionato) e di testa (5).
Certo, il gioco dell’Atalanta aiutava - soprattutto, non aiutava il gioco del Genoa di Gilardino, una delle squadre più difensive del campionato 2023/24 - ma una trasformazione del genere non si poteva spiegare solo con il cambio di contesto. Oppure, seguendo quella logica, cosa sarebbe potuto diventare Retegui se lo avesse acquistato il Real Madrid? Benzema?
Anche statisticamente, guardando i radar di Statsbomb il salto dal Genoa all’Atalanta, sembra di parlare di due giocatori diversi.
Sarà quella mano bendata, ma il gol contro Israele ha davvero qualcosa che ricorda Karim The Dream. E se non è la mano fasciata allora è la postura della coordinazione, quella schiena ingobbita, piegata sul pallone per farlo restare giù, entro i limiti di altezza dettati dalla traversa; oppure proprio la qualità di quel tiro, secco, violento, di interno collo ma non propriamente a giro, una sassata scagliata con una fionda nell’occhio del gigante, sotto il sette, come si dice.
Non è un gol che avremmo immaginato come tipico di Mateo Retegui. E ancora meno saremmo stati in grado di immaginarlo dopo che Retegui stesso ha scelto di andare a giocare in Arabia Saudita, all’Al Quadysia insieme a Nacho. È passato all’incasso subito, 20 milioni a stagione a cui era difficile dire di no (con la speranza che dopo aver incassato i primi 20 magari si accontenti e torni in un campionato competitivo), ma che conseguenze avrebbe avuto sul suo sviluppo? Se salendo di livello sarebbe potuto migliorare ancora, chissà, trasferendosi là dove vanno quelli che hanno già dato tutto, quelli che hanno già visto i propri limiti, si sarebbe fermato? Sarebbe rimasto là dove era?
L’Italia sembra, in questo senso, il suo club principale, oggi. Il terreno di cultura dove il suo talento può prendere ancora un’altra forma. Da settembre, da quando è arrivato Gattuso e nei feromoni dei suoi compagni di squadra si poteva già sentire la paura di saltare il terzo mondiale di fila, Retegui ha segnato 5 gol in 6 partite, più tre assist. Si è infortunato Kean prima di quella decisiva con Israele ed è stato lui a toglierci le castagne dal fuoco con una doppietta. Sarebbe stato Donnarumma il migliore in campo, senza Retegui, ma non sarebbe bastato, tutti i portieri sono necessari ma non sufficienti.
Quasi esattamente un anno fa scrivevo che, qualsiasi cosa fosse successa, avremmo smesso di stupirci per Retegui. E invece io continuo a stupirmi anche per piccole cose come questo cambio di campo di sinistro qui sopra.
Ci voleva qualcuno che mettesse il piede davanti a quello di un difensore israeliano per prendersi il rigore. E che poi, dopo aver baciato la palla come da cliché, la sbattesse in porta con decisione. Ci voleva qualcuno che sradicasse la palla a un altro difensore israeliano e senza chiedere niente a nessuno depositasse il pallone sotto l’incrocio più lontano, fuori dalla portata del portiere. Ci voleva qualcuno in grado di chiudere la questione per manifesta superiorità, un giocatore che hanno le grandi squadre, come dovrebbe essere l’Italia, e che non hanno le altre, quelle come Israele.
Un giocatore, cioè, che facesse la differenza tra l’Italia che immaginiamo e quella che si è impantanata contro la Svezia nel 2017, contro la Svizzera e la Macedonia del Nord nel 2023. Solo noi sappiamo quanto ci voleva. E abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando ci siamo ricordati quanto è bello avere un giocatore del genere, che la fa sembrare facile questa cosa di vincere le partite.
Ne abbiamo avuti di giocatori del genere e ci stracciamo le vesti ripetendo ossessivamente che non ne abbiamo più: colpa degli oratori, dei costi delle scuole calcio, dei selezionatori delle giovanili, della mancanza di programmazione federale, forse della genetica, degli smartphone, di TikTok.
Chi lo avrebbe detto che quel giocatore sarebbe potuto essere Mateo Retegui?