
Quando al 74’ Mateo Pellegrino viene sostituito, il risultato tra Parma e Como è ancora in equilibrio sullo zero a zero. Quattro minuti più tardi arriverà la rete di Strefezza a interrompere la serie positiva, durata otto partite, degli uomini di Christian Chivu, che di fatto rimanda il discorso per la salvezza alle giornate successive, che si rivelano poco fortunate. Una sconfitta con l'Empoli e un pareggio al cardiopalma col Napoli che costringerà il Parma a giocarsi tutto all'ultima giornata.
Al di là di come andrà a finire, il lavoro dell'allenatore romeno può dirsi comunque soddisfacente. Il Parma ha effettivamente cambiato marcia dal suo arrivo dimostrando di essere una squadra coerente con l’identità costruita dall’arrivo del tecnico. E in questo progetto tattico Mateo Pellegrino si è inserito alla perfezione, come centravanti deputato a convertire le poche occasioni da gol che gli passano tra i piedi. È un lavoro ingrato, quello di questi centravanti: utilizzati principalmente per mansioni difensive, devono concentrare le proprie abilità su uno, due palloni al massimo, e quando è così i margini di manovra sono strettissimi.
Tra la fine di aprile e l'inizio di maggio, contro Lazio e Como, per esempio, Pellegrino ha fallito due occasioni sanguinose. Contro la squadra di Fabregas, al 43’, Ondrejka taglia l’area avversaria con un filtrante per Bonny. Il francese – che nelle ultime giornate ha un po’ perso il ruolo di riferimento centrale, preso proprio da Pellegrino, per diventare un uomo più associativo, più di costruzione – riceve palla spalle alla porta, la lavora bene, si trascina via due difensori e mette al centro un assist d’oro per Pellegrino, solo di fronte alla porta spalancata. Il suo sinistro, però, è sbilenco e termina alto.
All’Olimpico era successo qualcosa di simile, poco dopo l’inizio della ripresa. In quel caso, però, il Parma stava vincendo per 2-0, e lì per lì l’errore è finito per apparire meno imperdonabile (anche se poi la Lazio ha pareggiato nei minuti finali, quindi forse a quell'occasione i tifosi del Parma ci hanno ripensato).
Qua Mateo Pellegrino si fionda sulla traiettoria di uno sciagurato retropassaggio di Isaksen, anticipa Gila, punta la porta ma forse tocca il pallone una volta di troppo. Il tiro, affrettato anche per via del disturbo causato dalla rincorsa di Guendouzi, si infrange contro i guanti di Mandas.
Quello in diagonale, con la Lazio, sarebbe stato l’unico tiro in partita di Pellegrino, sostituito sette minuti più tardi da Chivu. L'argentino è uno di quegli attaccanti che può passare tanto tempo senza tirare: un solo tiro contro la Lazio, due (uno finito in rete) la settimana ancora precedente contro la Juventus. Nelle ultime due, contro Napoli ed Empoli, ne ha fatto complessivamente solo uno. Il massimo delle conclusioni nell’arco di una partita, da quando è arrivato in Serie A, lo ha registrato contro il Torino (quattro, di cui la metà trasformati in gol).
Pellegrino, che nonostante questo ha già segnato tre gol in Serie A in meno di 700 minuti di gioco, potrebbe quindi essere paragonato a un flâneur con le tasche piene di pragmatismo, che mentre va in scena la partita se ne sta ai margini, come un serpente velenoso rintanato sotto la roccia, come il gaucho nella pampa, come l’asador davanti alla sua griglia, intento a cucinare mentre gli altri chiacchierano, si innamorano, fanno a cazzotti.
Contro il Como, poi, Pellegrino ha avuto una seconda occasione. È il 6’ del secondo tempo, Ondrejka batte un corner spiovente e Pellegrino, al centro dell’area, si eleva di una trentina di centimetri più in alto di Cutrone. Il suo colpo di testa non è una frustata, è più un tocco di biliardo: la palla sbatte a terra, si impenna e si infrange contro la traversa.
Nel vedere quell’elevazione abbiamo realizzato che sì, magari gli abbiamo dato troppo peso, ma effettivamente nelle ultime settimane Mateo Pellegrino ci è un po’ esploso sotto il sedere, in quella maniera in cui non te ne accorgi neppure, per diventare una specie di archetipo, di operazione revival, una presenza fissa che ha strabordato dalla piacevole sorpresa.
ATTACCANTE D'ALTRI TEMPI
E tutto è cominciato quando ha demolito le velleità del Torino, l’8 marzo, un po' più di due mesi fa, rincorrendolo e raggiungendolo due volte per il 2-2 finale, una doppietta che se non fosse ingeneroso e troppo riduttivo definire paradigmatica del tipo di centravanti che è Pellegrino, ecco, la definiremmo paradigmatica del tipo di centravanti che è Pellegrino.
Nel primo gol, pochi minuti dopo il suo ingresso in campo, fa un passo verso il centro dell’area per intercettare un pallone vacante, che quasi gli rimbalza sul sinistro: si impenna leggermente, ed è esattamente quel che ci vuole per imbastire una mezza girata volante. Nel secondo si erige altissimo per colpire di testa, quasi di nuca, un pallone proveniente dal corner: la palla sbatte sulla traversa e si insacca.
Pellegrino è alto, massiccio, ha la fisicità del nueve d’antan. Il colpo di testa, poi, è un fondamentale che lo rappresenta tantissimo, che lo riconnette con il suo ruolo, una costante spesso magari non dimenticata ma di certo sottovalutata, nell’evoluzione dei compiti affidati a un attaccante. Tra gli attaccanti della Serie A solo l'imbattibile Djuric vince più duelli aerei di lui, che secondo i dati di Hudl StatsBomb ne vince 5.70 per 90 minuti.
Se il gol contro la Juventus, arrivato al primo minuto di recupero del primo tempo, c’è rimasto impresso c’è un perché, e quel perché è la ricorsività: il colpo di testa contro il Como, che non ha avuto gli stessi esiti, nondimeno nasce dagli stessi presupposti.
La Juventus, dicevamo: Valeri crossa dalla fascia sinistra, al centro dell’area juventina c’è Kelly che sta marcando a zona, tiene un occhio su Estévez e non si rende conto che alle sue spalle, come una palla demolitrice, si sta catapultando Pellegrino. Con le dovute proporzioni, e un certo upgrade temporale, a me ha fatto venire in mente Severino Varela, l’attaccante degli anni quaranta del Peñarol, e poi del Boca, che giocava indossando un berrettino calcato sulla testa, un tipo di cappello che sul Rio de la Plata chiamano boina e che è una specie di cuffia, bianca, immacolata. I tifosi bosteros avevano soprannominato Varela “la boina fantasma” per la capacità di materializzarsi lì dove non te l’aspettavi.
In “Stili di Gioco”, la nostra newsletter per abbonati, Daniele Manusia ha scritto che Pellegrino, in occasione di questo gol, fa pensare "ai più grandi".
Si vede benissimo che Pellegrino ha tutta la voglia di questo mondo di arrivare su quel pallone: prima che la sfera si stacchi dai piedi di Valeri ha già alzato il braccio, con il riflesso pavloviano del centravanti che si sta incuneando nell’area. Da qui, l’immedesimazione con un archetipo è istantanea, e va al di là del fatto che ci troviamo a Parma, dove un altro centravanti, anche lui argentino, che si chiamava Hernán Crespo, ha entusiasmato, colpito di testa, segnato. Il colpo di testa di Pellegrino è allo stesso tempo armonico e brutale. Ha una plasticità berniniana, è una frustata che produce un’eufonia celestiale. Chi ha un po’ seguito Pellegrino nel suo breve ma intenso passaggio per il Club Atlético Platense lo ha già visto segnare così, per esempio contro l’Independiente Rivadavia sul prato amico del Ciudad de Vicente López a Florida, nel cono bonaerense, casa del Calamar.
Si può opinare che le difese argentine siano meno attente di quelle italiane (sarebbe comunque una nota di merito per Pellegrino) (e in ogni caso in Italia non abbiamo neppure delle grosse chiome di fitolacca che spuntano fuori da dietro le tribune), ma com’è che diceva Adolfo Pedernera, grande centravanti de La Máquina degli Anni Cinquanta? «Quando vado allo stadio, tutto quello che vedo l’ho già visto. Anche se ci sono cose che prima vedevo, e adesso non vedo più». Si può interpretare come nostalgia, o come miglioramento intrinseco. Pellegrino rientra nella seconda interpretazione: non si vedono più attaccanti che staccano solo di testa, portare il numero nove sulle spalle richiede molte più responsabilità, più compiti, ma ciò non significa che un centravanti debba perdere di vista ciò per cui è stato forgiato, e cioè fare gol sempre, a ogni partita, come per espiare una specie di fardello primigenio.
Northrop Frye, nel suo Anatomia della critica, postula l’esistenza di cinque tipi di protagonista, topoi ricorrenti in ogni tipo di narrazione: il semidio, l’eroe, il leader, l’unsung hero e poi l’uomo comune, uno di noi. A fare la differenza è il rapporto che pone in relazione il protagonista con gli altri e con l’ambiente che lo circonda. In fin dei conti, il protagonista di ogni fabula è incaricato di sovvertire l’ordine iniziale. In termini calcistici, di fare gol. Pellegrino è uno di noi, eroe di quello che Frye chiama mondo mimetico basso. A fargli da corrazza non ha che il suo fisico, la sua attitudine, le sue vocazioni.
Che Pellegrino sia un nueve lo si vede da lontano un miglio: per come si muove nei fanghi malmostosi delle aree rivali, per come lotta, difende il pallone; ma anche per come, stanco di fare il flâneur, di guardare gli altri giocare, si abbassa sulla sua trequarti per fare a sportellate con il fisico – ci torniamo – per provare a far parte di qualcosa. Ricorda, per l’estrema aderenza a una maschera, un altro Mateo per come era al suo arrivo in Italia, che ha comunque saputo evolversi molto negli anni, cioè Retegui. Entrambi sono moderni – le capigliature da maranza o da pariolini di Piazza Euclide al mare a Sperlonga, "gli occhi grandi da Disney", dice Daniele Manusia – sì, ma in una maniera antica. Fanno le stesse cose che Pedernera, c’è da intendere, vedeva fare in campo ai tempi suoi. Hanno le stesse movenze, le stesse idee, intepretano il gioco come faceva Pedernera stesso.
Pellegrino, quando viene innescato sul lungo tratto, ha l’incedere dinoccolato dell’orso polare (non è un caso che uno dei suoi idoli, al Vélez, fosse Pratto), di un treno delle cordigliere. Contro l’Estudiantes, ai tempi del Platense, ha segnato un gol in cui nei trenta metri di campo che gli si sono spalancati di fronte ha toccato il pallone una sola volta, con il sinistro, e ha impiegato il resto del tempo a disporre il corpo, a coordinare i passi, per arrivare all’impatto con il destro, a incrociare sull’angolo opposto, col rischio che – come contro la Lazio – il Guendouzi platense lo inducesse all’errore.
È evidente che la sua comfort zone sia l’area. In una partita contro il Defensa y Justicia sciorina tutto il bignami del nueve. Prima arpiona il pallone spalle alla porta, lo difende, allarga sulla fascia sinistra e si va a piazzare al centro dell’area, ovviamente chiamando il pallone, che gli risponde come a un richiamo atavico e gli permette di chiudere con una schicchera di controbalzo di sinistro. Non è così che vorresti il centravanti della tua squadra? Non vorresti che tutti i nove chiudessero un’azione così, con quella prepotenza, con quella sfacciataggine? Non lo vorresti con la schiuma alla bocca, a lottare come un cane rabbioso in mezzo a un nugolo di avversari?
In quella partita, poi, ne ha segnato un secondo, di gol, quel tipo di gol che ti fa pensare agli attaccanti degli anni Novanta, a quando al centravanti non si chiedeva nient’altro che ricevere un pallone sporco, piantare ogni muscolo delle gambe e ogni osso del bacino a difesa della trincea, girarsi e trascinarsi dietro un difensore e poi un altro come in un’azione di sfondamento del rugby, ma con la discrezione pudica di non farsi cinturare, come avvolto da un campo magnetico.
Al Platense – l’esperienza finora più significativa tra i professionisti, prima del Parma s'intende – Pellegrino è stato allenato da Martín Palermo, forse ad oggi l’antecedente più somigliante al suo stile di gioco, molto più di Crespo. «Ho provato a dargli qualche consiglio», ha detto "el optimista del gol" «ma la cosa bella è che lui chiedeva in continuazione». Cosa gli chiedeva? Come si fa a diventare larghi il doppio di quanto già non si è per tenere i difensori distanti? «Mi ha fatto capire che serve sempre pensare alla mossa successiva», ha spiegato Pellegrino. «Essere pronti a raccogliere un’eventuale respinta del portiere». Palermo, a Pellegrino, ha insegnato la reattività. Essere al centro dell’area con la testa, più che con il corpo. E poi, ovviamente, con il corpo. Con la testa, stavolta fuor di metafora.
L’insegnante principale, va detto, Pellegrino lo ha comunque avuto in casa: suo padre Mauricio, ex difensore di Valencia (Mateo è nato là), Barcellona e Liverpool, poi collaboratore tecnico di Benítez ai tempi dell’Inter (dove quando aveva dieci anni Mateo ha giocato, nelle giovanili, imparando cosa significhi avere un tuo borsone, la tua divisa, il rispetto per la professionalità). Pellegrino padre ha guidato gli allenamenti, tra gli altri, anche di Christian Chivu, giunto sulla panchina del Parma qualche settimana dopo l’annuncio di Mateo. Si saranno sentiti, telefonicamente, Chivu e Pellegrino senior? Il padre avrà sponsorizzato il figlio?
IL SUO PERCORSO IN ARGENTINA
Crederci, poco ma sicuro, Mauricio ci crede tantissimo, in Mateo. È una specie di imperativo morale che ha ogni padre, qualcuno di più (Mauricio ha detto, una volta, che i figli lo hanno aiutato a maturare, l’hanno tirato fuori «da tante scemenze»), e in fondo Mateo è un bravo ragazzo, è iscritto al corso di Management Sportivo all’UADE (una specie di LUISS di Buenos Aires), legge, fa yoga, ed è forte.
È stato lui a suggerirgli di mettersi a giocare in attacco (Mateo, per emulazione, voleva diventare un difensore), ed è stato lui a spiegargli che per prima cosa, un attaccante, deve imparare a difendere il pallone. Ed è stato lo stesso Mauricio a portare Mateo in prima squadra, al Vélez, dopo un passaggio neppure così lungo per le giovanili (in cui è arrivato a sedici anni), in un momento non scontato, cioè quando a sedere sulla panchina del Fortín de Villa Luro c’era proprio lui.
Nella Reserva, la primavera per intenderci, Mateo era letteralmente fuori dimensione (anche e soprattutto fisicamente): dopo avergli visto segnare 23 gol in 36 partite, Mauricio ha pensato che fosse giusto, al di là di tutte le costrizioni etiche del caso, portare suo figlio tra i grandi.
Nel periodo della quarantena, chiusi in casa, hanno parlato lungamente delle responsabilità, della possibilità di deludersi a vicenda. Hanno messo le cose in chiaro, e il 1 aprile del 2021 Mauricio ha fatto esordire il figlio in una gara pure importante – uno spareggio contro il Banfield per l’accesso alla Copa Sudamericana, perso dal Vélez –, per poi rispedirlo tra le riserve per non regalargli la sensazione che essere cresciuto in una bolla gli fosse stato, in qualche modo, d'aiuto, un privilegio, e ogni tanto aggregarlo di nuovo alla prima squadra, per fargli capire «l’importanza di essere parte di un insieme».
L’esordio tra i titolari sarebbe arrivato un anno più tardi, in una gara di Copa Argentina contro il Cipoletti finita in goleada, in cui Mateo è stato buttato nella mischia all’ultimo minuto e non ha tradito le aspettative, segnando anche il suo primo gol tra i professionisti.
Venti giorni più tardi, dopo una striscia negativa piuttosto vistosa, Mauricio Pellegrino è stato esonerato dal Vélez e per Mateo è iniziato un purgatorio di riflesso: è stato ceduto in prestito all’Estudiantes, dove ha messo insieme pochi minuti, e poi al Platense, dove invece Palermo ha puntato su di lui e dove con il paraguayano Ronaldo Martínez ha dato vita a una coppia ben assemblata, fisico e svettante l’uno (quanto salta più in alto dell’avversario, qua?), rapido e funambolico l’altro, un tandem che ha portato il Calamar a giocarsi una finale di Copa Argentina con il Rosario Central.
Poteva essere la partita della consacrazione, se non fosse che in uno scontro durissimo (SPOILER: davvero duro, è questo) con Facundo Mallo, Pellegrino a inizio secondo tempo sia dovuto uscire dal campo in barella, trasportato d’urgenza all’ospedale di Santiago del Estero, e nei giorni successivi abbia dovuto essere operato per una frattura al setto nasale e allo zigomo sinistro. Di quello scontro Mateo non ricorda nulla. Quando si è risvegliato, ormai in ospedale, ha chiesto il risultato della partita. Poi ha preso il cellulare e ha osservato i suoi farsi scivolare la finale dalle mani.
La prima cosa che, si dice, va fatta dopo esser caduti da cavallo è tornare a cavalcare. Mateo sembra ormai aver superato il trauma, il colpo di testa è tornato ad essere – con più coraggio, con più cattiveria, con più brutale definitività – se non la sua signature move per eccellenza, almeno una delle principali.
In fondo è la convinzione con cui si intraprende la propria minuta missione nel mondo, come sottolinea Frye, che fa tutta la differenza.
Mateo Pellegrino è sbocciato in queste ultime settimane portandosi dietro tutto un codazzo di implicazioni ironiche, da calembour: Pellegrino nell’anno del Giubileo, ragazzo che ci mette la testa. All’Olimpico più che un pellegrino è sembrato un eremita. Ha contribuito a far fiorire una pletora di paragoni scomodi – Crespo, Palermo, Retegui – certo, ma ha soprattutto dimostrato di essere arrivato in Italia per restarci, per continuare – o riprendere – a vestire i panni di un ruolo, quello del nove, che nella sua versione primordiale fa sempre comodo a tutti. E che in quella forma continuerà a sopravvivere, anche se lo diamo sempre morto, almeno fino a quando ci saranno gli argentini a ricoprire questo ruolo.