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Il brutto mondo di Mateja Kezman
02 nov 2018
02 nov 2018
Ritratto di uno dei personaggi più controversi degli ultimi anni.
(articolo)
14 min
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Mateja Kežman, nonostante un pizzetto alquanto rivedibile, sorride. Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere il giorno più bello della sua vita. Con lui ci sono due nuovi compagni di squadra e un tecnico che ha deciso di puntare su di lui per quella che, almeno in quel momento, è la sfida più grande della sua carriera.

A differenza di Petr Cech e Arjen Robben, già bloccati da Claudio Ranieri, l’attaccante serbo è un acquisto voluto da José Mourinho. Siamo nel luglio del 2004, il portoghese è uno degli uomini più in vista del mondo del calcio: ha lasciato il Porto dopo aver vinto un’insperata Champions League, a un solo anno di distanza dal trionfo in Coppa Uefa. È decisamente la sua estate. Nella presentazione da nuovo tecnico del Chelsea si è appiccicato addosso quel soprannome che non si staccherà più: «Please don’t call me arrogant, but I’m European champion and I think I’m a special one». Da lì a qualche settimana, un’altra frase entrata nell’immaginario collettivo: «Non mi preoccupa la pressione. Se avessi voluto un lavoro facile, sarei rimasto al Porto. Una bella sedia blu, la Champions League appena vinta, Dio, e dopo Dio, io».

Mateja Kežman ha diversi motivi per sorridere. Ha firmato con il club più ambizioso del momento, con il PSV Eindhoven ha segnato 105 gol in 122 partite e nella sua esperienza inglese potrà contare sull’amicizia di Arjen Robben: il feeling in campo, con la maglia del PSV, era talmente forte da garantirgli i soprannomi di Batman e Robin. Non può immaginare che la sua carriera stia per prendere la china del fallimento. L’esperienza con i Blues è un flop, all’Atletico Madrid non si rialza. Ritrova sprazzi del Mateja migliore con la maglia del Fenerbahçe, in un ambiente così rovente da scaldargli il cuore. Ma con il Paris Saint-Germain è un altro fallimento, seguito dalle esperienze infruttuose e dal gusto un po’ alternativo con le maglie di Zenit San Pietroburgo, South China e Bate Borisov. Si ritira a soli 32 anni dopo una carriera da giramondo, perché sa di potersi ritagliare un altro ruolo. Diventa d.s. del Vojvodina, quindi uno dei procuratori rampanti del calcio europeo. Più di ogni altra cosa, però, Mateja Kežman è un uomo complicato.

Il calciatore

Mateja nasce a Belgrado ed è figlio di un calciatore, Zlatko. La sua infanzia rischia di essere inevitabilmente pilotata dai trasferimenti del padre. Per sua fortuna, il papà trascorre buona parte della sua carriera con la maglia dello Zemun, ed è lì che il piccolo Kežman muove i primi passi da calciatore, entrando nelle giovanili a soli sette anni. Il racconto che fa del suo primo giorno da piccolo giocatore è indicativo del rapporto padre-figlio: «Mi ha portato al campo e si è limitato a dirmi: “Quello è il tuo allenatore, qui è dove giocherai”. E mi ha lasciato lì, da solo».

Negli anni con lo Zemun, Kežman non sembra un bambino prodigio. Mentre le grandi promesse serbe sono abituate a confluire verso Belgrado per sbocciare, Mateja si ritrova a lasciare il principale comune della capitale a sedici anni per volare a Pirot, al confine con la Bulgaria. Lo convince Mile Tomic, che lavorava allo Zemun prima di accasarsi al Pirot.

«Lì ho sentito per la prima volta un po’ di popolarità. Pirot è una piccola città, lì il calcio è tutto. Abbiamo giocato in seconda divisione, lottando con il Pristina per la promozione». Il giovane Kežman continua a peregrinare nella periferia calcistica serba: seguono Loznica e Smederevo. L’allenatore lo segnala a Dragan Džajić, una leggenda della Stella Rossa. Ma Mateja tifa Partizan, e spinge per andare nella sua squadra del cuore. Ci riesce: nel 1998 veste finalmente il bianconero. Ha soltanto 19 anni e la sua personalità è già formata, segnata dalla decisione di andare via di casa facendo il percorso contrario rispetto ai talenti della sua età. È un Partizan in rifondazione e i giovani bianconeri hanno la chance di mettersi in mostra in Europa grazie alla Coppa delle Coppe, eliminando il Newcastle a sorpresa per poi venire eliminati dalla Lazio, trafitti in maniera letale da Salas e da un simbolo della Stella Rossa come Dejan Stankovic, che esulta polemicamente contro i rivali.

I due anni di Partizan sono la palestra giusta per Kežman, cinque gol nei derby lo proiettano in vetta alle classifiche dell’uomo più odiato dai tifosi della Stella Rossa. Odio che diventa nazionalpopolare quando agli Europei del 2000 entra nella storia dal lato sbagliato. Vujadin Boskov lo inserisce in una Jugoslavia infarcita di monumenti, da Mihajlovic a Stojkovic, passando per i vari Jugovic e Mijatovic. Contro la Norvegia entra al posto di quest’ultimo e si fa cacciare dopo soli 37 secondi.

È ovviamente il rosso più rapido della storia degli Europei.

È un corto circuito mentale che parte da lontano, dal primo match dei gironi, contro la Slovenia. «Boskov mi aveva detto che avrei giocato dall'inizio. A tre ore dal match mi si avvicina e mi dice che che avrebbe preferito un giocatore più esperto, cose così. Capisco, nessun problema. Con la Slovenia entro e cambio la partita. Tocca alla Norvegia, e Boskov mi dice che mi vede in coppia con Savo Milosevic.

La mattina prima del match, stesso scenario. Mi si avvicina, ride, mi abbraccia. Nel momento in cui mi abbraccia, capisco immediatamente. Ho sofferto in silenzio. Mi ha fatto scaldare dal decimo minuto, sono entrato dopo l'ottantesimo, sull'1-0 per noi, in una partita brutta, tesa, sporca. Entro deciso a mostrare al mondo quello che posso fare in tre minuti, ma sono spinto verso il male, e faccio quello che tutti sanno. Da lì in poi, un buco nero. Non ricordo nulla, dall'entrata al ritorno in albergo, non so cosa sia successo. Rivedere quell'episodio è affascinante, ho condensato tutto in trenta secondi. Sono entrato, ho recuperato palla, ho fatto un cross, poi l'entrata su Mykland. Per me è stato un trauma, un dramma, un sogno che si sgretola. Ero in campo con la Nazionale, tutto quello che sognavo da quando ero un bambino di dieci anni. Volevo soltanto stupire, ma non ci sono riuscito a causa della mia stupidità».

Soltanto un anno prima dell’Europeo, le bombe avevano iniziato a venir giù sulla testa di Mateja e di tutta Belgrado. «Ero lì, con la mia famiglia, a volte dovevamo rimanere sdraiati sul pavimento e restarci per diverse ore, anche per un giorno intero. È stata un’esperienza durissima, che ti rende più forte. Cementa il tuo rapporto con le altre persone, ma spero di non vivere mai più nulla di simile». La festa per il suo ventesimo compleanno viene interrotta dalle bombe. «Avevamo le finestre chiuse e la musica molto alta. Sono uscito un attimo e ho iniziato a sentire il rumore delle bombe. Abbiamo continuato come se nulla fosse». La sua carriera in Nazionale finisce nel 2006 con un’altra espulsione, contro l’Argentina, in un 6-0 umiliante per quella che, nel frattempo, è diventata la nazionale di Serbia e Montenegro.

Seguono il boom con il PSV, il flop con il Chelsea, la parziale rinascita con il Fenerbahçe. Un trasferimento complesso, inizialmente osteggiato da Kežman, che però a Istanbul torna a sentirsi amato. «In Turchia c’è il calcio, poi ci sono dieci posti vuoti, poi arrivano la politica e il basket. Hanno dodici giornali che parlano di calcio, ti seguono 24 ore al giorno, ti fanno sentire come una star di Hollywood. Ho vissuto due anni fantastici, cogliendo solamente i lati positivi di quella esperienze. Zico è stato come un padre. Ha creato un grande gruppo, ci ha dato libertà e ha portato molti brasiliani in rosa. Ricordo ancora le parole di Stankovic quando venne a giocare contro di noi con l’Inter: “Cazzo Mateja, non posso credere che giochiate così, sembrate il Barcellona!”, mi disse».

Il legame con i tifosi del Fener diventa fortissimo: «Ho sempre avuto bisogno di un clima del genere per poter rendere al meglio». Finisce male, perché si fa convincere da Makelele ad andare al PSG. Ha altri due anni di contratto, ingaggia una battaglia con il presidente del Fenerbahçe e alla fine viene ceduto. Il rapporto con Le Guen è pessimo, Kežman diventa il nemico numero uno dei tifosi quando, richiamato in panchina durante un match di Coppa di Lega contro il Bordeaux, si toglie la maglia e la scaglia in campo ancora prima di uscire. «Ero fuori di me, e ho scelto il modo peggiore per farlo notare. Me ne andai dalla Francia per un mese per evitare problemi con i tifosi».

La carriera sta per finire, uno degli ultimi atti è una surreale esperienza al Bate Borisov. «Mi sembrava di essere tornato ai tempi di Slobodan Milosevic. Il traffico si bloccava quando Lukashenko usciva di casa, alle nove e mezza, e alla sera quando ritornava. La gente ha paura, non ti parla, si rifiuta di darti informazioni per il terrore di sentirsi compromessa».

L’uomo

Nella vita di Kežman, sin da ragazzo, recita un ruolo importante la religione. Un aspetto che diventa fondamentale intorno ai 19 anni, più o meno in concomitanza con l’acuirsi della guerra a Belgrado. «Sono cresciuto greco ortodosso, la religione mi mostra la via da seguire nella vita». Quando si ritrova in Olanda, Mateja deve coltivare la sua fede ma sente troppi occhi addosso. Scopre l’esistenza di un prete a Dortmund e non ha problemi a superare il confine per andare a pregare in silenzio: due ore di macchina per tornare a sentirsi una persona normale.

«I primi tempi al PSV sono stati difficili, venivo di frequente provocato negli spogliatoi ma ho subito fatto capire che ero un ragazzo con una forte personalità. Andavo spesso a Dortmund a pregare, sono diventato più calmo attraverso la fede. La religione mi ha aiutato ad affrontare alcuni momenti difficili nel calcio, i giocatori entrano spesso in grandi crisi psicologiche perché non hanno la forza necessaria per superarle. Non hanno nessuno a cui rivolgersi, le loro grida di aiuto finiscono spesso inascoltate. Io avevo il Signore a spingermi verso la giusta direzione».

La religione è uno dei motivi che, inizialmente, lo induce a rifiutare il Fener. Una trattativa lunga, andata in porto soltanto grazie all’insistenza dei dirigenti turchi. «Avevo davvero molti pregiudizi sulla Turchia, poi ho trovato tanti sudamericani come Alex e Deivid. In rosa c’erano molti giocatori musulmani e ho rispettato il Ramadan, cercando di digiunare insieme a loro. A Istanbul ho scovato due o tre posti bellissimi per pregare, delle chiese che sono rimaste intatte per secoli. Fortunatamente, durante la mia carriera, non mi sono mai trovato a vivere situazioni estreme, in cui avevo bisogno di una pace spirituale forte. Al Fenerbahçe scendevo in campo con l’immagine di Gesù sotto la maglia, si è vista spesso dopo le esultanze».

I tatuaggi sembrano essere il suo unico strappo alla regola, ma sono tutti a tema religioso. Un’immagine di Gesù, la scritta «Only God can judge me», alcune frasi tratte dai testi di Elder Tadej, uno dei riferimenti della Chiesa serba ortodossa. Una fede così forte da indurlo, in diverse interviste, a manifestare la voglia di diventare monaco: «Da giovane, quando visitavo i monasteri, mi sentivo triste per i monaci. Ora li invidio, il loro è il sacrificio massimo per il Signore. Vivere in questo mondo è difficile, cerco di pensare il più possibile al Signore, che mi dà la forza di conoscere la verità ed essere al fianco di chi lo serve. Tante persone che conosco sono dipendenti dall’alcol, dalle sigarette, dalle donne. La mia unica passione strana sono i tatuaggi, ma con l’aiuto di Dio sta calando pian piano».

Una volta lasciato il calcio giocato, Kežman riceve dal Vojvodina la proposta di diventare direttore sportivo. La accetta di buon grado, ed è proprio in queste vesti che pronuncia una delle frasi che lo riportano tristemente sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. In occasione del Gay Pride ad Amsterdam, a Kežman viene chiesto un parere sulla decisione della Federcalcio olandese di mandare Louis van Gaal, Ronald de Boer e Pierre van Hooijdonk come delegazione in occasione della parata. La risposta del serbo è durissima: «Non sta a me dire se abbiano fatto un errore, ma se mi chiedete qualcosa sull’omosessualità, posso dire che è una cosa che mi crea problemi. È un disturbo che non dovrebbe essere sponsorizzato, se la Federcalcio serba avesse fatto una cosa del genere non l’avrei apprezzata. Purtroppo gli olandesi si stanno allontanando da Cristo e stanno viaggiando verso il collasso spirituale».

È una dichiarazione che pare provenire dal Medioevo, e con il passare degli anni Kežman non ha affatto aggiustato il tiro. Nel 2017, in una lunga intervista rilasciata a Elf Voetbal, ha confermato il suo punto di vista: «Dio ha creato l’uomo e la donna in modo che possano riprodursi, se esistessero solamente i gay la società non andrebbe avanti. Si può essere omosessuali, ma non mi piace che siano sotto i riflettori, ballando e baciandosi durante quelle parate. Vengo da un Paese conservatore e devo constatare che in Olanda ci si allontana sempre più dalla fede».

Il procuratore

La parentesi al Vojvodina dura poco. Kežman non gradisce le responsabilità del ruolo di direttore sportivo, sente la pressione e non accetta di partecipare a quelli che definisce giochi politici tra società, calciatori e agenti. Diventa procuratore e inizia a scovare talenti nei Balcani, riuscendo a ritagliarsi una bella fetta di popolarità grazie a Sergej Milinkovic-Savic.

«Sono principalmente un amico di questi ragazzi» ha raccontato a Vice Serbia «e delle loro famiglie, sono stato fortunato ad avere un padre che apparteneva al mondo del calcio e che mi ha fatto da agente, so quanto fosse importante per me avere qualcuno pronto a prendersi cura delle mie cose e non a sbattermi in un posto soltanto per prendere delle commissioni. Ho conosciuto Sergej quando era nelle giovanili del Vojvodina, all’epoca nemmeno giocava».

Kežman sta lentamente diventando un agente rispettato, e in quanto tale non sono mancate le polemiche nei suoi confronti. La più grande riguarda l’ex c.t. della Serbia, Slavoljub Muslin, che lo ha accusato di essere l’artefice del suo addio alla nazionale. Il motivo è la mancata convocazione di Milinkovic-Savic nelle fasi di qualificazione al Mondiale del 2018. «Non ho convocato Milinkovic perché in quel momento era logico optare per la coppia Tadic-Ljajic, rifarei la stessa scelta. […] Kežman ha guidato la stampa serba contro di me, discuteva spesso con alcuni ex giocatori per reclamare una convocazione di Sergej, penso voglia soltanto fare soldi con il suo trasferimento».

Accuse che Kežman ha respinto nettamente, dopo aver invitato il talento della Lazio ad attendere la chiamata della Serbia nonostante le pressioni effettuate dal Montenegro nei suoi confronti: «Il suo sogno è sempre stato quello di giocare per la Serbia, come per altri sette milioni di serbi. Anche se sono stato chiamato dal Montenegro, è vergognoso discutere su dove voglia giocare Sergej, che ha già dimostrato patriottismo. Non vedo problemi» dichiarava nel settembre 2017, poche settimane prima dell’addio del c.t. «a parte l’allenatore che non lo convoca, e spero che questo sarà risolto».

Da procuratore, Kežman si gode la vita. «Questo lavoro mi permette di non essere schiavo del calcio, di avere una vita normale. Sono spesso in viaggio, ma altrettanto spesso posso andare in vacanza. Amo lo sci, il kitesurf, tutti sport che non potevo praticare da calciatore per il rischio degli infortuni. Ora posso godermi tutto questo e mi sento libero, in estate vado spesso in Montenegro con amici e parenti, è fantastico per il kite. Non devo andare in un ufficio, posso lavorare al telefono, passare quattro mesi dell’anno al mare e quattro in montagna, mi godo la vita». Il suo profilo Instagram racconta le avventure di un backpacker di lusso. Si va dal tavolino pieghevole appoggiato su una scogliera per godersi il panorama con Tara, la sua nuova compagna di vita, a delle bevute in spiaggia in compagnia di tipi dall’aspetto poco raccomandabile; dalle foto in un ambiente bucolico con un trattore sullo sfondo che fa molto Stanis La Rochelle a uno dei suoi momenti di lavoro, all’insegna del mottoNo shirt, no shoes, no problem.

Nelle ultime settimane, Kežman è finito sulle prime pagine dei giornali serbi. Il suo nome è coinvolto nello scandalo che sta travolgendo il calcio belga, con un occhio puntato sulle transazioni che riguardano i passaggi di Milinkovic-Savic dal Vojvodina al Genk, di Adam Marusic dal Vozdovac al Kortrijk e quindi all’Ostenda, e dell’altro Milinkovic, Vanja, dal Lechia Danzica al Torino.

L’accusa sarebbe quella di riciclaggio di denaro. Sul suo conto corrono voci incontrollabili: c’è chi sostiene sia sparito nel nulla – un paradosso per chi, ai tempi del PSV, dovette ringraziare la polizia olandese per aver sventato il piano di alcuni delinquenti che intendevano rapirlo per chiedere un corposo riscatto – e chi immagina addirittura un’imminente mossa degli inquirenti nei confronti di Milinkovic-Savic, che potrebbe essere ascoltato per ulteriori dettagli sul suo trasferimento in Belgio.

Le voci sulla sua sparizione, in realtà, sono abbastanza fuori contesto. Mentre sui giornali serbi fioccavano articoli sulla sua misteriosa uscita di scena, Kežman accompagnava il proprio avvocato a un’udienza per una causa intentata dall’ex moglie del centravanti, Emilija, che vanta un credito di 27.000 euro nei confronti di Mateja per alimenti non pagati. La verità su una vicenda scabrosa come quella dello scandalo in Belgio arriverà dalle indagini, non resta che aspettare.

Forse, in questo momento, il susseguirsi di voci rappresenta una botta di adrenalina come un’altra per Kežman, che oggi non ha più il pizzetto ma una barba brizzolata, indice di una saggezza e di una tranquillità forse non ancora raggiunte del tutto con il passare degli anni. «La scarica di adrenalina è la cosa che mi manca maggiormente da quando mi sono ritirato. Durante una partita, è sempre dietro l’angolo».

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