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Cesare Alemanni
MasterChiefs: La rivincita di Kansas City
08 nov 2013
08 nov 2013
Come un quarterback bistrattato, un allenatore in caduta libera, infortuni, omicidi, suicidi, overdose di eroina, tristezza e sfiga hanno creato la squadra col miglior record nella NFL.
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Cesare Alemanni
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Per come funziona la mentalità insieme granitica e ipercinetica — tra forti tradizioni e tecnologie avanzatissime — che detta il peso a tutto ciò che gravita in orbita al football americano, ci sono solo due cose peggiori di non vincere nel presente: la prima è non averlo mai fatto nel passato, la seconda è essere circondati da un’aura di sfiga. Volendo stilare una classifica basata sulla completa e tragicomica assenza sia di risultati sia di appeal è indubbio che in questo momento — un “momento” che, escluse un paio di stagioni, si protrae ormai da dieci anni — i primatisti incontrastati siano i Jacksonville Jaguars: una franchigia così disgraziata che si discute di spostarla a Londra per poterla ignorare più facilmente. Alle spalle dei giaguari insegue a debita distanza un gruppetto che include pesi massimi dell’anonimato quali Tennessee Titans (domenica c’è il derby dello sbadiglio proprio coi Jaguars), San Diego Chargers, Tampa Bay Buccaneers, Atlanta Falcons, Miami Dolphins e alcuni altri che non nominerò dato che non rientrano tra le mie indifferenze più aspre. La ricetta per occupare i vertici di questo elenco è meno semplice di quanto si possa pensare. Non è infatti sufficiente perdere spesso. È necessario anche perdere male, patire una carestia di giocatori carismatici e rappresentare città poco attraenti o troppo improbabili. Per riuscire a eccellere costantemente come i Jaguars bisogna infine anche poter vantare un logo pacchiano, un pubblico apatico e un quarterback LOLlabilesenza alcuna pietà . Fino a due anni fa i Kansas City Chiefs soddisfacevano tutti i requisiti citati per posizionarsi ai vertici di questa lista: perdenti spesso, noiosi quasi sempre, malinconici per vocazione. Oggi vantano il miglior record (9V - 0P) di tutto il campionato e sono in assoluto la squadra rivelazione di questa prima metà di stagione. Per fare un paragone con l’attualità calcistica, in questo momento i Chiefs sono un po’ come la Roma di Garcia. O meglio sarebbero come la Roma di Garcia se — anziché avere comunque schierato Totti, De Rossi e diversi altri campioni negli ultimi anni e rappresentare una delle città più belle del mondo — fino all’altro ieri l’A.S. Roma avesse giocato a Verbania con i titolari del Chievo. Immettendo in Google la ricerca “squadre più noiose della NFL”, incrostato nelle tubature dell’Internet e di quel “meraviglioso” ricettacolo di umanità che è Yahoo! Answers, ho trovato il commento di un tifoso che sintetizza come meglio non si potrebbe come venivano considerati i Chiefs prima di questa stagione. «A volte mi dimentico che i Chiefs giochino nella NFL. È un po’ come quando ti dimentichi dell’esistenza dell’Idaho.» Risale a quattro anni fa.

La squadra di Kansas City era uno dei più perfetti sinonimi di insignificante che la NFL avesse da offrire, malgrado appena due anni prima si fosse qualificata per i playoff, essenzialmente grazie alle prestazioni extralarge di Jamaal Charles: il giovane running back di Port Arthur che guadagna più di 6 yard ogni volta che gli mettono in mano una palla ovale (per rendere l’idea: 4,5 è considerato un’ottima media). L’accesso a quei playoff sembrava l’inizio di qualcosa di molto promettente e invece era solo il preludio all’ennesima beffa. Stagione 2011, seconda partita di regular season: i Chiefs giocano in casa dei Detroit Lions e sono passati solo sette minuti nel primo tempo. Palla a Charles in una situazione di terzo e quattro: Jamaal cerca di tagliare l’angolo sulla sideline destra trovandolo però presidiato dal cornerback Chris Houston che lo spinge fuori dal campo e, in un estremo tentativo di lanciarsi il più possibile in avanti per guadagnare il primo down, Charles compie una specie di allungo da ballerino che si conclude rovinosamente sui piedi della mascotte dei Lions. La ripresa successiva lo inquadra mentre si contorce dal dolore e si tiene in mano il ginocchio sinistro a pochi metri dai tifosi di casa che immortalano la scena con i loro iPhone. Il verdetto dei medici arriva solo il giorno dopo: crociato anteriore lacerato e stagione finita sia per lui sia per i Chiefs che chiudono con l’alquanto abituale e mediocre bilancio di 7 vittorie e 9 sconfitte. http://www.youtube.com/watch?v=FMEDzIsG-KQ

L'infortunio di Jamaal.

Completata la riabilitazione, Jaamal Charles è tornato in tempo per riprendere il suo posto nel backfield all’inizio del 2012 e, almeno in teoria, il suo rientro avrebbe dovuto garantire un certo miglioramento rispetto allo smilzo bottino dell’anno precedente. Purtroppo, una volta ritrovato il loro running back, a livello offensivo i Chiefs hanno perso di vista tutto il resto e, sconfitta dopo sconfitta, la stagione 2012-2013 si è trasformata in un incubo a occhi aperti per i tifosi; i quali verso la fine hanno persino costituito l’associazione “Save the Chiefs” e pagato di tasca loro per far sorvolare l’Arrowhead Stadium da uno striscione con scritto «Ridateci la speranza. Licenziate Pioli». Pioli è Scott Pioli, General Manager dei Chiefs dal 2009. Arrivato con tutti gli onori dai New England Patriots, i più vincenti del ventunesimo secolo, dove faceva parte dello staff degli allenatori, nel giro di tre anni Pioli ha rivoltato i Chiefs come un calzino, ma non per il verso giusto. In particolare, il rendimento del suo acquisto di punta, il quarterback Matt Cassel — esploso proprio ai Patriots nel 2008 come sostituto dell’infortunato Tom Brady, — dopo un primo biennio incoraggiante è progressivamente degradato (anche a causa di una frattura alla mano che usa per lanciare, da cui non ha mai del tutto recuperato) da “discutibile” a “pessimo”. Il tutto sotto lo sguardo impotente di Romeo Crennel, head coah in pectore dei Chiefs a partire dall’ultimo scorcio della regular season 2011. Un uomo che, durante una conferenza stampa dopo-partita, al taccuino di quel giornalista che gli domandava perché aveva scelto di “usare” Jaamal Charles (ovvero l’unica cosa che funzionava ancora nell’attacco di KC) solo 5 volte in tutto l’incontro ha consegnato questa risposta: «A dire il vero non lo so nemmeno io». In queste condizioni Kansas City è arrivata al primo dicembre dell’anno scorso con un ruolino di marcia di 1 vittoria e 11 sconfitte — il peggiore della lega in compagnia ovviamente dei Jaguars — e diverse voci del guinness dei primati dell’intera NFL obliterate in negativo. Il primo dicembre 2012 cadeva di sabato, il giorno dopo ci sarebbe stata la sfida casalinga contro i Carolina Panthers di Cam Newton. Quella mattina Jovan Belcher — classe 1987, inside linebacker dei Chiefs dal 2009 con un season high di 88 tackle nel 2011 — è stato il primo a presentarsi agli allenamenti per la rifinitura pre-partita: erano passate da poco le otto, Belcher è sceso dalla sua Bentley coperto di sangue e con una pistola in mano. Dieci minuti prima, sotto lo sguardo pietrificato di sua madre, aveva messo nove proiettili in corpo a Kasandra Perkins, uccidendo la ragazza che tre mesi prima aveva partorito sua figlia. Una volta parcheggiata l’auto di fronte al centro sportivo dei Chiefs, le prime persone che ha incontrato sono state proprio Pioli e Crennel; a entrambi ha subito confessato quello che aveva appena fatto e quello che aveva intenzione di fare. Dieci minuti dopo una pozza di sangue si allungava sotto la sagoma della Bentley: Belcher si era sparato un colpo mortale alla tempia un attimo dopo aver sentito avvicinarsi le sirene della polizia. Ha usato le sue ultime parole per ringraziare i suoi due “boss” — che avevano tentato invano di dissuaderlo — e per pregarli di “prendersi cura di sua figlia”. Il raptus omicida di Belcher è stato insieme l’apice e l’appendice, mostruoso e inconcepibile, della stagione 2012 dei Chiefs. Il giorno dopo l’accaduto KC ha vinto in uno stadio semi-ammutolito la partita contro i Panthers, la seconda e anche l’ultima vittoria di un’annata che a quel punto si poteva definire tragica decisamente troppo al di là del semplice piano sportivo. Un mese più tardi, a regular season conclusa e in un clima da stress post-traumatico, Crennell e Pioli sono stati messi alla porta e i Chiefs si sono così trovati privi in un solo colpo sia dell’allenatore sia del General Manager.

L’unica nota positiva a margine dello scorso anno — un dato quasi incredibile per una squadra che ha chiuso con un record di 2 vittorie e 14 sconfitte — è rappresentata dal fatto che, nonostante tutto, i Chiefs sono riusciti a mandare ben sei giocatori al Pro-Bowl (l’All Star Game della NFL). Oltre all’ovvio Jaamal Charles, che nel piattume generale dell’attacco di Kansas aveva comunque messo insieme la terza stagione consecutiva sopra le 1000 yard, e al punter Dustin Colquitt, quattro di quei giocatori provenivano dal defensive team e addirittura ben tre di essi facevano parte del pacchetto da quattro linebacker della difesa 3-4 schierata da Crennel (il quarto era proprio Jovan Belcher): ovvero il linebacker centrale Derrick Johnson e soprattutto i due esterni Tamba Hali e Justin Houston — una coppia di pass rusher da 19 sack stagionali in due. Un dato che de facto faceva dei Chiefs la squadra con più all-star linebacker di tutta la NFL. L’anno scorso Romeo Crennel era riuscito a tirare fuori solo il minimo indispensabile da tanto talento difensivo, giocando di preferenza una 3-4 piuttosto coperta e conservativa, mentre in questa stagione il nuovo defensive coordinator Bob Sutton, 62 anni ex New York Jets, sta utilizzando il materiale eccellente che ha per le mani senza inseguire un solo rigido credo tattico ma adattando alle caratteristiche dell’avversario di turno una difesa comunque in generale più propensa al playmaking e all’asfissia dell’attacco opposto. Il risultato è che al momento i KC hanno concesso meno punti a partita di tutti (12,3) e guidano la classifica dei sack con 36 (20 in 9 partite — già uno in più dell’intera scorsa stagione — prodotti dalla coppia Hali/Houston), una media da record NFL di sempre. L’uomo che ha voluto Sutton come defensive coordinator è lo stesso che il 4 gennaio 2013 è stato ufficializzato come nuovo head-coach dei Chiefs, ovvero Andy Reid. Con una mole imponente e i baffi da tricheco, Reid ha preso posto sulla sideline dell’Arrowhead Stadium nel momento forse più difficile della sua carriera e della sua vita personale. Dopo quattordici anni — durante i quali ha scalato le gerarchie interne ai Philadelphia Eagles fino a diventarne head coach plenipotenziario, portandoli ai playoff nove volte e al Super Bowl una (persa contro i Patriors), il 30 dicembre 2012, al termine della seconda stagione consecutiva sotto il 50% di vittorie — Reid è stato messo alla porta dagli Eagles insieme alla sua west-coast offense: atto conclusivo di un biennio in cui ogni sua singola scelta dentro e fuori dal gridiron finiva al centro di polemiche infinite. Quattro mesi prima Reid aveva perso un figlio, Britt, per overdose da eroina. In un certo senso, entrambi sprofondati dentro un baratro sia umano sia sportivo e devastati nel morale sia dentro sia fuori dal campo, Reid e i Chiefs sembravano fatti per trovarsi e per provare a venirne fuori insieme. È stato uno dei migliori amici che Reid ha nel football, l’ex coach campione del mondo 1999 coi Rams, Dick Vermeil (che ha allenato i Chiefs per cinque stagioni dal 2001 al 2005), a suggerirgli di ripartire da Kansas dove c’era da fare quello che Reid aveva dimostrato di sapere fare meglio nei suoi primi anni agli Eagles, ovvero ricostruire. Ed è stato sempre Vermeil a consigliare ai Chiefs di puntare su Andy Reid, un allenatore con scorte sovrabbondanti proprio delle due doti che più mancavano a Crennel, ovvero carisma e ambizione.

Nonostante alcune buone premesse, come appunto un talento difensivo non trascurabile, all’inizio di questa stagione nessuno poteva prevedere un processo di ricostruzione così rapido, né tantomeno che dopo nove partite i Chiefs sarebbero stati l’unica squadra imbattuta della NFL e pressoché al 100% già sicuri di andare ai playoff. Forse perché quasi tutti abbiamo sottovalutato il casting dell’ultimo attore indispensabile — il più tagliato per il ruolo e senza dubbio il migliore che il mercato avesse da offrire — per il film sul genere “rivincita dei reietti” che i Kansas City Chiefs stavano preparandosi a girare in questa regular season: il quarterback Alex Smith. A differenza di quella vissuta dalla sua nuova squadra e dal suo nuovo allenatore, l’annata 2012 di Smith — 29 anni e una vaghissima somiglianza con Ryan Gosling — più che della tragedia ha avuto i toni della farsa. Alla sua ottava stagione NFL e praticamente per la prima volta in carriera, Smith aveva iniziato la regular season 2012 da QB titolare indiscusso dei San Francisco 49ers potendo contare sulla completa fiducia del suo staff tecnico, sulla scorta di una buona annata precedente in cui si era finalmente scrollato di dosso l’etichetta di promessa incompiuta (è stato prima scelta assoluta nel 2005). E, a dirla tutta, le cose gli stavano andando alla grande. Nelle prime dieci partite Alex aveva messo in fila statistiche da Pro-Bowl finché, lanciando per un touchdown contro i St Louis Rams, non è stato colpito duramente e ha dovuto lasciare il terreno di gioco per una leggera commozione cerebrale. Per sua sfortuna il suo sostituto, il giovane sophomore Colin Kaepernick, è immediatamente entrato in modalità Willy Beaman e, con due prestazioni maiuscole consecutive, ha di fatto occluso a Smith la vista del campo da lì a sempre. Per tutta la seconda metà della stagione Smith è rimasto seduto in panchina a guardare Kaepernick che, di partita in partita, di touchdown in touchdown, di copertina in copertina, si conquistava la fiducia del suo allenatore, dei suoi compagni, del suo pubblico, prendendosi in due mesi quello per cui lui aveva impiegato otto anni. Alla fine Kaepernick ha addirittura portato i 49ers al Super Bowl contro i Ravens, dove ha giocato una ventina di minuti eccezionali coincisi col tentativo di rimonta della squadra, e se i 49ers avessero vinto probabilmente sarebbe stato eletto MVP. E mentre succedeva tutto ciò questa era più o meno la faccia di Smith. Erano anni, già quando allenava a Philadelphia e poteva contare su un’élite quarterback come Michael Vick, che Andy Reid provava a convincere Smith a trasferirsi “da lui”. I 49ers però gli avevano sempre fatto trovare la strada sbarrata. Con l’esplosione di Kaepernick le cose sono ovviamente cambiate e quando Reid ha bussato alla porta dei Niners offrendo la seconda scelta dell’imminente draft, a San Francisco sono stati molto lieti di aprire e di lasciare andare Smith che ha così portato il suo broncio a Kansas, dove lo aspettava un posto assicurato da titolare. Il classico “Win-Win” anche se, a dirla proprio tutta, per Smith passare dai vice-campioni agli ultimi dell’anno precedente, sulla carta avrebbe potuto rappresentare quel genere di retrocessione che non promette niente di buono per la carriera di un quarterback, specie di un quarterback appena scalzato nelle gerarchie interne della squadra di provenienza.

La verità però è che Smith sembra nato per la west coast offense che gioca Reid, in cui il quarterback è prima di tutto un «game manager» (e sto citando un’espressione usata di recente proprio da Reid per definire Smith) capace di tenere l’attacco sul campo il più a lungo possibile — che, a meno di turnover/TD, nel football è letteralmente la miglior difesa — muovendolo poche yard alla volta. Smith, come lo era McNabb (il quarterback con cui Reid si è tolto le maggiori soddisfazioni a Philadelphia), è un passatore più che decente, decisamente preciso nel breve/medio raggio, e con la mobilità sufficiente per prendersi il suo tempo nella tasca prima di lanciare. Non sarà mai il quarterback che scalda i cuori e riempie gli highlight del lunedì con lanci siderali o corse incredibili ma Smith sa giocare come pochi altri in questo momento il football che vuole il suo allenatore, non si prende azzardi di testa propria rischiando di regalare un possesso agli avversari e in definitiva sta facendo esattamente quello che i Chiefs si aspettavano da lui: dare costanza e minuti a un attacco che non ne aveva da tempo e a Jaamal Charles il privilegio di non essere più la sola opzione offensiva disponibile. Finora i protagonisti di questa rinascita dei Chiefs si sono tolti diverse soddisfazioni e qualche sassolino dalla scarpa — uno su tutti per Reid la vittoria con i Philadelphia Eagles, festeggiata dai suoi giocatori con la classica Gatorade shower — ma, dato che i playoff sono pressoché già assicurati, ora gli appassionati di football stanno iniziando a chiedersi se ai Chiefs basterà tutto questo per arrivare nelle vicinanze del Super Bowl. Difficile da dire e, probabilmente, difficile in assoluto. Come non hanno mancato di notare diversi pundit, valutando lo straordinario cammino dei Chiefs finora, si deve tenere conto del fatto che hanno affrontato quasi solo avversari molto soft. Il che non significa sminuirne gli oggettivi progressi rispetto alla scorsa stagione, anche perché gli avversari che hanno sbaragliato quest’anno al 75% sono gli stessi contro cui lo scorso rimediavano figuracce, però la caratura degli avversari è sicuramente un fatto di cui bisogna tenere conto. La partita di domenica contro i Denver Broncos (7V - 1P) di Peyton Manning, una delle tre/quattro squadre più forti in questo momento e di gran lunga quella offensivamente più esplosiva in assoluto, in questo senso darà delle indicazioni importanti a tutti i livelli. Perché le speranze si facciano ancora più concrete, durante i playoff però ci vorranno molti “se”. Se Andy Reid, quando il cronometro sarà contro quell’approccio alla partita, saprà imparare dai propri errori passati ed evadere dalla “prigione” delle proprie convinzioni abbandonando la propria talvolta accecante fede nella west coast offense. Se il ginocchio di Jaamal Charles non farà più brutti scherzi. Se quando ci sarà da osare — in partite combattute punto a punto contro avversari di valore pari o superiore — Alex Smith dimostrerà (sempre che Reid, vedi sopra, glielo lasci fare) che sa anche lanciare oltre le 20 yard come fece due anni fa in un leggendario e splendido divisional playoff vinto dai suoi49ers contro i New Orleans Saints. Se la difesa dei Chiefs si dimostrerà dominante anche contro attacchi della portata di Broncos e Patriots per restare solo all’AFC, allora — come hanno dimostrato miriadi di squadre diventate campioni grazie alla loro difesa e a dispetto di un attacco così-così — davvero tutto è possibile.

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