Alle 19.15 attraverso due strade e arrivo nel centro di Milano-Est, Porta Venezia e le sue strade, Porta Venezia, quartiere di minoranze, vita notturna e perdizione. Porta Venezia che fa paura perché sempre viva e dovendo affrontare giornate da 24 ore accadono spesso momenti di tensione che spezzano la vita quotidiana di un quartiere. Porta Venezia e Milano Est, le strade di Dino Buzzati e i “percorsi di tossici e puttane” fino a qualche anno fa. Porta Venezia e Milano Est appunto, dove da oltre vent'anni abita Yussef, uomo di quasi 50 anni, sposato con figli, residente nei pressi di questa zona, fruttivendolo.
Siamo io e lui fuori al freddo di un locale gestito da marocchini «però non di Casablanca» ci tiene a precisare. «Sono di Safi» mi spiega, cittadina che fu possedimento portoghese ma dove la popolazione è emigrata fra il 1950 e il 1960 in massa tra Israele e Francia. Il gestore di questo locale, famoso per avere sempre la musica alta e far fumare narghilè, ci tiene in sospeso fuori al freddo. Io, Yussef e almeno altre 50 persone. “Full” ripete, “full” vestito con camicia dinamica ma non troppo appariscente, «full, oppure sono 30€ per narghilè più la consumazione». Stiamo cercando un posto per vedere Francia-Marocco, la semifinale dei Mondiali in Qatar. La favola del Marocco la conoscete: data per spacciata già nel primo girone, insieme a Croazia e Belgio, è riuscita qualificarsi prima. Ha passato due turni prendendosi lo scalpo della penisola iberica, non subendo gol, ogni partita si portava dietro una storia coloniale, e non è certo da meno questa semifinale contro la Francia. Il paese che ha assorbito la maggior parte della diaspora marocchina. Cinque milioni di marocchini, forse anche di più a seconda di come fate i conti, vivono all’estero.
Ogni partita del Marocco è stata una festa per i marocchini in Italia, e questa festa è stata spesso raccontata dai media, partendo da Milano. È stata raccontata cercando di vedere in questa una storia più grande, la storia dell'integrazione della comunità marocchina in Italia - e dell'orgoglio nazionale intatto. Oppure è stata raccontata cercando il risvolto morboso, un po’ per razzismo e un po’ perché è sempre il risvolto morboso, drammatico, che fa notizia. Una festa non è una notizia, se non possiamo colpevolizzare qualcuno perché si diverte, magari trovando qualche scusa.
I prezzi del locale scoraggiano Yussef, “Vado da Osama” dice. Osama è un bar piccolissimo che sta due vie più indietro, sempre a gestione marocchina. «Anche se è pieno resto fuori lì, questi non ci fanno entrare e da fuori non si vede nulla!»; io paziento, perdo il goal del vantaggio della Francia perché in strada cʼè troppa gente, poi entro. Le persone ballano, cantano, fumano e bevono coca cola. Tante coca cole. Per fortuna non spendo 30 euro per rimanere al bancone ma decido di ordinare un Sirop de citron marocchino, cocktail analcolico, bevanda a base di menta e limone (ma può variare). Io ne berrò due o tre durante la partita, pare faccia bene alle vie respiratorie. Adel invece è un ragazzo di 20 anni, è qui con una sua amica, chiaramente non ha pagato 30 euro per entrare e soprattutto, chiaramente beve coca cola. Adel studia robotica, Adel ammette di preferire lʼItalia al Marocco e di non seguire minimamente nessuna squadra di calcio. Però ha un debole per lʼInter, essendo nato a Milano e cresciuto tra via Padova e Sesto San Giovanni, qualche amico che va allo stadio cʼè, poi “Hakimi giocava qui”. Con la lingua araba non se la cava benissimo, i suoi genitori sono arrivati qui quando non avevano nemmeno 18 anni. Il padre via mare, attraversando il Mediterraneo, la madre più comodamente in aereo, per studiare. Sua sorella studia medicina, lui non ha voglia di studiare però si definisce “nerd”. Nel frattempo, cʼè la replica del gol di Theo Hernandez, le persone non colgono il replay e si disperano di nuovo, poi tornano a ballare, fumare e cantare. I tavoli sono ingombri di coca cole e narghilè.
Adel mi prende in simpatia, non ha alle spalle nessuna storia complicata su cui fare storytelling, ma è veramente un ragazzo che non ha voglia di studiare, fa un corso professionale, sogna di lavorare in una società di robotica molto famosa a Milano est di cui non ricordo minimamente il nome, ma soprattutto è qui per uscire, “visto che non esco mai”, ma di base tifa Italia. È nato a Milano, ha studiato a Milano, è cresciuto a Milano.
I marocchini in Italia sono ad oggi la terza comunità più grande (dopo romeni e albanesi) ma quasi la metà negli ultimi 15 anni ha ottenuto la cittadinanza, quindi risulta difficile sapere con esattezza se non si possa considerare quella più numerosa nel tessuto cittadino. Milano è la seconda città con la comunità più grande dietro Torino.
Foto di Massimo Alberico / IPA.
Come Adel, oltre il 50% dei giocatori marocchini convocati per questi mondiali è nato e in alcuni casi cresciuto, in altre nazioni. Il leader del centrocampo, Amrabat, è nato a pochi chilometri da Amsterdam e ha persino giocato in varie nazionali giovanili olandesi; Hakimi è nato e cresciuto a Madrid; poi ancora nativi di Belgio, Francia, Olanda e Canada, dove nasce Bounou, che con il suo ghigno beffardo si è già preso il premio di miglior portiere del torneo.
Qui dentro sono tutti fan del portiere di Bounou, lo trovano il leader “tecnico ed emotivo” della squadra, poi “è anche un bel ragazzo” mi dice Sara, che ha poco più di 20 anni, che come me è ferma al bancone del bar e prima di questo Mondiale non ha mai visto una partita di calcio. «Mio padre è fissato, quando gioca il Marocco mi fa uscire e mi lascia un sacco di libertà». Anche lei risiede a pochi chilometri di qui, nella periferia più a est di Milano, lavora e non ha voglia di studiare perché alle superiori si rompeva le scatole e vuole indipendenza economica per poter andar via dai suoi genitori. Sara vorrebbe una birra. Sara mi suggerisce di cambiare posto e vuole accompagnarmi insieme alla sua compagnia. Attraversiamo la strada, nel frattempo di calcio non posso parlare perché lì dentro cʼè rumore, canti, narghilè e questi cocktail analcolici a base di limone che mi stringono le orecchie, non ci sento e non ci vedo più nulla. Vedo che la Francia riparte, che fisicamente è una squadra devastante, che la difesa a tre marocchina non interessa a nessuno; qui si sono riuniti per festeggiare a prescindere e per strada i negozi hanno chiuso prima, perché qualcuno di ben poco lungimirante, ha scelto di mantenere lʼordine pubblico in questo quadrilatero, come se ci fosse il rischio di una guerra civile.
Dobbiamo attraversare la strada e nel frattempo a cinque euro mi regalano una sciarpa del Marocco. Una sciarpa brutta, quasi di plastica, però ha dei bei colori. Con Sara e la sua compagnia tentiamo un locale, sempre gestito da marocchini che però, vende anche alcolici. Ci proviamo a entrare ma cʼè troppa gente. Pubblico giovane, scatenato, ci sono petardi, fumogeni e pure qualche giornalista che deve riprendere tutto ciò sempre per fare un servizio di costume, di racconto di integrazione, o di racconto di cronaca. Chissà cosa riserva la serata. Io però devo vedere la partita, quando pensavo a scrivere questo testo mi sono detto “adesso faccio un paragone tra le strade di Buzzati e i giocatori del Marocco” - “oppure prendo un altro scrittore e racconto le migrazioni degli anni 60” - però alla fine non guardo il calcio e le persone con me, non conoscono nessuno a parte Bounou perché appunto, è proprio un ”bel ragazzo”. Abbandono Sara e mi attacco alla comitiva di un ragazzo molto giovane che fa il calciatore però a Milano ovest. Non ricordo il nome, lo ammetto, però lui fa il trequartista, «gioco come Mbappé» dice. Lui pensa che tornare alla difesa a quattro possa essere una buona soluzione, però non ha capito perché tatticamente non «abbiamo attaccato fin da subito, bisogna spingere, bisogna spingere». Regragui nel frattempo torna in effetti alla difesa a quattro. Sostituisce il capitano Saiss, che forse stava male, o comunque esce con la coscia facciata e l’aria triste e sofferente, e fa entrare il centrocampista Amallah. Non era chiaro perché fosse passato alla difesa a quattro all’inizio, ma forse si è reso presto conto dell’errore. Mi dicono che il gol di Theo sia nato da una riffa pazza di rimpalli, ma anche da un’uscita confusa di El Yamiq, forse a non a proprio agio con la linea a tre. Fatto sta che tornato a quattro, magari su suggerimento telepatico di questo bar, il Marocco comincia effettivamente "a spingere".
Torniamo nel locale blindato, il proprietario che gestisce il flusso si ricorda di me, io entro di nuovo con lui e dietro di lui si accodano altre 5 persone. Altro cocktail, poi succede che Giroud dopo il palo manca un gol che avrebbe chiuso la pratica, poi c’è quell’azione di El Yamiq, difensore magrissimo con un trascorso tra Genoa e Perugia poco entusiasmante. Se il suo non è il gesto tecnico più bello del Mondiale è di sicuro il più strano. La palla corre verso fuori l’area di rigore, è vicina a un giocatore francese, e lui in un attimo si coordina per provare una rovesciata. Si coordina un filo tardi, la palla è già bassa, e sembra troppo lontana da lui. El Yamiq però segue questa idea pazza di fare una rovesciata e in un modo o nell’altro ci riesce. Si coordina bene, anche se già quasi steso a terra, e la prende con lo stinco - ed è di quelle rovesciate brutte ma anche bella. Il tiro comunque non sembra poter andare in porta, e invece prende il palo. Cʼè il fumo e cʼè un rumore assurdo. Trema tutto. Durante lʼazione stava per esserci un terremoto. È palo, è parata, non lo so, non ho capito. So che tutte le persone con cui ho parlato si sono disperate ma continuano a parlare, ridere, scherzare. Il clima è di festa. Il Marocco è in semifinale al Mondiale, è la prima squadra africana a farlo nella storia di questa competizione, i giocatori sembrano posseduti da un super potere e il Marocco chiude questo primo tempo in pressione. Crea, non finalizza, gioca in verticale, prova a tagliare in due la Francia e ci sono anche episodi arbitrali che non si capiscono. Cʼè entusiasmo e fiducia, nessun dramma e tanti sorrisi.
Foto di Massimo Alberico / IPA.
Io ho sete e il limone mi ha stordito. Ritorno al freddo, attraverso altri 200 metri (sembra strano, ma tutto il movimento si svolge nellʼarco di 500 metri) e arrivo in un bar che ha bandiera marocchina, non troppo pieno e con tutti i tavoli colmi di coca cole e Lemon Soda, però cʼè anche il frigo con la birra. Ci sono molte ragazze in compagnia, tanti giovani, ma non giovanissimi. Sono tutti italo-marocchini che mi raccontano di essere stati “sbattuti” semplicemente fuori di casa perché «arrivano parenti e amici e non ci facevano stare». Come se la vecchia generazione non volesse per forza la nuova a osservare tutto questo. Al bancone del bar capisco che ok le bandiere marocchine, ok le coca cole, ok tutto, bellissimo, però la proprietà è Eritrea/Cristiana, quindi qui si beve e forse non interessa nemmeno la partita. Consumazione obbligatoria oppure vai fuori. Una ragazza Milano-Moda-figlia-di-Miss Keta si entusiasma per il calcio e dice “che schifo la Francia” - “speriamo segni il Marocco” - “che figo il portiere del Marocco”. Comincia il secondo tempo, in compagnia della ragazza arriva un amico marocchino, cappotto lungo, pantalone di velluto. Dopo un paio di sguardi e analisi calcistiche come “la grinta di questa squadra” - “la difesa di questa squadra” - “la tenacia di questa squadra” - mi attacco criticando la mancanza di un attaccante, lui mi spiega che la sua ex fidanzata marchigiana è la sorella di unʼamica strettissima di Cheddira e che lui è “il numero 9 del Marocco”.
Walid Cheddira è ancora capocannoniere della Serie B con la maglia del Bari, è nato a Loreto (Marche) e non ha mai pensato di giocare per la Nazionale italiana. In questo Mondiale è stato lʼattaccante dei secondi tempi del Marocco. Corre in profondità, pressa ed è stato un buon punto di riferimento pur non avendo mai segnato. La confusione che creava negli ultimi minuti, per quanto infine sterile, sembrava importante. Per questa partita è squalificato a causa dellʼespulsione rimediata nei quarti di finali per due falli in pochi minuti, contro il Portogallo. Cʼè una connessione quindi tra questo bar e Walid Cheddira, forse cʼè anche una connessione tra la mancanza di finalizzazione da parte del Marocco in questo secondo tempo coraggioso e lʼassenza di un punto di riferimento davanti a livello di una semifinale mondiale. Se volete proprio saperlo, ma probabilmente non vi interessa, io alla parentela dellʼex fidanzata del ragazzo con Cheddira credo come quelli che ti raccontano di un conoscente, amico di un amico, che si è comprato una casa in un qualche centro storico cittadino, grazie ai bitcoin.
Il Marocco però a questa semifinale mondiale non ci arriva solo per la strepitosa prova difensiva nelle partite precedenti, ma grazie a un lavoro politico della federazione tra una rete statale di formazione calcistica e una serie di osservatori capaci di portare a casa giocatori figli di emigrati di prima generazione. A seguito della continua espansione globale e la mancanza di cultura calcistica professionale, il re Mohammed VI nel 2008, propone la costruzione dellʼaccademia calcistica Mohammed VI, unʼassociazione pubblica, dove non cʼè finalità a scopo di lucro; costruita a Salé, cittadina a poche decine di chilometri da Rabat, è un vero e proprio centro tecnico e medico per i talenti tra i 12 e i 18 anni marocchini. In Qatar sono 4 i convocati provenienti da questo percorso e diversi sono i giocatori protagonisti della cavalcata del Wydad Casablanca (allenato da mister Regragui) per la vittoria della coppa dei campioni africana. «Riportare i propri talenti a casa» - così si chiama la campagna guidata da osservatori nelle varie nazioni - e un percorso di formazione, hanno fatto in modo di non vedere più una Nazionale Marocchina inseguire il calcio europeo (critica abbastanza diffusa nel passato recente) ma hanno permesso di creare una propria identità calcistica, sintetizzata nel calcio espresso durante le partite di questo Mondiale.
Mbappé corre, corre, corre. Amrabat decide di correre e prendere tutto ciò che è davanti a lui. È forse questo il momento della svolta, lo spannung narrativo ancor più che il cosiddetto “punto di rottura”. Nella scivolata di Amrabat cʼè la fine del mondiale marocchino. È questo il punto di massima tensione, quello che ci illude al colpo di scena risolutivo, positivo. Allʼepica e alla rimonta. Amrabat che strappa il pallone e Mbappé che vola a terra, nella gioia di un popolo fermo a un bar di Milano Est, che in realtà non è così interessato al calcio ma forse, non aveva la possibilità di stare in casa o semplicemente, tutto questo, era una splendida occasione per poter uscire. Amrabat corre, Mbappé cade. Amrabat riparte. Il rumore è assordante, cʼè entusiasmo e una strana energia. Amrabat, sicuramente è tra i migliori giocatori di questo Mondiale, in corsa ha appena placcato Mbappé in scivolata, facendo piangere il manto erboso di uno stadio che ha una cornice splendida solo quando gioca il Marocco. È un grande intervento, ma appunto è spannung, non è risolutivo. La narrativa vuole che quello doveva essere lʼepicentro, e sembrava davvero esserlo quando Abderrazak Hamdallah ha cominciato a portare palla in area di rigore. C’è un momento in cui è a davvero pochi metri dalla porta e un cono di tiro bello aperto davanti a lui. Hamdallah è una specie di leggenda locale, uno che su Wikipedia ha le caselline con più gol che partite, sebbene in campionati che noi considereremmo minori. Di sicuro è uno che sa come si tira, come si segna. Invece non lo fa, non tira, continua a portare palla finché l’azione non si spegne esaurita. La finestra di possibilità si richiude, la scivolata di Ambrabat rimane un grande gesto tecnico isolato, un’estrema dimostrazione di romantica volontà.
Arriva un gol dove Mbappé, sempre su quella porzione di campo, decide di saltare tutti gli uomini e tirare. Poi un altro rimpallo, come nel primo gol, e il pallone che arriva perfetto per Kolo Muani che deve solo spingere in rete. È finita così. Il Marocco ha pagato in una giornata di grande sfortuna tutta la fortuna precedente, o siamo troppo in fissa col karma? Io esco, attraverso la strada. Si accendono fumogeni. Ritrovo Adel felicissimo, adesso andrà a casa con la metropolitana ed è contento.
La festa di pochi giorni prima, dopo i quarti contro il Portogallo. Foto di Marco Passaro / IPA.
Ci sono cori ed entusiasmo, il Marocco calcistico ha creato una storia, e di questa storia un piccolo pezzo è diventata la storia personale di una comunità, che vive insieme a noi. Ma non cʼè necessariamente una “nazione” da raccontare e nemmeno da usare per una lezione di retorica sullʼintegrazione. Il lieto fine avrebbe potuto rendere questo scritto epico e invece nelle strade di Milano Est domani si tornerà a vivere la “moda”, io non ho potuto fare nessun parallelismo con qualche scrittore che mi piace e Adel si sveglierà per andare al corso di robotica. A lui piacciono i bracci robotici, mi spiegava, del calcio in realtà non gliene frega nulla. Però ci siamo divertiti, molto.