
Questo articolo è stato prodotto in collaborazione con I Wonder Pictures per l’uscita del film "The Smashing Machine".
Nel 1997 quasi un migliaio di spettatori brasiliani affollano il Maksoud Plaza Hotel di San Paolo. L’evento è la terza edizione del World Vale Tudo Championship, uno dei primi eventi di arti marziali miste veri e propri al mondo. Mentre la folla aspetta, dietro le quinte c’è un atleta che ha da poco abbandonato la lotta libera, con esperienza solo a livello universitario, negli Stati Uniti. È Mark Kerr, che in quel momento avrebbe preferito essere ovunque tranne che a due passi dal ring.
Era stato spinto lì da alcuni dei compagni con cui si allenava, secondo i quali sarebbe potuto diventare un fighter talentuoso. In fondo, però, Kerr non ci aveva creduto, o almeno è così che l’ha raccontata anni dopo in una lunga intervista a Sports Illustrated. A pochi minuti dal suo primo incontro si sentiva la terra aprirsi sotto i piedi. Il suo manager Richard Hamilton, che era solito incoraggiare moltissimo i suoi clienti, con Kerr era stato costretto al ricatto. «Dieci minuti prima di salire sul ring inizia a frignare implorandomi di non combattere…», dirà Hamilton che, per convincere Kerr a prendere parte al torneo si ritrova costretto a urlargli contro che, se non si fosse presentato, avrebbe trovato un’orda di brasiliani pronti ad ucciderlo.
Forse era un bluff, una minaccia ridicola, eppure Hamilton riesce nell’intento di convincere Kerr, che mette da parte il timore e si fa avanti sul ring. Al tempo sarebbe stato difficile immaginare la storia che sarebbe seguita.
RESISTERE ALLA FATICA
Mark Kerr viene spinto verso la lotta dalla madre portoricana, quando lo spedisce da Toledo, Ohio (dov’è nato), al fratello Michael, a Davenport, Iowa, chiedendogli di tenerlo occupato con dello sport. È così che nel 1983, durante il primo anno di liceo alla Bettendorf High School, Kerr inizia a praticare la lotta libera, facendo la conoscenza di quello che diventerà il primo campione UFC dei pesi welter, Pat Miletich, suo compagno di stanza poco più grande. Strano a volte come cominciano certe storie, no?
Per le prime soddisfazioni vere e proprie in ambito sportivo Kerr però deve tornare a Toledo, dove svolge gli ultimi anni delle superiori e diventa campione nazionale per la Toledo Waite High School. È il primo atleta a vincere un titolo nazionale per l’istituto.
È un periodo di crescita per Mark Kerr, in tutti i sensi. Il suo corpo in pochi mesi passa da 61 chili a 75, e poi da 75 a 95. Spingere così tanto fin da giovane sulla crescita muscolare lo porta a convivere con frequenti infortuni. Già da quando ha 9 anni frequenta regolarmente chiropratici e fisioterapisti, e questo, come effetto collaterale, stimola il suo interesse nei confronti della biomeccanica. «Ero affascinato da come il corpo si muovesse, rompesse e rigenerasse».
Una volta conseguito il diploma e vinta una borsa di studio per meriti atletici, Kerr si iscrive alla Syracuse University di New York. Il suo percorso universitario comincia male. Nella primavera del 1989 Kerr viene arrestato e accusato di aver rubato uno stereo di un altro dormitorio. Si prende una multa da 150 dollari, un anno di libertà vigilata e un obbligo di risarcimento da 2700 dollari. Ben più grave è la sospensione per un anno della borsa di studio e il temporaneo allontanamento dal mondo che sembrava poterlo guidare, quello sportivo universitario.
Per tenersi a galla è costretto a trovarsi un lavoro estivo come tecnico di palco, per il quale i suoi muscoli tornano utili per sollevare pesi e resistere alla fatica. È un lavoro pesante, che a volte lo costringe a seguire gruppi importanti, come gli Who, in alcune delle città più calde degli Stati Uniti, e che lo avvicina per la prima volta agli stupefacenti. «Assumere cocaina per la prima volta e sentire quel senso di vigilanza mista a euforia ti fa sentire come se avessi i poteri di Spider Man», ha raccontato Kerr sempre a Sports Illustrated «Potevo sentire una formica camminare a 10 metri e sentire odori provenienti da due isolati più lontani».
La situazione peggiora quando Kerr fa carriera e viene assunto da una grande impresa che organizza eventi per un tour dei Rolling Stones. A quel punto era diventato chiaro che lui non era certo l’unico: la pressione di costruire-smantellare-ricostruire, e di farlo in tempo, spingeva gli addetti all’abuso di stupefacenti per restare sul pezzo e massimizzare i ritmi. «Ci chiamavano per pranzo e ci facevano entrare in ufficio, aprivano un cassetto dalla scrivania ed era pieno fino all’orlo di cocaina. Il suggerimento era di prendere ciò di cui avessimo bisogno affinché il lavoro fosse terminato entro una certa ora».
La cocaina, quindi, perché era facilmente disponibile e per la sensazione d’invincibilità. Ben altro più avanti - un antidolorifico come il Vicodin, per esempio - quando la necessità diventerà tenere sotto controllo il dolore. «La cocaina era la mia dipendenza principale ai tempi», ha aggiunto Kerr «il culmine è stato il giorno del mio ventunesimo compleanno. Mia madre non mi comprò una torta né i miei genitori festeggiarono in alcun modo. Mi dissero che non sapevano cosa farsene di me. E io ho risposto che nemmeno io sapevo cosa farmene di me stesso. Ho scelto quindi di tornare dove avevo bisogno di essere: alla Syracuse».
Tornare a New York significa anche riconnettersi con la lotta libera. Qui, infatti, riesce a mettersi sotto l’ala protettiva della grande leggenda della Syracuse University, Gene Mills, che lo allena nel suo seminterrato. Sono gli anni in cui arriva l’agognata consacrazione atletica. Nel 1992 è campione della I Divisione NCAA degli 86 chili ricevendo il prestigioso riconoscimento All-American designato ad atleti particolarmente talentuosi nelle proprie categorie e da tener d’occhio nel futuro. Il titolo era già importante di per sé ma a dargli ulteriore lucentezza era la caratura dell’avversario battuto in finale: la futura leggenda dei pesi massimi e medio-massimi UFC, Randy Couture. Una fugace anticipazione del glorioso futuro che attende Kerr nella promotion.
LE RIVALITÀ NELLA LOTTA LIBERA
Couture è stato il primo grande lottatore sulla strada che ha portato Kerr a diventare una leggenda degli sport di combattimento. Ancora più importante in questo senso è la rivalità con Kurt Angle, che lo occupa dai primi anni ‘90 fino al 1995.
I due si affrontano per la prima volta nelle World Cup della United World Wrestling - due incontri, che si spartiscono uno a testa. La competizione tra di loro diventa più dura quando disputano le World Team Trials, ovvero le prove di qualificazione per rappresentare gli Stati Uniti ai Mondiali di lotta libera nella categoria dei 100 chili.
Kerr e Angle non possono essere più diversi: il primo è un colosso, una montagna di muscoli e forza bruta. Lo chiamano “The Specimen”, il prototipo, l’esempio perfetto del lottatore libero statunitense. Kurt Angle è agli antipodi: un lottatore che punta sulla tecnica, sull’agilità, con una velocità mischiata alla resistenza che lo porta spesso ai limiti concessi dal proprio corpo. Come succede frequentemente in tutti gli sport, ma ancora di più in quelli di combattimento, la rivalità sfocia in un profondo rispetto reciproco: Angle ha dichiarato da Joe Rogan che Kerr è stato l'avversario più talentuoso che abbia mai affrontato sul tappeto e che allora non si aspettava una tale competitività da un ragazzo che solo qualche tempo prima combatteva nella categoria degli 86 chili.
Kerr riesce a vincere i Trials nel 1993 e nel 1994 - senza però riuscire ad andare a medaglia ai Mondiali. Nel 1995, sulla strada che porta alla qualificazione, si ritrova davanti di nuovo Angle. Forse è l’apice tecnico della loro rivalità.
Nella prima parte del match, Kerr inizia un’offensiva serrata portando Angle al tappeto e lavorando sulle leve inferiori. A lungo andare, però, esaurisce le forze, limitandosi nella fase finale a quasi soli tentativi di difesa dalle prese di Angle. È un incontro che termina senza una vera e propria supremazia da parte di nessuno dei due. Più che altro è stata una prova di resistenza. Nonostante questo, la scelta dei giudici ricade comunque su Angle, capace di portare avanti l’azione e spingere Mark Kerr in un campo a lui poco abituale: la passività. «Quella è stata la vittoria più importante della mia carriera fino a quel momento», dirà Angle più tardi.
Negli anni successivi Angle diventa una leggenda della lotta libera. Nel 1995, ai Mondiali di Atlanta, vince la medaglia d’oro nei 100 chili; nel 1996, alle Olimpiadi, sempre ad Atlanta, arriverà un altro oro, in un torneo che si rivelò una prova disumana di resistenza fisica. Angle, alla fine, ne uscì con un’ernia del disco, quattro muscoli stirati e due vertebre del collo rotte.
La rivalità con Kerr, in questo senso, si può vedere anche dal percorso olimpico. "The Specimen”, nel torneo di qualificazione alle Olimpiadi del 1996, incontra uno dei suoi più grandi amici, Mark Coleman, e perde. È come se Kerr non riuscisse a far rientrare il suo corpo e il suo talento nella ferrea, schematica e regolamentata struttura della lotta libera. Da qui la decisione di abbandonarla e guardare altrove.

Sulla decisione pesano anche i soldi, una delle leve più grosse di questa storia. «C’è una grossa differenza tra combattere per una buona paga e un’ottima paga», dirà Kerr a IGN nel 2003 «Sento molta pressione nel cercare di fare quanti più soldi possibile, è una delle principali cause del mio nervosismo prima degli incontri».
NUOVI INIZI
È il punto della storia in cui è facile credere che tutto, ovunque, sia collegato. È infatti proprio Mark Coleman, l’uomo che di fatto aveva messo fine alla sua carriera nella lotta libera e che ha un ruolo da deus ex-machina in questa storia, ad offrirgli una carriera nelle MMA. Da poco, infatti, Coleman era diventato cliente del manager Richard Hamilton, che tra i suoi clienti aveva anche Don Frye - al tempo ancora solo un atleta emergente molto promettente, ma che negli anni diventerà egli stesso uno dei pionieri delle MMA (con un record di 20 vittorie e 9 sconfitte in 31 incontri). Ecco, ad Hamilton viene un’idea che forse avrete già capito: e se Kerr affrontasse Frye? La cornice di questo incontro sarebbe stata quella di UFC 10.
Di nuovo Kerr si ritrova a combattere con le proprie insicurezze. Da una parte molti dei compagni con cui si allenava lo incoraggiano ad accettare un’occasione di quella portata, e anche lui aveva bisogno di rimettersi in gioco; dall’altra, di nuovo, Kerr non si sente pronto, anche perché in quel momento era costretto ad affrontare la malattia della madre, affetta da un tumore al colon che l’aveva già perseguitata nel 1990 e nel 1995.
Mary Kerr, che, come il marito, aveva servito nell’esercito durante la Guerra di Corea, è uno dei motivi, forse il principale, per cui Mark ha un rapporto così tormentato con la lotta libera. Il sogno di Mary Kerr per il figlio, infatti, era proprio quello di vederlo competere alle Olimpiadi di Atlanta e rappresentare il suo Paese nella lotta, e quindi potete capire come si è sentito Mark Kerr dopo la sconfitta con Mark Coleman, e quanto grande e pesante fosse l’idea di abbandonare quella carriera. Passare alle MMA davanti agli occhi di sua madre avrebbe significato ciò che finora pensava solo nella sua testa, e cioè di aver fallito come wrestler. Alla fine, decide di tirarsi indietro dallo scontro con Frye. «Mia madre aveva grandissime aspettative su cosa fossi in grado di fare. Vinsi un titolo NCAA e mi incitò a vincere il secondo. Mi amava da morire ma senza volerlo mi ha messo addosso un carico di pressioni pesantissimo…».
Le strade, quindi, si dividono così. Mark Coleman prende il suo posto nell’incontro con Frye; Kerr riesce ad ottenere un accordo per partecipare all’evento World Vale Tudo Championship 3. Il suo debutto, che ha aperto questo pezzo, sarebbe stato in Brasile.
È un bivio che si incastra alla perfezione nella storia delle MMA. In Brasile, infatti, le arti marziali miste avevano affondato la loro radice più grande, e questa arrivava proprio al Vale Tudo, uno stile di combattimento caratterizzato dal regolamento minimale, in cui si combatte a mani nude, a contatto pieno e quasi senza colpi proibiti. Fu questo il brodo primordiale delle MMA, che fioriscono dalla storia della famiglia Gracie. Sono infatti due dei suoi esponenti più importanti, Carlos ed Hélio Gracie, a farsi una posizione grazie alla loro storica scuola di jiu-jitsu brasiliano; e saranno gli incontri tra gli stessi membri della famiglia Gracie a dimostrare l’efficacia dei loro allenamenti contrapposti a fighter provenienti da diversi background come capoeira, karate, boxe o kickboxing, a dare una credibilità a quelle che poi diventeranno le arti marziali miste. Dal Brasile, poi, uno dei membri della famiglia Gracie, Royce, va negli Stati Uniti per organizzare il primo torneo UFC, nel 1993.
Sono quindi appena quattro anni prima il debutto di Kerr in Brasile. Ricordate? La paura, il desiderio di scappare, il ricatto per convincerlo ad entrare sul ring. Kerr quella sera decide di varcare la soglia del suo nuovo mondo violento. Entra “The Specimen” ed esce “The Smashing Machine”.
Kerr disputa tre incontri e vince il torneo dei Pesi Massimi: il primo, contro il futuro veterano UFC, Paul Varelans, dura meno di due minuti - due minuti in cui il combattimento sembra una cosa semplice: takedown, pugni e ginocchiate. Vedendolo combattere risuonano le parole che pronuncerà anni dopo: «Non sono un lottatore da strada, sono un tecnico che voleva solo divertirsi. A poco a poco, però, sentivo quell’istinto animalesco che mi spingeva oltre…».
Il secondo incontro, che lo vede vincere con Mestre Hulk, segue lo stesso canovaccio. Il suo avversario, nello scontro, perde due denti e scappa dal ring. Infine, la finale contro Fabio Gurgel, cintura nera di brazilian jiu-jitsu. Un incontro molto più difficile, vinto per decisione non unanime dopo 30 minuti.
Per Gurgel è comunque un inferno. Il ventottenne Kerr si presentava come un talentuoso atleta dalla voce mite e le buone maniere, un gigante buono che non aveva mai sperimentato un contesto del genere. Nessuno si aspettava quello che sarebbe seguito. Con le testate, Kerr rompe l’osso orbitale di Gurgel che continuava ugualmente a lottare, inspiegabilmente, animato dall’orgoglio di veder tifare per lui i suoi allievi a bordo ring. Gurgel dopo quell’incontro non lottò mai più, probabilmente per colpa del violento impatto con il giovane Mark Kerr, che quella sera aveva mostrato al mondo la sua essenza. Ground and pound duro come la roccia, con l’avversario a terra prima che riesca a sferrare qualsiasi colpo, e poi striking ad oltranza.
Il giorno dopo una rivista brasiliana di nome Tatame pubblica gli scatti della finale. In copertina il titolo: Maquine de Bater, cioè macchina demolitrice. O se volete: The Smashing Machine.
VENI, VIDI, VICI
Sono gli anni d’oro della carriera di Kerr. Dopo l’exploit brasiliano, UFC lo invita a combattere negli Stati Uniti e l'incantesimo del ground and pound si ripete. Si ripete a UFC 14, dove disputa due match nella stessa serata, sbaragliando in meno di cinque minuti Moti Horenstein in semifinale e Dan Bobish in finale, aggiudicandosi il torneo dei Pesi Massimi di quella notte. E si ripete a UFC 15, dove Kerr vince nuovamente il torneo travolgendo Gregg Stott e Dwayne Cason e difendendo il titolo.
L’incontro con Gregg Stott è una specie di avvertimento per i Pesi Massimi degli anni 2000: l’incontro dura solo 17 secondi e a Kerr basta solo un accenno di clinch e una ginocchiata per mettere a dormire l’avversario. Non una goccia di sudore, non un minimo passo falso. Come un sicario, Kerr entra nella gabbia e spara, colpendo il bersaglio con un headshot al primo tentativo.
È l’apice della carriera da artista marziale misto per Kerr ma parliamo comunque della UFC dei primordi. La federazione in quel momento attraversava un periodo complesso finanziariamente e mediaticamente. Gli incontri riscuotevano successo, e sembrava proprio il momento di uscire dalla nicchia underground cercando nuovi contratti televisivi, ma la brutalità di match così poco regolamentati aveva creato una diffidenza politica difficile da scalfire in quel momento.
È famosa la ferma opposizione del senatore John McCain, che nel 1996 definì le arti marziali miste «combattimenti umani tra galli». Una dichiarazione che faceva particolarmente male perché veniva da un grande amante degli sport da combattimento nonché da un ex wrestler e pugile amatoriale. «Colpire un uomo quando è già a terra non rappresenta i valori americani», dice McCain e non era l’unico a pensarlo. Erano diverse le forze politiche che, se avessero potuto, avrebbero semplicemente fatto sparire le MMA.
A rendere ancora meno sostenibile la posizione della UFC c’era anche la sua cultura piuttosto lassista nei confronti del doping e delle sostanze più in generale. Dagli anni ’90 al 2014 i controlli antidoping sono gestiti da commissioni statali ed effettuati solo poco prima dei match. Solo nel 2015 inizia ad intervenire l’agenzia indipendente USADA che rende i test più severi.
Lo stesso Kerr, che veniva da un mondo molto più rigoroso come quello della lotta libera, ha raccontato di quanto fosse facile fare uso di sostanze nelle MMA. Nell’intervista a Sports Illustrated, Kerr racconta di come tra i fighter il consumo di droghe e di sostanze era di fatto accettato, specie tra chi era agli inizi e accettava qualsiasi incontro per emergere. Potete capire bene l’effetto che poteva avere una cultura di questo tipo su una persona come Kerr che già aveva un problema.
Kerr inizia ad usare una dose leggera di steroidi anabolizzanti già al suo esordio in Brasile, e pur consultandosi con alcuni medici sul da farsi, negli anni successivi la situazione va fuori controllo. Un aneddoto racconta bene quel momento. Kerr a colloquio con un medico che analizza i suoi enzimi del fegato, scoprendo di fatto il suo uso massiccio di anabolizzanti. «Sai di avere otto volte più enzimi del fegato del normale, vero?», gli chiede. Kerr annuisce ma il medico a quel punto chiude la cartella e ignora la questione, lasciandolo combattere.
IN GIAPPONE
In questo contesto è più facile capire la decisione di accettare l’offerta della compagnia giapponese Pride che, colpita dalle sue prestazioni, decide di fargli una ricca offerta. Inclusa al suo interno anche la trasmissione degli show sulla TV giapponese con ascolti da trenta o quarantamila persone e una paga congrua allo status di star internazionale che sta raggiungendo.
Il debutto in Pride nel 1998, in questo senso, ha un gusto ambivalente: grandi risultati, poco spettacolo. La sola, per certi versi mostruosa, presenza di Kerr incute un certo timore reverenziale nei confronti degli avversari. Branko Cikatic e Hugo Duarte, per dire, pur di evitare i takedown, preferiscono aggrapparsi alle corde, provocare, rischiare la squalifica o perfino ritirarsi.
È uno spettacolo straniante per chi segue gli sport di combattimento. Vedere un fighter di questo livello talmente terrorizzato da aggrapparsi alle corde quasi in cerca d’aiuto dal pubblico non succede tutti i giorni, forse anche allo stesso Kerr che invece, assolutamente impenetrabile, sembra quasi indignato da questo comportamento. Ci vorrà l’intervento di tre arbitri per squalificare Cikatic e regalare a Pride 2 un Main Event totalmente dimenticabile ma anche esemplare di cosa significasse trovarsi di fronte alla Smashing Machine.
Gli incontri con Kerr erano talmente violenti e duravano talmente poco che la Pride nel 1999 decide di vietare le ginocchiate con l’avversario faccia a terra e le testate, o almeno è così che traspare nel documentario The Smashing Machine, uscito nel 2002. Al di là di quale fu la motivazione reale è una rivoluzione, uno dei passi che hanno portato le MMA a diventare lo sport molto codificato e tecnico che è oggi.
Il 1999 rimane un anno decisivo in questa storia anche per un altro motivo. Kerr, infatti, riprende a rintanarsi regolarmente negli antidolorifici per anestetizzare qualunque tipo di dolore fisico o psicologico. Una dipendenza che lo porta addirittura ad avere legami col Messico, dove gli passano qualsiasi sostanza, dalle benzodiazepine alla morfina passando per le siringhe e gli oppiacei. Sempre in quell’anno Kerr si accorge tra l’altro che l’abuso di steroidi lo ha portato ad avere un fisico ormai insostenibile: ha talmente tanti muscoli che il suo corpo non riesce a produrre ossigeno sufficiente per alimentarli.
Kerr si è retto sempre su un equilibrio fragilissimo e il punto di rottura viene raggiunto quando incontra l’ucraino Igor Vovchanchyn, detto “Ice Cold”, che arriva ad affrontarlo con un record impressionante di trentadue vittorie di fila alle spalle.
Siamo a Pride 7, a Yokohama. Il 12 settembre del 1999 ci si gioca il titolo di numero uno nel ranking dei Pesi Massimi. Va in scena una dura battaglia a terra. Kerr prova il suo solito schema finendo anche per essere brevemente in vantaggio ma a quel punto è un colpo proibito dell’ucraino - una ginocchiata alla testa mentre era a carponi sul tappeto - a porre fine all’incontro. Dopo varie discussioni, i giudici assegnano il No Contest - una salvezza per Kerr, che sembrava già provato e sofferente.
Forse è la prima volta che Kerr si mostra così in difficoltà. È il risultato anche di allenamenti più intensi, nel tentativo di fare i conti con una pressione sanguigna fuori controllo per via degli steroidi, ma anche delle sempre più frequenti crisi d’astinenza da psicofarmaci. Allenamenti, quindi, fatti spesso con febbre, sudori freddi e caldi, gambe marmoree ridotte in gelatina dai crampi. Kerr, probabilmente, non era minimamente in condizione di combattere un fighter del calibro di “Ice Cold” Vovchanchyn.
Proprio in questo periodo Kerr viene seguito dalla troupe di John Hyams per il documentario The Smashing Machine, che riprende la sua vita personale e la sua carriera dal 1999 al 2001. Dopo quell’incontro, a telecamere spente, la crew di Hyams gli consiglia di farsi aiutare. «Credo il documentario sia importante perché fa vedere come essere grandi e grossi non ti protegge dalla dipendenza», dice Kerr «È una buona lezione e sono felice sia stata ripresa in un film se può essere d’aiuto a qualcuno».
È il momento in cui Kerr prende coscienza di un problema che ha radici lontane - già nel 1996, d’altra parte, il suo manager, Richard Hamilton, aveva detto di essere perfettamente consapevole di «aver messo sotto contratto un tossico». Com’è noto, però, riconoscere un problema è solo il primo passo: la buona notizia è che l’hai fatto, la cattiva è che hai ancora tutta la salita davanti. «Iniziavo a capire di avere un problema che non potevo battere da solo», dirà Kerr anni dopo «Avevo bisogno di aiuto, di persone attorno a me che volessero sostenermi nello sconfiggere questa malattia».
LA CADUTA
Il mese successivo a quell’incontro è uno dei più duri di tutta la vita di Kerr. Dawn Staples, che diventerà sua moglie, ha raccontato di averlo visto consumare qualsiasi droga trovasse nelle vicinanze e, una volta arrivati i soccorsi per overdose di oppiacei e antidolorifici, alla domanda su chi fosse il presidente degli Stati Uniti, rispondere: Ronald Reagan.
Al suo capezzale arrivano gli amici storici: Darin Ferrel e Mark Coleman, che lo implorano di ripulirsi. Kerr ci prova. Tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000, esce dal giro, dà forfait a un incontro e va in clinica riabilitativa scusandosi pubblicamente con il pubblico giapponese. L’obiettivo è riuscire a riprendersi per partecipare al Pride Gran Prix del 2000, il torneo di punta della Pride per quell’anno.
Non è un caso che Coleman definirà l’incontro con Vovchanchyn di settembre una blessing in disguise - una benedizione sotto mentite spoglie, perché fu proprio quel momento terribile ad aprirgli gli occhi e permettergli di avere una seconda chance. Il problema è che questa seconda chance lo metterà proprio sulla strada del suo grande amico: Mark Coleman.
Il fighter di Fremont, dopo due anni di sfortuna e prestazioni poco soddisfacenti, aveva fame di vittorie importanti per stabilizzarsi economicamente e rientrare nel circuito: e l’unico modo, in quel momento, era proprio vincere il Grand Prix del 2000. Coleman si trovava indietro rispetto agli altri perché non si era evoluto, la competizione si era alzata e l’età iniziava ad avanzare. Spinto dalla necessità di sostenere la propria famiglia e dalla voglia di rivincita, però, voleva provarci.
Il torneo è organizzato dalla Pride contattando i migliori pesi massimi del mondo, includendo sia Kerr che Coleman. Kerr, che cercava di mantenere un regime di sobrietà dopo l’enorme shock dell’overdose, è nuovamente spaventato da questo nuovo inizio. Avrebbe retto questa volta? Per tornare a mettere al centro gli allenamenti aveva contattato la leggenda olandese degli sport di combattimento Bas Rutten chiedendogli di fargli da allenatore.«Era un animale nel ring e un vero gentleman fuori», ha detto Rutten di Kerr «Sapevamo avesse il killer instinct nel ring e nella gabbia. Era fisicamente duro come una roccia, toccargli le braccia era un’esperienza surreale».

Rimaneva quel problema: che a separarlo da un ritorno in grande stile ci sarebbe potuto essere Mark Coleman. «Gli voglio bene ma il vincitore di questo torneo porterà a casa moltissimi soldi», dice Coleman prima del torneo «Cerco di non pensare alla nostra amicizia adesso e spero che, se dovessimo affrontarci, di farlo in finale».
Il Grand Prix comincia alla fine di gennaio del 2000 a Tokyo con la vittoria di Kerr nel turno preliminare su Enson Inoue per decisione unanime. Un sospiro di sollievo per il fighter di Toledo, che torna a sentirsi ancora capace e appassionato come i vecchi tempi, almeno dentro al ring. Fuori però le cose vanno diversamente. Kerr improvvisamente si ritrova a vagare per casa senza meta: si alza per fare qualcosa e a metà strada non si ricorda cosa volesse fare. Gli succede una decina di volte. In più occasioni si dimentica dove abita senza essere né sotto l’effetto di sostanze né ubriaco. È il conto delle decine, se non centinaia, di commozioni cerebrali che ha accumulato nel corso della sua carriera, ma Kerr ancora non può saperlo. La cosiddetta encefalopatia traumatica cronica (CTE) verrà chiamata così solo due anni più tardi e gli studi su quella che veniva ancora definita “demenza pugilistica” erano ancora ai primordi.
Kerr pensa che sia il frutto delle scelte scellerate, della dipendenza, che ci sia qualcosa di sbagliato in lui, che magari centri l’alcolismo del padre. Anche alla luce di queste cose, comunque, va letta una vita vissuta al limite. Kerr era uno dei fighter meglio pagati al tempo: in Pride riesce a guadagnare quasi due milioni di dollari, per i tempi una cifra considerevole nelle MMA, che però nelle sue mani dura molto poco. Ormai gli sarebbero serviti almeno tre incontri all’anno per mantenere lo stile di vita che aveva costruito per sé - le quattro auto, la casa a Phoenix e la tenuta a Santa Monica - in una spirale autodistruttiva per il suo corpo e per il suo cervello. Kerr ormai a malapena riusciva a reggerne uno di incontro. «Avevo raggiunto uno stato di burnout e non me la sentivo di combattere spesso… Dicevo ironicamente che se Mike Tyson era riuscito a dilapidare 300 milioni di dollari, io potevo di sicuro dilapidarne uno…».
Anche così si spiegano i diversi incontri nell’arco di pochi mesi nella prima metà del 2000: dopo quello con Inoue, Kerr va negli Emirati per l’Abu Dhabi Combat Club, in cui compete sia per il titolo dei Pesi Massimi sia per gli assoluti. Per sostenere un ritmo del genere assume copiose dosi di ormone della crescita che da una parte lo aiutano a recuperare fisicamente tra un incontro e l’altro, ma dall’altra lo portano lentamente verso l’ipoglicemia. L'ormone della crescita, infatti, tende a consumare voracemente gli zuccheri nel sangue, con ulteriori implicazioni sulla salute del cervello, già toccato dai numerosi colpi ricevuti.
In queste condizioni, nel maggio del 2000, Kerr torna in Giappone per il Grand Prix di Pride: il suo avversario è Kazuyuki Fujita, un underdog giapponese con meno esperienza, allievo della New Japan Pro-Wrestling che Inoki decide di far gareggiare nel torneo come rappresentante del suo team. Kerr entra nel ring con la sua strategia: gli infligge una serie di colpi durissimi - dal ground and pound allo striking più brutale - ma Fujita rimane in piedi. Il giapponese sta aspettando il momento propizio per sfinirlo e attaccare. Sopravviverà? Contro ogni pronostico, il giapponese riesce a portarlo a terra e a colpirlo con pugni serrati. A un certo punto il mento di Kerr si apre, la macchina inizia a sanguinare. È un upset generazionale per chi guarda, un momento premonitore del tramonto che sta per scendere per chi lo vive.
Il Prix per Kerr sfuma via in un attimo ma già mentre è in infermeria segue con attenzione le vicende di Coleman. I due “per fortuna” non si incontreranno, ma il torneo del suo amico non si fermerà lì. Coleman non solo porta a casa i quarti di finale, ma supera anche Fujita, che si ritira dall'incontro dopo essersi infortunato proprio contro Kerr. In finale Coleman si ritrova davanti l’incubo di Kerr, “Ice Cold” Vovchanchyn, e lo batte, in una storia di rivincita dai contorni fiabeschi.
Per Mark Kerr, invece, quella rivincita non ci sarà mai: quella contro Fujita è la prima di undici sconfitte nei quattordici match successivi della sua carriera professionistica. Nel febbraio del 2004, a Pride 27, Kerr ci riprova un’altra volta, contro il giapponese Yoshihisa Yamamoto. È in una forma fisica più sobria, lontana dai tempi in cui lo chiamavano “Specimen”. In commento ci si chiede se sarebbe stata finalmente questa la volta in cui avrebbe zittito i commenti negativi nei suoi confronti. Kerr con un’inusuale goffaggine riesce a portare a terra il giapponese, ma di lì a poco Yamamoto riesce ad approfittarne per ribaltare la situazione, inchiodare l’avversario a terra e metterlo KO in soli 40 secondi. “The Smashing Machine” viene battuto come avrebbe fatto “The Smashing Machine” solo pochi anni prima.
Nella storia di Kerr, però, dannazione e redenzione sono due poli opposti che si mischiano respingendosi. Alla fine di quella terribile striscia di sconfitte comincia infatti la presa di coscienza che gli permette di salvarsi. «Il match con Lawal del 2009 [l’ultimo della sua carriera in cui subì un KO tecnico, ndr], fu quello che mi fece definitivamente aprire gli occhi», ha detto Kerr «Non fu solo quel pugno ma le centinaia ricevute prima di quello a preoccuparmi. I risultati di tutti questi colpi si vedono nel lungo termine ed è spaventosa la quantità di atleti che è arrivata a compiere il suicidio. Credo ci sia una correlazione tra il livello di qualità di vita degli ex atleti e l’ammontare di danni o infortuni subiti nell’area cerebrale. Questo per me fu abbastanza per porre fine alla mia carriera nelle MMA. Non voglio invecchiare con la demenza o il Parkinson».
Nel 2010 la Smashing Machine esce definitivamente di scena. Kerr riprende a studiare all’Università e a lavorare in altri settori, ricominciando da zero. La sua riscoperta curiosità nei confronti del corpo umano e del suo funzionamento lo porta a informarsi sulla relazione tra gli sport da combattimento, i traumi alla testa e la CTE, diventando anche sostenitore della ricerca scientifica al fine di ottenere diagnosi efficaci in vita. Per ora, infatti, la diagnosi si può fare solamente post mortem.
A circa un anno dal suo ritiro viene dato il via a uno dei più grandi studi sulla CTE mai fatti. Lo guida il dottor Ken Gernick che, nel tentativo di arruolare più atleti ed ex atleti possibile, nel 2014 lo presenta a Washington, insieme ai senatori Harry Reid e John McCain, lo stesso che qualche anno prima le MMA voleva vietarle del tutto. Iniziano i primi passi per capire come individuare la CTE prima della morte: secondo Gernick con la PET (la tomografia ad emissioni di positroni) è possibile individuare nel cervello le fuoriuscite della proteina tau che fuoriesce dalle cellule cerebrali formando dei grumi che portano alla loro morte.
Anche Kerr in quegli anni ottiene finalmente la sua diagnosi. Dopo vari consulti, finalmente i formicolii, il dolore pungente e la debolezza muscolare degli ultimi anni hanno un nome: neuropatia periferica come conseguenza dello stile di vita sregolato e della sua carriera sportiva molto pesante.
«Se ripenso al mio passato di abuso di sostanze, fatico a riconoscere quel Mark. La dipendenza è legata agli abusi, è un circolo vizioso che ti fa credere di essere solo e non valere niente», dice Kerr nel 2015 «Ci sono sicuramente altri fattori ambientali che hanno contribuito alla mia sofferenza ma una grossa parte è legata al mio sospetto di soffrire di CTE e la neuropatia che pian piano si impossessavano del mio corpo e poi della mia anima. Cercavo le droghe per sentire qualcosa, anche un minimo stimolo, dato che il mio cervello non era vigile, era lento e faticava a stare al passo in attività quotidiane».
È impossibile dire dove comincino le cose ma mi piace immaginare che queste parole così lucide siano nate in una notte pochi giorni dopo la dura sconfitta con Fujita, nel 2000. Dopo essersi ripreso, Kerr torna negli Stati Uniti e a Phoenix, in mezzo al deserto, si incontra a cena con Mike Tyson, un altro conosciuto per la vita sregolata e la capacità di spegnere gli avversari con un pugno. Kerr si era trasferito a Phoenix già dal 1992; Tyson aveva comprato lì vicino una sua tenuta, dove aveva una palestra personale e teneva alcuni delle sue centinaia di piccioni, una delle sue più grandi passioni. I due vengono messi in contatto dalla Pride stessa, che già dal 1999 voleva farli combattere uno contro l’altro. Pensandoci oggi effettivamente: aveva senso, no?
Il match non si terrà mai, ma i due, per l’appunto, si incontrano, e in qualche modo si capiscono. Forse è come dirà The Rock anni più tardi: «È difficile per chiunque immedesimarsi con chi è stato il più grande fighter sul pianeta, e Mark, per un momento, come Mike Tyson, questo è stato: imbattibile e dominante. Solo in pochissimi sanno cosa significhi». Al di là di cosa sia, comunque, i due a cena si trovano. E Kerr, chiacchierando con Tyson, parla di una sensazione che ha provato durante l’incontro con Fujita. La chiama sobering feeling, letteralmente una sensazione di sobrietà, espressione ironica per la sua storia. Noi la chiameremmo doccia fredda, un momento che gli ha fatto aprire gli occhi.
«Quando colpisci il tuo avversario con i colpi migliori che hai e la strategia più cristallina che riesci a elaborare e lui è ancora in piedi davanti a te significa che tutto ciò che verrà dopo ti farà molto male». Sembra l’ammissione di un’impotenza che forse non aveva mai provato prima e che inaspettatamente è stata preziosa. Alla fine, come si dice, non tutto il male viene per nuocere.