Se siete stati tra quelli che in passato vedendo Verratti con la maglia dell’Italia lo hanno liquidato con un “sopravvalutato” ormai troppo facile da pronunciare, finalmente avete una seconda occasione. Finalmente avete potuto vedere Marco Verratti giocare in una Nazionale che se non è costruita intorno a lui quanto meno gioca con principi adatti alle sue qualità. Finalmente avete visto Marco Verratti giocare bene in Nazionale. Adesso ricredetevi, miscredenti!
In realtà vorrei provare a sfruttare un’occasione che non si presentava da un po’ di tempo - Marco Verratti ha giocato bene due partite di seguito con la maglia della Nazionale! - per uscire dalla dialettica secondo cui Verratti è il miglior talento italiano nato negli anni ‘90 oppure il simbolo di un declino generazionale.
Marco Verratti è un giocatore che non ha niente di uguale a nessun altro, con delle qualità e dei difetti che non sono affatto nascosti, non serve essere finissimi intenditori per capire Verratti. Se non vi piace come gioca non c’è problema e anzi vi dirò di più: non avete tutti i torti. Io, ovviamente, sono tra quelli che pensano che Verratti sia un talento su cui valga la pena investire, e nelle amichevoli giocate contro Portogallo e Stati Uniti si è visto che tipo di ritorno garantisce un investimento di questo tipo. Se non posso convincere tutti del fatto che Verratti vada amato, quanto meno posso mostrarvi perché qualcuno, tipo me, ama Verratti.
Basterebbe l’azione che ha portato al gol contro gli USA, a dir la verità.
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L’azione la comincia Verratti con una giocata coraggiosa, dopo aver raccolto la spazzata della difesa americana. L’Italia era tutta nell’area avversaria, per provare a risolvere la partita con un calcio d’angolo al 93’. Verratti è da solo con Stefano Sensi, che però ha vicino un altro giocatore avversario, Gall, pronto a partire in pressione su di lui. L’unico passaggio rimasto sarebbe quello verso il portiere, ma Verratti non guarda neanche una volta verso Sirigu.
Si muove come un equilibrista sul filo, senza rete di protezione, oscilla a destra per sbilanciare Wood e si gira a sinistra, ma non vede compagni liberi davanti a sé, quindi frena di nuovo e torna indietro. Nel frattempo è tornato Bonucci e Gall ha lasciato libero Sensi di avanzare: Verratti lo raggiunge con un pallonettino che cade perfettamente sul suo piede.
Nove secondi dopo è sulla fascia sinistra, ad offrire l’appoggio a Sensi e Acerbi, rientra dentro al campo e rallenta di nuovo l’azione: potrebbe servire Kean in area, ma ha l’uomo addosso e Verratti preferisce giocare vicino su Gagliardini. Dopo poco offre l’appoggio a Politano, che si butta dentro, e serve a Gagliardini la palla precedente all’assist.
Anche se Politano fa un piccolo passo, come se volesse intercettare il passaggio di Verratti, nell’inquadratura da dietro dell’azione si capisce che il passaggio è calibrato per arrivare sul piede di Gagliardini e, probabilmente, per rimbalzare su quello di Politano. Se così fosse, significa che Verratti non ha eseguito l’assist in prima persona ma lo ha pensato, anticipando quello che avrebbe fatto Gagliardini.
Verratti ha partecipato all’azione in più modi, prendendosi il rischio e la responsabilità di non perdere tempo ricominciando dal portiere, spostandosi in giro per il campo per facilitare il gioco ai compagni, rallentando una volta arrivati al limite dell’area e dando la spinta finale precedente alla conclusione.
Verratti ha molti talenti ma il primo è il coraggio, ed è quello che forse gli viene meno riconosciuto. Voglio dire: quanto deve essere difficile per un ragazzino alto un metro e sessantacinque farsi strada nel calcio di Cristiano Ronaldo e compiere il salto dal Pescara al Paris Saint-Germain come se niente fosse?
Verratti è diventato l’idolo delle periferie parigine proprio perché sembra un ragazzino di paese che insegna calcio ad atleti professionisti - prima dell’arrivo di Neymar e Mbappé, la sua maglia e quella di Ibra erano quelle che si vedevano di più in giro per Parigi; ma in Italia c’è sempre qualcuno che, in nome di una prudenza che francamente ha poco a che fare con la storia del calcio, è pronto a fargli pesare le palle perse, il dribbling di troppo.
Ma Verratti non è stupido, e anche se lo fosse persino uno stupido sarebbe in grado di immaginare cosa succederebbe se perdesse palla da ultimo uomo nei minuti di recupero e la squadra avversaria segnasse. Anzi, se avesse avuto una mentalità diversa, se, mettiamo, Verratti avesse passato sempre il pallone ogni volta che avesse temuto di perderla, probabilmente non sarebbe mai diventato, e restato, il centrocampista titolare di una squadra ricca come il PSG.
Contro il Portogallo, al 73’, ha perso palla cercando di passarla a Jorginho in mezzo a tre giocatori e l’Italia ha subito una brutta transizione finendo a difendere dentro la propria area. Subito dopo, però, è proprio Verratti ad uscire in dribbling dall’area di rigore e a prendere fallo da Joao Mario.
Per resistere alla pressione con la palla tra i piedi - fondamentale in squadre di possesso che per creare spazi devono attrarre fuori posizione gli avversari - ci vuole anche resistenza mentale, la forza di non cambiare modo di giocare neanche subito dopo un errore. Per questo non solo è sbagliato accusarlo di tenere troppo palla o di correre troppi rischi, ma è anche inutile, perché Verratti gioca solo così.
C’è un’altra azione però, sempre dalla partita con il Portogallo, che giustifica l’amore che alcuni, tipo me, provano per Verratti. Al 34’ recupera una palla al limite dell’area avversaria e prova ad affondare triangolando con Immobile, ma il passaggio di ritorno è sbagliato e il Portogallo calcia lontano. La palla torna a Jorginho, non lontano dalla metà campo difensiva dell’Italia, e subito Verratti si rende disponibile. Riceve di spalle ma non sente pressione e con il controllo orientato si gira subito verso la porta avversaria, poi con un filtrante manda Immobile al tiro da dentro l’area.
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Se preferite la versione animata, qui la prima parte dell'azione, qui la seconda.
Ho l’impressione che quello che il pubblico italiano rinfaccia a Verratti - o meglio: a un giocatore dotato del talento tecnico di Verratti - sia quello di non essere Roberto Baggio. Di non essere, cioè, un giocatore decisivo da solo o quasi. Ed è vero che Verratti non è un giocatore autosufficiente, ma è vero anche che il pubblico è più informato, vede più partite e ha molti più concetti a disposizione di un tempo per giudicare un calciatore. Verratti, ad esempio, è prima di tutto un ordinatore del gioco.
Verratti è un giocatore paziente, ma non è pigro. Non tiene palla senza fare niente, ma si guarda attorno e aspetta il tempo giusto e, se c’è spazio, nel frattempo si sposta per vedere che succede. I suoi dribbling non spezzano l’equilibrio della squadra avversaria, non gli aprono il campo per poi partire in progressione, ma gli permettono di scorrere come l’acqua che trova sempre una fessura dove passare per andare dall’alto verso il basso.
Ha bisogno di compagni a cui scaricare il peso della giocata o rimandare il momento per la ricerca della profondità, giocando a nascondino con gli avversari, giocatori che parlino la sua stessa lingua (tipo Jorginho e Insigne) fatta di passaggi corti e movimenti a smarcarsi, per restringere il campo sulle sue misure. Le gambe corte costringono anche i suoi compagni ad essere precisi: basta un passaggio sbagliato di pochi centimetri per metterlo in difficoltà, anche se prova a compensare con aggressività e coraggio, con interventi che a volte lo portano all’ammonizione.
Inoltre, ha bisogno di giocatori a cui giocare il pallone sui piedi e spesso invece si è trovato a giocare con giocatori che il pallone lo vogliono solo in movimento, nello spazio: nella partita di andata con la Svezia ha giocato con Parolo e De Rossi - che non si muove né è preciso come Jorginho - a centrocampo e Belotti e Immobile in coppia davanti. Era così fuori dal contesto nell’Italia di Ventura che Emiliano Battazzi ha scritto che la sua presenza era “persino deleteria” e si è arrivati al paradosso per cui la sua squalifica per la partita di ritorno ha tolto un pensiero al CT che non sapeva come usarlo.
Roberto Mancini sta impostando l’Italia su dei principi adatti alle sue caratteristiche - possesso palla, baricentro alto, difesa in avanti - e anche quando ha fatto dei cambi ha provato a mettergli vicino giocatori con cui potesse entrare in contatto con frequenza. Verratti è passato dai 57 passaggi effettuati con la Svezia ai 110 con il Portogallo e i 106 con gli USA e quanto meno ha potuto esprimersi meglio.
Verratti non è più un problema per l’Italia, ma non è neanche l’unica soluzione per tornare vincenti. Quando l’ho intervistato, ormai tre anni fa, secondo qualcuno per fare un salto di qualità avrebbe dovuto giocare più vicino alla porta avversaria. «Per me è più facile proteggere palla quando mi vengono a pressare», mi ha detto, «ma è difficile, quando punto una difesa, cercare di saltare l'uomo. In questo devo migliorare ancora e potrei fare molto di più».
E poco dopo ha aggiunto: «Quando giochi trequartista nel calcio di oggi devi avere altre qualità che non ho. Io penso di riuscire a esprimermi meglio quando gioco a centrocampo. Però penso anche che devo e posso migliorare in moltissime cose. Potrei giocare anche un po' più avanti, cercare qualche gol in più, capire quando posso inserirmi e quando devo restare basso. Giocando mezzala va bene che inizi il gioco, ma devo anche finirlo».
Qualche miglioramento l’ha fatto e in un certo senso proprio il gol contro gli USA ne è la testimonianza: ha cominciato e finito l’azione, ma è evidente che Verratti da solo non basta. Contro il Portogallo ha giocato zero palloni nell’area di rigore avversaria e contro gli USA appena 2 (l’unico buono quello per Gagliardini). E non è positivo che, oggi, i limiti della Nazionale - la scarsa capacità di penetrazione in area, la difficoltà nel creare occasioni pulite - coincidano con quelli di Verratti.
Qualcuno potrebbe semplificare dicendo non è che Verratti un giocatore in grado di farti vincere da solo neanche contro una squadra di livello inferiore come gli USA. Ma è una cosa che dovremmo smettere di chiedere a tutti i talenti italiani: perché giocatori del genere sono rarissimi, ma anche perché è un pensiero consolatorio quello secondo cui basterebbe un giocatore solo per farci tornare a vincere.
Persino la Francia ricchissima di talenti non ha vinto la Coppa del Mondo grazie a un solo giocatore. Lunedì prossimo verrà assegnato il Pallone d’Oro e ci sono almeno tre giocatori francesi a cui potrebbe finire: proprio perché nel calcio di oggi è difficile, se non impossibile, assegnare il merito delle vittorie, e il demerito delle sconfitte, a un solo giocatore.