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Il ritorno di Marco Pantani
03 lug 2025
Un estratto da "Pantani. Le storie dietro le vittorie", il nuovo libro di Umberto Preite Martinez edito da Giunti.
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12 min
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IMAGO / Bürhaus
(copertina) IMAGO / Bürhaus
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Pubblichiamo un estratto da "Pantani. Le storie dietro le vittorie", il nuovo libro di Umberto Preite Martinez edito da Giunti. Se volete acquistare il libro, potete farlo cliccando qui.

Il viaggio dell’eroe è un tipo di struttura narrativa che è presente nelle opere letterarie di ogni epoca: nelle tragedie greche, nei poemi epici e nei romanzi fantasy il protagonista, l’eroe, alla fine torna sempre nel posto dove tutto è iniziato, anche se cambiato dalle numerose disavventure che ha affrontato. E il caso vuole che nell’anno del ritorno al Tour de France di Marco Pantani, il Tour de France faccia ritorno là dove la sua stella ha brillato più forte che mai. La mattina del 19 luglio 1997, 172 uomini iniziano a pedalare da Saint-Étienne sapendo che dopo quasi 200 chilometri dovranno affrontare l’Alpe d’Huez. Arriveranno in 171, tutti tranne Chris Boardman. Il giorno prima si era corsa la cronometro, proprio a Saint-Étienne: 55 chilometri e mezzo, su fino al Col de la Croix de Chaubouret e ritorno. Jan Ullrich era partito per ultimo essendo il primo in classifica. Nelle cronometro dei grandi giri si parte così: uno alla volta, dall’ultimo al primo. I primi a partire scendono dai blocchi con un minuto di differenza l’uno dall’altro; gli ultimi, ovvero i primi della generale, partono uno ogni 3 minuti. Richard Virenque parte quindi 3 minuti prima di Ullrich e ha davanti a sé una lunga salita da affrontare, il suo pane quotidiano. Il francese resiste per 50 chilometri e rotti; nelle tabelle è indietro, certo, ma sembra poter evitare quantomeno l’umiliazione di essere raggiunto. E invece proprio sulle ultime curve la sagoma di Jan Ullrich - enorme, giallo, i capelli chiari che si chiudono sugli avambracci - compare all’improvviso come un’orca assassina sulla sua preda. Non un’aquila, leggera e aggraziata, non una tigre, agile e imperiosa: «Non è elegante come Anquetil. Non è cannibalesco come Merckx. Non è aggressivo come Hinault. Non ha il cuore lento come Indurain. Eppure è già nella loro scia», scrive Angelo Zomegnan sulla Gazzetta dello Sport del 19 luglio 1997. Ullrich è un’orca, brutale, enorme, goffa, feroce e dà la mazzata finale sul Tour de France: 3 minuti e 4 secondi a Virenque, 3 minuti e 8 a Bjarne Riis, 3 minuti e 14 ad Abraham Olano. Sono tutti lì, i suoi rivali, più o meno sugli stessi tempi; è lui che è anormale, un fenomeno. Gli spagnoli hanno cercato per anni l’erede di Miguel Indurain senza sapere che era già nato ma a Rostock, nella Germania Est, il 2 dicembre 1973. Pantani fa un’ottima cronometro, avvantaggiato anche dalla presenza di una salita di una quindicina di chilometri a metà percorso: è quinto a 3 minuti e 42 secondi, più o meno sui tempi dei suoi rivali per il podio – perché ormai si lotta per quello.

La tappa del 19 luglio è lunga, si superano i 200 chilometri anche se di poco e anche se da Saint-Étienne a Le Bourg-d’Oisans la strada è quasi completamente pianeggiante. Il gruppo quindi imbocca la salita a tutta velocità tirato dagli uomini della Telekom che fanno una volata lunghissima per tenere davanti la maglia gialla di Jan Ullrich, ma ancor prima del primo tornante uno scatto privo di senso di Cédric Vasseur cambia le carte in tavola. Gli uomini Telekom, forse provati dallo sforzo fatto in pianura, si sfaldano lasciando campo libero alla Festina. È il francese Pascal Hervé con la sua folta chioma bionda a guidare il capitano Virenque lungo i primi tornanti della salita; Hervé raggiunge Vasseur senza quasi fare sforzo, dopodiché prosegue nella sua azione allungando il gruppo o quel che ne rimane. Dopo poche centinaia di metri, Hervé rallenta la sua azione: sono rimasti in cinque alle sue spalle, tutti gli altri sono già sparpagliati lungo quel nastro grigio che sale verso la vetta. La velocità altissima con la quale il gruppo ha preso la salita ha fatto subito male a tanti contendenti: non a Ullrich, che con la sua maglia gialla affianca Virenque in maglia a pois. Non a Casagrande, che è ancora lì davanti, forte della buona prestazione del giorno prima e di una condizione che sembra in costante crescita. Non a Bjarne Riis, che a differenza del suo giovane compagno di squadra tedesco si alza spesso sui pedali facendo dondolare le spalle così larghe che sembra quasi sul punto di sbilanciarsi da un momento all’altro. Non a Marco Pantani che, nascosto nella ruota di Ullrich e Virenque, si toglie il cappellino giallo della Mercatone Uno e mostra al mondo il suo cranio rasato.

Il primo attacco arriva al tornante numero 20, il secondo dei 21 che contraddistinguono la salita dell’Alpe d’Huez. Pantani si è tolto il cappellino, ha assaporato per un po’ il ritmo di Ullrich e poi si è portato davanti: prima con calma, senza dare nell’occhio, forse solo con l’intento di prendere il tornante davanti a tutti. E poi, con forza, le mani basse, lo sguardo vitreo, con una frustata all’uscita di curva. Virenque è il primo a capire che sta succedendo qualcosa e si mette subito a ruota del romagnolo, che nel frattempo ha avuto in dote un nuovo soprannome: non è più l’Elefantino, come veniva chiamato a inizio carriera per via delle sue orecchie grandi e un po’ a sventola; ora che ha l’orecchino, la bandana e la testa rasata, è diventato per tutti semplicemente il Pirata, e così sarà per sempre. Pantani affronta in testa, rilanciando l’azione in piedi sui pedali, tutto il settore che va dal tornante numero 20 a quello successivo; dopodiché si sposta per guardare in faccia i suoi avversari e vedere l’effetto che ha fatto quell’attacco appena accennato. Virenque è sempre lì, Ullrich è impassibile, Riis non molla; Casagrande è l’unico a staccarsi, sa che seguire quel ritmo sarebbe un suicidio. Lo sguardo di Pantani torna a inseguire quel punto invisibile davanti a lui, lassù da qualche parte che si muove lungo quel serpente grigio adagiato sulla montagna. Le mani sono sempre basse sulle pieghe del manubrio, perché tanto i freni ormai non servono più; la schiena è dritta, parallela al terreno, meravigliosamente elegante. La differenza fra lui e un altro scalatore come Richard Virenque, per quanto il francese fosse anch’egli un grande talento, visivamente è tutta qui: il francese pedala con la schiena a 45 gradi rispetto al terreno, le mani alte sul manubrio creano un movimento meno armonioso fra la bicicletta e il suo corpo; la testa si muove spesso a cercare gli avversari, a guardare la strada davanti a sé o a controllare la ruota di chi lo precede. Pantani invece ha le mani basse, la testa bassa, la schiena completamente parallela al terreno. È immobile, una statua che pedala incessantemente, come se riuscisse ad allontanare da sé tutto ciò che lo circonda.

Marco Pantani non si ferma praticamente mai. L’ha fatto due volte: una prima volta al tornante 19 per controllare, una seconda volta dopo il tornante 18 per vedere cosa avrebbero fatto gli altri. In particolare cosa avrebbe fatto Virenque, secondo in classifica generale alle spalle di Ullrich. Ma il francese non si muove: affianca Pantani per un attimo, più per inerzia che per altro, e poi ricomincia a voltarsi, senza sapere bene cosa fare; e allora il Pirata si rimette davanti e ricomincia a martellare. Sul drittone fra la curva 16 e la curva 15, all’altezza del paesino di La Garde-en-Oisans, Bjarne Riis inizia a spalancare la bocca e gli occhi alla ricerca di aria, di ossigeno per i suoi muscoli, ma non c’è abbastanza aria per alimentare quell’ammasso di carne e ossa che cerca faticosamente di trascinarsi lungo la salita. Mancano poco più di 11 chilometri quando il danese con il numero 1 sulla schiena perde contatto dal trenino guidato da Marco Pantani. La sua andatura si fa improvvisamente pesantissima, le sue spalle larghe non danzano più ma sono solo un peso in eccesso da portare e all’improvviso la maglia gialla del suo compagno Ullrich sparisce per sempre dietro al tornante numero 15. Là davanti però anche Virenque comincia a dare segni di cedimento: alterna freneticamente la posizione seduta a quella in piedi sui pedali ma è sgraziato in entrambe le fasi; le spalle ciondolano senza dare ritmo, la testa gronda sudore in eccesso, le braccia non riescono più a far ondeggiare armoniosamente la bici per accompagnare il peso del corpo ora su un pedale ora sull’altro e la sua pedalata si fa così sempre più meccanica, sempre più appesantita. Il sudore sul cranio rasato di Pantani invece fa risplendere ancor di più la rotondità della sua testa, sempre china verso il basso, perché a guardare troppo in alto si rischia di bruciarsi. Poco dopo il tornante numero 14 Pantani riparte di nuovo: è il secondo attacco vero e proprio, anche se è tutta la salita che sta lì davanti a impostare il suo ritmo. Virenque non riesce a reagire e allora si mette a ruota di Jan Ullrich che invece ne ha ancora per tornare sotto, rintuzzando senza mai alzarsi dal sellino. Il francese continua nella sua giostra: in piedi, seduto, in piedi, seduto; non ha ritmo, non ha logica, ma soprattutto non ha più la forza di seguire quell’andatura e infatti quando la strada si arrotola di nuovo su sé stessa formando il tornante numero 13, Virenque alza bandiera bianca. Mancano ancora poco più di 10 chilometri al traguardo.

Jan Ullrich è una sfinge, non lascia trasparire nessuna emozione. Continua a pedalare seduto alle spalle di Pantani, mulinando le gambe con un rapporto più agile rispetto al capitano della Mercatone Uno che si volta a guardarlo negli occhi e forse invece dalla sua posizione privilegiata riesce a capire qualcosa. Capisce forse che Ullrich ha superato ogni suo limite, che dietro a quello sguardo freddo in realtà si nasconde il vuoto della fatica. E infatti al tornante successivo, il numero 12, la distanza fra la ruota anteriore della bicicletta di Jan Ullrich e quella posteriore della bicicletta di Marco Pantani inizia improvvisamente a dilatarsi fino a diventare una voragine. Un ragazzo corre con una bandiera tedesca in mano accanto alla maglia gialla, cerca di spingerla un po’ più su prima che la sua natura germanica, ligia alle regole, non lo porti a riconsiderare il suo gesto. Prima del tornante numero 8 compaiono dei tifosi italiani che sventolano un’enorme bandiera tricolore sopra alle teste dei ciclisti che ormai passano uno alla volta, sgretolati dal ritmo imposto da Pantani sin dalle prime rampe. Alla curva 7, che non è un vero e proprio tornante, ci sono i tifosi olandesi: è la loro curva, il loro posto in paradiso. Acclamano anche loro il Pirata, perché quella meraviglia della natura è patrimonio di tutti coloro che amano questo sport. Quello strano scalatore che pedala con le mani basse sulle pieghe del manubrio, come fosse un velocista intento a lanciare lo sprint: «Più che un ciclista, Pantani è un’emozione, un giro più veloce del sangue, un soffio sul cuore», scriverà il giorno dopo Gianni Mura sulla Repubblica. Il tornante numero 6 è quello degli spagnoli, più civili degli olandesi: non corrono accanto a Pantani, non si prendono un pugno in petto per avergli fischiato nelle orecchie correndogli accanto. Agitano le bandiere rosse e gialle ma si aprono per farlo passare e Pantani passa, la sua azione è ancora decisa e incessante. Ullrich invece ha la faccia deformata da un’espressione di dolore: staccatosi da Pantani e lasciati alle spalle gli altri avversari, non ha più motivo di fingersi inumano. Anche Ullrich soffre, stringe i denti, prova la fatica che proviamo noi comuni mortali, mentre Pantani sembra essere in una dimensione superiore. Negli ultimi 5 chilometri la strada è costeggiata da due fiumi di gente. Le bandiere danesi si alternano a quelle italiane, svizzere, spagnole, basche, francesi, catalane, bretoni. Un mare di persone in festa che si apre al passaggio dei ciclisti, all’ultimo momento perché tutti vogliono portarsi a casa da quella giornata un pezzo di memoria visiva di ciò che sta succedendo, anche se la maggior parte di loro non ha veramente idea di cosa tutto quello significhi.

A 3 chilometri dal traguardo il ritardo di Ullrich da Pantani è di 34 secondi. Un chilometro dopo, un oceano di folla da evitare, di manate, di acqua in faccia, di spintoni, spallate e grida e fischi dopo, il ritardo è sceso a 25 secondi. Ma da lì in poi Pantani ha la strada libera, le transenne tengono lontani i tifosi quel tanto che basta per poter pedalare senza pensare a dove metti i piedi. E infatti Pantani rilancia ancora una volta la sua azione: stavolta attacca per staccare nessuno, la sua ombra, i suoi tifosi, i suoi pensieri. Si alza sui pedali a ogni tornante per ridare velocità alla sua bicicletta, evitando l’interno della curva dove la pendenza è più dura e potrebbe ostacolare il suo cammino. Sul rettilineo finale continua a spingere, fino agli ultimi metri: «Il Pirata, il Pirata ha colpito», se la ride Adriano De Zan in telecronaca unendosi con la sua voce all’emozione di Pantani sulla strada e alle lacrime di gioia di tutti i suoi tifosi arrivati fin lassù da ogni parte d’Italia e dalla sua Romagna, solo per lui: «Sai che ho visto piangere uno di cinquant’anni che pesa 150 chili, e solo allora ho pensato che avevo fatto un bel numero?». Sul traguardo, Pantani alza le braccia in alto solo per un attimo prima di stringere i pugni e colpire l’aria davanti a sé per dare corpo a due anni di frustrazione. L’ultima vittoria di tappa era arrivata proprio al Tour de France, nel 1995; due anni dopo, Pantani è di nuovo sul tetto del mondo. Era precipitato nel baratro della sfortuna, trascinato a fondo come schiacciato da ogni male del mondo. È ripartito, si è rimesso in piedi e ora è di nuovo là, due anni dopo, a conquistare la stessa montagna che in quel 1995 l’aveva consacrato. L’Alpe d’Huez è la sua salita, perché non c’è salita più iconica di quella nel mondo del ciclismo e non c’è scalatore più grande di Pantani nella storia del ciclismo. È l’incontro di due destini che non potevano restare separati.

Jan Ullrich arriva con 47 secondi di ritardo, Virenque è terzo a un minuto e 27 secondi. Un minuto ancora e arriva Casagrande con Bjarne Riis; a 2 minuti e 59 secondi ci sono invece Zberg e Conti, gli ultimi gregari che Pantani aveva risparmiato per la salita, senza averne poi davvero bisogno. Abraham Olano è dodicesimo a 3 minuti e 25 secondi: per Pantani significa il momentaneo terzo posto in classifica generale; un podio che difenderà con le unghie e con i denti fino a Parigi. Ma come sottolinea Gianni Mura: «Non è per questo che si rimonta la corrente, il gruppo, la vita. Non è per il podio, è per sentirsi vivi. Davanti a Pantani, l’Alpe d’Huez è un cane con le orecchie basse».

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Il ritorno di Marco Pantani – Ultimo Uomo