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Diego Guido
Marco "moody" Negri
23 mar 2016
23 mar 2016
Ascesa e caduta di uno dei più grandi bomber che l'Italia abbia mai esportato.
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Diego Guido
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(da Wikipedia)

 

Punto.

 



Avevo una mia tesi su Marco Negri. Ce l'ho da quando la sua carriera si è inceppata a 27 anni. La tesi diceva più o meno che “Marco Negri era un gran giocatore dentro una persona troppo normale”. Con una sensibilità forse troppo alta per gestire una vita sul palcoscenico e una corazza non sufficientemente spessa per sopportare l'esasperante ricerca del risultato. Ecco perché, mi dicevo, quando troppi bastoni gli si sono messi tra le ruote, Negri non ci ha trovato più gusto. Ci ha trovato solo i suoi errori e il suo malessere.

 

Ma avere una tesi non mi bastava. Volevo provarla, volevo ottenere un Teorema Negri. Per cercarlo dovevo scendere più in profondità, scavare nel personaggio.

 



Un bambino degli anni '80 che vive a Staranzano, vicino Monfalcone, vicino Trieste, non è così scontato che scelga di giocare a calcio. Potrebbe preferire la pallacanestro. Facile che accada se ti travolge il vento che nasce dalle parti di Senj, sulla costa dalmata, e ti lancia addosso il fascino del sontuoso basket jugoslavo. A Marco Negri è accaduto. Viveva a Staranzano e, fino a 12 anni, ai gol preferiva i tiri da tre.

 

Il suo miglior amico si chiamava Andrea Pasian. La conversione di Marco dal canestro alla porta, è stata merito suo. Nel provinciale giocano bene e vincono molto. Dopo il primo anno di Esordienti, l'Udinese li chiama per un provino. Marco è molto bravo, Andrea molto di più. Il miglior difensore classe 1970 di tutta la regione. In pratica salgono in Friuli – perché Friuli e Venezia Giulia sono due distinte regioni geografiche e dell'anima – per accompagnare Andrea ad una selezione certa, ma al ritorno l'unico vestito di bianconero è Marco. Nella partitella davanti agli osservatori erano finiti in una squadra troppo più forte dell'altra: facile mettersi in mostra per uno che fa gol, impossibile per uno che sta dietro.

 

Diventa maggiorenne nell'autunno dell'88, quando dovrebbe essere il tornante destro della Primavera. Di fatto è aggregato alla prima squadra già dal ritiro estivo. Nonostante non creda di essere tra i migliori, a Nedo Sonetti piace molto. Il mister toscano guida un'Udinese giovane e tutta italiana, lontana già 3 anni dall'addio di Zico. Nella cavalcata verso la promozione trova lo spazio di 3 presenze anche Negri. A maggio la situazione è idilliaca. Marco è un giovane del vivaio molto stimato dall'allenatore e la squadra sta per tornare in Serie A. Facile, no? No. Sonetti va ad Avellino, l'Udinese in Serie A, Negri in C2. Prestito a Novara. Gioca lì un anno poi torna a Udine, di nuovo in B.

 



Buffoni Adriano e Balbo Abel sono due persone che Marco incontra al suo ritorno in Friuli e che ringrazierà per sempre. Buffoni è l'allenatore che capisce che la fascia non è il posto giusto per Negri e lo sposta davanti. Balbo è il compagno di squadra da cui Negri apprende l'ABC della brava punta. Lo studia ogni giorno per un anno intero. Trova il sorriso, la stima dei compagni e soprattutto una sua chiara identità calcistica. Le statistiche di quel '90-'91 però registrano solo 5 presenze e ancora 0 gol. La Ternana se ne frega e in estate lo riporta in C1 per ben 2 miliardi.

 

In Umbria sono alti e bassi. Assieme al primo gol, arrivano anche i primi attacchi della stampa e le prime reazioni mute di Negri. A Giugno '92 sulla pagella c'è scritto «è bravo ma potrebbe fare molto di più». I giudizi sulla sua carriera rimangono incerti e i gol ancora pochi: 4 in 4 anni.

 

1988, 1989, 1990, 1991, 1992. Anni di passaggi rivoluzionari. Cade il Muro, finisce la Guerra Fredda, il sistema politico italiano viene ribaltato da Mani Pulite. Il mondo contemporaneo  viene semplicemente stravolto. Il ritmo febbrile con cui muta l'attualità accentua ancor di più la lentezza dei suoi primi anni da professionista. Marco è come la pigra ruota panoramica dentro un luna park pieno di vertiginose montagne russe. Quando sta per accorgersene, suona il telefono. Prefisso 0984, chiamano da Cosenza.

 



è una cosa che dicono a Cosenza quando devono guardare avanti e fregarsene di quel che è stato. Devono averlo pensato anche i dirigenti rossoblu quando nel '92 acquistano Marco Negri e lo riportano di nuovo in B. Avranno pensato che quel tipo con la zazzera alla David Bowie avesse qualche numero ancora inespresso.

 

Il primo anno in Calabria è emblematico e anticipa tutti i topos ricorrenti nell'epopea negriana. Per esempio il suo bisogno di instaurare una profonda sintonia con i compagni e con la città. Per esempio gli enormi errori che commette quando non ci riesce. Appena arrivato a Cosenza non lega con lo spogliatoio e lo spogliatoio non lega con lui. Il punto di non ritorno è l'allenamento in cui sputa ad un compagno che da qualche minuto lo marcava con qualche calcio di troppo. Deve scappare da Cosenza. Non si allena bene, non è lì con la testa. Aspetta con ansia tutte le trasferte al Nord per poter fuggire a casa e rifugiarsi nella famiglia e negli amici per qualche ora. Il Bologna lo salva: Lele Oriali, ds degli emiliani, lo prende in prestito.

 

Scende di nuovo in C1 e lo fa con molto piacere. Il feeling con città e compagni è immediato e, guarda caso, lui gioca leggero come mai prima. Fa 8 gol, in pratica tanti quanti ne aveva fatti in tutti gli anni precedenti. Si ambienta così bene che fa un po' troppa vita notturna per i gusti del nuovo mister Ulivieri. Così non viene riscattato.

 

Rimettere piede a Cosenza e dentro lo spogliatoio gli fa tornare il mal di stomaco. Poi però capisce che in fondo il gioco di Zaccheroni può essere divertente. Che in fondo i calabresi non sono male. Che alla fine forse qualcosa si è sbloccato. Al secondo tentativo con la maglia dei lupi segna 19 gol. A quasi 25 anni, dopo aver pensato anche di mollare, capisce che nonostante abbia perso qualche treno, ora sta finalmente correndo sui binari che voleva.

. Si guarda avanti.

 



Parlare con i gol, la frase fatta che spesso riempie le interviste, è sempre stata giusta per Marco Negri. Tutto era cominciato a Terni, dove si era accorto per la prima volta della rapidità con cui i giornalisti cambiavano opinione. Da allora aveva scelto di non leggere più i giornali e di non rilasciare più interviste. Aveva capito che lo aiutava a mantenere meglio un suo equilibrio psicofisico.

 

I tifosi spesso non l'hanno mai sentito parlare. Viene accusato di supponenza. A volte di arroganza. Alla fine, comunque, la quantità di gol che inizia a segnare sterilizza ogni polemica sul nascere.
https://www.youtube.com/watch?v=Ix29ZB3a5a4

 

Flashforward: Perugia, il giorno della promozione in A. Negli spogliatoi del Curi, dopo Perugia-Verona 3 a 2, è partita la festa. Negri è stato il mattatore di giornata. Ha segnato il suo 17esimo e 18esimo gol in campionato. Una doppietta che vale partita e promozione. A luglio gli avevano chiesto di essere l'uomo-gol della squadra; a giugno era diventato l'uomo-simbolo di una città. Inevitabile che a fine partita i giornalisti volessero un commento dalla voce dell'eroe.

 

Il fastidio che prova lui alle domande dei giornalisti è lo stesso di quando vieni richiamato a casa da tua madre mentre stai giocando al campetto con i tuoi amici. Gli stanno impedendo di divertirsi, lo tengono lontano dalla festa dei compagni. Sono domande normali. Eppure per lui sono un fastidio inaffrontabile. Una tortura che non si merita.

 



Dopo la cadetteria di metà classifica a Cosenza, è pronto al gradino successivo. Il Perugia vuole puntare alla A e Gaucci sceglie di provarci con lui. In squadra ci sono un paio di futuri allenatori di livello (Allegri e Atzori) e un paio di futuri campioni del mondo (Materazzi e Gattuso). Loro quattro, tutto il resto della squadra, i tifosi, la città, i gol promozione li chiedono a Negri.

 

È la prima volta in carriera che qualcuno gli consegna delle aspettative da mantenere. La prima volta che, fin dall'inizio dell'anno, deve gestire la pressione del ruolo di giocatore decisivo. Arriva con il credito dei 19 gol dell'anno prima, ma non ha scelta, deve rilanciare. Ma l'inizio non è per niente facile. Nelle prime 8 lui non segna e il Perugia ne vince una sola, pareggiandone 4. Poi il 22 ottobre Negri inizia a segnare e il Perugia ad arrampicarsi sulla classifica. Finirà in trionfo. Il primo e anche quasi l'ultimo per lui, da giocatore. Dopo averla conquistata e solo intravista sette anni prima – da giovane comparsa nell'Udinese di Sonetti – ora Negri la A se la prende con i suoi stessi gol.

 

L’anno successivo è il suo primo in Serie A. Il Perugia non si salva, ma lui riesce comunque a colpire gli avversari 15 volte. Arrivano complimenti e applausi. Per la prima volta, forse, Negri si sente davvero forte e sicuro, la B gli va stretta e non può più restare a Perugia.

 



Proprio in quel momento, a Glasgow, i protestanti Rangers sono nel pieno della loro svolta laica. Dopo quasi un secolo di ortodossia religiosa, in cui Rangers e Celtic si erano proiettate su Belfast come insegne di guerra di protestanti e cattolici, nel 1989 era arrivata la svolta. Il presidente David Murray e il manager Graeme Souness avevano convinto Maurice Johnston a firmare e diventare così il primo giocatore cattolico della storia dei Rangers. Un abominio per il popolo blu. Disordini pubblici, contestazioni alla società, minacce di morte al giocatore. Due anni dopo Souness se ne va al Liverpool: «Non accetterò mai il fanatismo e ad Ibrox il fanatismo ci sarà sempre». Ma nel 1997 il peggio era passato e il giocatore cattolico era una figura tollerata.

 

L'estate porta zanzare e tormentoni. Quelli del ‘97 sono

di Jovanotti e l'italianissima campagna acquisti dei Glasgow Rangers. I 9 titoli nazionali consecutivi non bastavano più: ora i Gers volevano darsi un'impronta più internazionale. Lo fanno guardando alla Serie A, all'epoca ancora il campionato europeo di riferimento. Nella Little Italy di Glasgow atterrano solo tutti insieme il giovanissimo Gattuso, l'esperto Porrini e il futuro primo-capitano-cattolico Amoruso. Quando il manager Smith capisce di dover trovare un sostituto per il 35enne McCoist, i Rangers tornano di nuovo in Italia. Cercano un giocatore d'area da 20 gol. Trovato: Marco Negri.

 



Una delle squadre più sorprendenti degli ultimi decenni è stata il Verona dello scudetto dell'85. Era stata costruita con giocatori non di primo piano e aveva vinto nella sorpresa generale. «Con Bagnoli ci siamo sentiti come uccelli fuori dalla gabbia». La frase di Fanna spiega bene la sensazione di sublime spaesamento nel ritrovarsi in cima dopo aver passato una vita a guardare tutti – ok non tutti, ma molti sì – dal basso. Lo scudetto dell'Hellas è per certi versi una situazione di rovesciamento analoga all'impatto di Marco Negri in Scozia. Che più che un impatto, è un frastuono. Nelle prime 10 partite di campionato fa 23 gol. 10 partite. 23 gol. Segna consecutivamente 2, 5, 1, 2, 2, 1, 2, 4, 1 e 3 reti. Totale 23.

 

Il salto professionale che sta compiendo è triplo e carpiato. Prima di allora aveva sempre giocato in provincia. Solo due anni prima – a quasi 26 anni – si era definitivamente affermato come ottimo attaccante di B. Solo un anno prima – a 26 anni compiuti – aveva esordito in Serie A. Ora – a 27 anni – giocava al fianco di Gascoigne ed era l'idolo di una squadra che giocava le coppe e lottava per il titolo.

 

Con la maglia blu, da agosto a dicembre, segna gol bellissimi e rocamboleschi. Nei gol bellissimi (come

) c'è il Negri consapevole che, dopo anni di durissima gavetta, si trova dentro il suo Momento e che è certo di volerselo godere provando anche le giocate più difficili. Nei gol rocamboleschi (come nel

) esce la normalità delle sue doti tecniche compensata dalla a-normalità della sua cattiveria agonistica: dentro a quella bolla magica, la convinzione nei suoi mezzi poteva tutto, anche segnare un rigore dopo due ribattute.

 

Ma bellissimi o rocamboleschi che siano, sono tutti gol impregnati di uno stile decisamente britannico. Viene da pensare che oltre al suo Momento, quello sia anche il suo Posto.

 



Marco Negri è un prodotto calcistico inconfondibilmente anni '90. Sulla sua confezione ci avevano appiccicato l'etichetta di introverso, scorbutico e difficile da gestire. Così quando nell'estate del 1997 quel prodotto italiano viene esportato in Scozia, da quelle parti traducono tutte quelle scritte sull'etichetta con un unico aggettivo:

, lunatico.
https://youtu.be/WtAXVJvrEXM?t=7m47s
L'accusa di non ridere arriva a tradimento. Lo coglie di sorpresa e di fronte a quel colpo basso Marco è impacciato. Si difende dicendo «I'm happy but I don't smile. It's concentration for the match» e gli leggi in faccia lo stesso fastidio che provava nello spogliatoio di Perugia il giorno della promozione. Le domande sono riflettori che sente di avere puntati addosso come mirini. Alle persone normali i microfoni mettono un'imbarazzata soggezione.

 

In ogni caso Marco continua a segnare e la classifica della Scarpa d'Oro lo vede davanti a tutti, anche al primo Ronaldo interista. William-Hill sospende le scommesse su di lui come primo marcatore dei match: ormai è scontato. I 23 gol nelle prime 10, col passare del tempo diventano 30 nelle prime 19. Alle sue orecchie arriva anche una piacevolissima indiscrezione legata alla Nazionale. I suoi gol stanno attirando le attenzioni del ct azzurro Cesare Maldini. Vorrebbe convocarlo per una delle amichevoli in preparazione del Mondiale in programma per l'estate. A Francia '98 potrebbe esserci posto anche per lui.

 

Poi di colpo, si ferma. Tra campionato e coppe segna 35 gol fino a Natale e poi la miseria di 4 da gennaio a maggio.

 

È successo qualcosa?

 



Il bioritmo settimanale di un giocatore italiano di fine anni '90 prevedeva due picchi di sforzo: la domenica, il giorno della partita, e il mercoledì, il giorno della “doppia”. In Scozia era diverso. Per loro il mercoledì era il giorno di riposo. Impossibile. Il fisico di Negri, di Gattuso e degli altri italiani di quei Rangers, il mercoledì chiedeva  allenamento. Magari anche con una partita a squash tutta scatti e reattività. L'ideale per allenare il fisico di un

come Marco.

 

E così lui e Sergio Porrini decidono di andare alla LivingWell, una palestra di Glasgow, e parcheggiano. Ma, a differenza di Porrini, Negri era solo la seconda volta che giocava a squash. Lo confesserà in un'intervista al

,  in cui dichiara una cosa che è la chiave per capire davvero quel giorno e la restante parte della sua carriera.  Negri dice che Porrini, oltre ad essere più pratico di squash, era uno che anche lontano dal calcio manteneva una competitività feroce (il giornalista ha proprio scritto

). In quella frase si capisce quanto lui si senta lontano da quella visione dello sport, del calcio, della vita. Lui non gioca con la bava alla bocca. Lui gioca per il piacere che gli dà scendere in campo e provare a buttarla dentro. Quella è la sua visione.

 

Quel pomeriggio forse Porrini tira troppo forte e forse Marco non è nella posizione corretta. Forse uno vuole vincere anche quella partita di squash e l'altro solo mantenere il tono muscolare. Comunque sia, la pallina colpisce Marco proprio in mezzo all'occhio destro. Sembra una cosa da niente, diventerà una cosa da tutto.

 

La diagnosi riporta un parziale distaccamento della retina. Vede continui flash, soffre di mal di testa e nausee. Deve stare a totale riposo per un mese e mezzo. Assurdo doversi fermare in quello stato di grazia per un incidente con lo squash. Un'assurdità che non riesce a razionalizzare.

 



Negri ha la percezione che si sia rotto un incantesimo. Si sente di nuovo fragile ed esposto ad attacchi imprevedibili. Le voci dicono che l'occhio nero non sia dovuto all'incidente con lo squash, ma a una rissa nello spogliatoio. Smith inizia a far giocare McCoist, che inizia a segnare con regolarità, con il pubblico  che inizia quindi a osannarlo. Per questo motivo, Negri forza il rientro e questo causa qualche altro piccolo infortunio. Si aspetta un sostegno che l'allenatore non gli dà. Di colpo si sente messo da parte, non sente l'affetto che sentiva prima.

 

Inizia a non sentirsi più bene nello spogliatoio e nemmeno a Glasgow. All'improvviso inizia a soffrire il clima scozzese. La sola vista dello stadio, dello spogliatoio, della città diventa un ago nella carne. Nei periodi di convalescenza si presenta nella tribuna di Ibrox senza cravatta d'ordinanza, con barba lunga e orecchino. Come se volesse punire quell'ambiente dimostrando la sua orgogliosa ribellione.

 

Dopo 35 gol da agosto a Natale, nel primo momento di difficoltà si sente abbandonato. Vuol farla pagare a tutti; non si accorge che la pagherà lui. La miglior stagione della sua carriera, di fatto, si ferma a Natale. I Mondiali sono il castello di sabbia poco oltre il bagnasciuga. L'onda di Marco Negri sembrava abbastanza forte da poterlo raggiungere, e invece inizia a ritirarsi appena prima di lambirlo.

 



«Ciao Marco, sto scrivendo un tuo ritratto e mi piacerebbe parlartene». «Certo». A Bologna, un sabato mattina, Marco Negri mi ha raccontato la sua storia.

 

Siamo seduti al tavolino di un bar. Appena ci portano i nostri caffè, gli parlo della mia ricerca di un Teorema Negri definitivo. «Io la vedo così: tutto è svanito così in fretta perché tu eri un bel giocatore dentro una persona normale. Troppo poco cinico per vivere in ambienti che non amavi o per fregartene quando ti voltavano le spalle. Non eri emotivamente cannibale, ecco. La spiegazione di tutto credo sia lì. Come la vedi?». Dice che può essere. Di sicuro ammette che i mesi dopo l'incidente hanno aperto ferite che si è portato dietro per anni. «Ora ne parlo serenamente, ma ti assicuro che c'erano giorni in cui non vedevo vie d'uscita».

 

Mi racconta che l'estate dopo l'incidente voleva scappare da Glasgow. Un'urgenza fisica che gli fa fare molti errori. La concatenazione di passi falsi inizia quando lo cerca il Betis Siviglia. La trattativa si blocca sulle cifre e Marco decide di mettere pressione al club. Dice di voler andare via; rifiuta di allenarsi con la prima squadra; ignora gli interessanti piani tattici del nuovo tecnico Advocaat che lo vede come unico vero

in rosa. Il mercato si chiude e lui resta. La prigionia scozzese da non-giocatore inizia lì.

 

Il suo atteggiamento lo porta allo scontro con il presidente Murray. Il magnate dell'acciaio è un tipo abituato alle battaglie. Ha rotto la tradizione anti-cattolica dei suoi tifosi e vive senza le gambe che un incidente stradale gli ha portato via. L'ottuso vittimismo di quell'italiano gli fa perdere la pazienza.«Per me puoi anche giocare i prossimi tre anni di contratto nel mio giardino di casa», gli dice una volta. Negri, fuori rosa e senza stipendio, riceve anche le lettere dei fan dei Rangers che ora si ricordano delle sue origini. Gli scrivono «Non sarai mai dei nostri» e «Fottuto cattolico».

 

Nel gennaio ‘99 riesce a ottenere un prestito di 6 mesi al Vicenza. Dice che la presunzione che aveva allora gli ha fatto credere di poter giocare in Serie A dopo che non si era allenato per mesi. La schiena gliela fa pagare con un grave infortunio alle vertebre. Torna a Glasgow e, tra guarigioni e ricadute, si porta dietro quell'infortunio per un anno. Rischia di rimanere zoppo per tutta la vita. I Rangers gli rinfacciano di essere un capitale che si svaluta giorno dopo giorno. La battaglia tra Marco e la società è su due fronti: quello medico per come curare la schiena, quello legale per il riconoscimento delle mensilità.

 

La triste fine della storia tra Negri e i Gers la scrive una sentenza Fifa: la società deve versare al giocatore tutti gli arretrati. Dopo 3 stagioni, dal 98 al 2001, in cui ha giocato con gli scozzesi solo 3 partite, le scorie dello stress accumulato sono tutte nel suo sangue. Le analisi danno valori in linea con quelli di un soggetto sieropositivo. «Non era più una questione di giocare o non giocare. Era diventata molto molto più grave».

 



Tutto si risolve quando torna finalmente e definitivamente in Italia. Prima di pensare al peggio, i medici vogliono capire se quelle analisi non siano frutto di un quadro nervoso troppo debilitato. Era proprio così. Per rimettere a posto le analisi serviva una vacanza lontano da carte bollate, vertebre lesionate, tribunali e terapie. La prigione si era aperta.

 

Gli ultimi anni tra Bologna, Cagliari, Livorno e Perugia li definisce «una questione strettamente personale». Voleva dimostrare a sé stesso di essere di nuovo padrone del proprio corpo e della propria mente. Voleva tornare a divertirsi. La fine della carriera ha coinciso con la gravidanza di sua moglie. Dopo tutto quello che aveva passato, a quel punto Marco non ha avuto dubbi sull'ordine da dare alle cose. Fare il papà era la cosa che più gli importava.

 



Io nel 1998 avevo 12 anni e quei 5 mesi scozzesi di Marco Negri giuro che li avevo presi per veri. Tutti quanti i suoi 29 goal da agosto a dicembre erano l'inespugnabile fortezza da cui io e i miei sogni ci difendevamo dagli attacchi delle temibili truppe dei Weah, dei Figo, degli Zidane. E dei Ronaldo, naturalmente. Loro erano eserciti che avanzavano demolendo ogni illusione. Imponevano a te bambino la certezza che per diventare un campione avevi bisogno di un talento mostruoso e che dovevi essere nato con doti che ti eri già accorto da un pezzo di non avere. Loro erano giocatori del futuro che, per sbaglio, giocavano 15 anni prima che il futuro arrivasse. Esibivano un tasso tecnico inarrivabile spalmato su velocità, potenza e tempi di gioco diversi dagli altri 21 in campo.

 

Al loro confronto Marco Negri sembrava un giocatore degli anni ‘80. Al loro confronto sembrava uno di noi, da grande, là in alto. Era la dimostrazione che anche chi non aveva un talento ultraterreno poteva comunque, prima o poi, trovare l'estuario giusto per far sfociare i sogni dentro la realtà.

 



Ed è forse proprio per questo che Marco Negri non è sopravvissuto a quel mondo. Essere

inizia a diventare un peso da sacrificare se il tuo obiettivo è diventare

. E il suo sogno non era questo, anche se l’ha scoperto dopo anni di patimenti e sofferenze.
https://www.youtube.com/watch?v=gsCRoyXmqUo
L'intervista che rilascia al CSI di Bologna è la più serena che si possa trovare al Marco Negri calciatore. Una telecamera su un campetto amatoriale di calcio a 7 lo mette più a suo agio di quanto non facessero quelle patinate delle trasmissioni sportive. È anche la spiegazione più naturale all'impazienza e all'imbarazzo provati davanti a raffiche di domande pensate per un giocatore simbolo delle proprie squadre. Lui non voleva sentirsi simbolo di nulla, voleva solo giocare bene a pallone.

 

La foto che Marco ha scelto per il suo profilo twitter non è una scelta casuale. @marco70negri ha l'immagine di un suo stacco di testa in una delle amichevoli benefiche che gioca oggi. I calzettoni abbassati, i capelli non più lunghi. Quasi certamente una delle foto più fedeli alla visione che Marco Negri ha di Marco Negri. Uno normale.

 

Una consolazione c'è. Marco non sarà mai andato ai Mondiali, ma nemmeno lo squash è ancora andato alle Olimpiadi. Se c'è una giustizia, è molto terrena.

 

 

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