Da difensore di categoria ho dovuto imparare a fare fallo. Ho imparato, anzi, a provare piacere, nel fare fallo. A un certo livello – contro attaccanti di quarant’anni che sembrano averne settanta e giocano con l’aria truce del comandante Kurtz, come se fare gol fosse un sacrificio a qualche divinità malvagia – se non gli pianti il ginocchio nella parte bassa della schiena, sui lanci lunghi dalla difesa, rischi che siano loro ad accoglierti con una gomitata sulla bocca dello stomaco. Se non gli schiacci il piede d’appoggio mentre stanno per saltare di testa, con i tacchetti che si incastrano quasi nei lacci dello scarpino dell’attaccante, sarà lui, magari, a piantarti l’avambraccio sul fianco al momento giusto per toglierti il fiato e impedirti di alzarti da terra. Un fallo fatto bene ha il gusto del crimine impunito, (quasi) senza vittima. Non che ne andassi fiero, ma il calcio è un gioco violento e non sarei stato io a cambiarlo in ogni caso, tanto valeva imparare il mestiere, e divertirsi, già che c’ero.
Per un difensore abituato a un’area di rigore senza telecamere e senza guardalinee, in un campionato provinciale o regionale qualsiasi, tornare alla vita civile dopo il week-end non è sempre facile. Negli anni passati tra Promozione e Prima Categoria laziale ho capito che un cartellino giallo con l’avversario che si rotola in terra può dare una strana sensazione di pace: ok il mondo è malvagio e io ne faccio parte, non mi nascondo più, non mi illudo più di essere migliore di voi. Per questo ho sempre ammirato chi portava avanti il mestiere ad alto livello, seguendo lo slancio istintivo del fallo sopra le righe pur con migliaia gli occhi puntati addosso, e replay che ne sottolineano l’assurdità. E per questo ho sempre provato un piacere intimo e inconfessabile nel vedere i video dei falli di Marco Materazzi, forse il capostipite della scuola italiana dei difensori fallosi.
Marco Materazzi ha otto anni in più di me, ha passato parte della sua giovinezza a Roma e per me è stato una specie di fratello maggiore invisibile; l’equivalente, per un ragazzo romano pieno di rabbia, di quello che in Looking for Eric era Cantona per il postino depresso di Manchester descritto da Ken Loach. La nostra cultura sta cambiando, per fortuna, ma non è certo meno violenta di prima, la violenza è solo meno visibile in alcuni ambiti. Ogni volta che guardo i video dei falli di Materazzi invece mi ricordo di un’epoca pazza – figlia di epoche ancora più pazze – in cui ascoltavo nu-metal e guidavo l’F-10 senza casco, in cui ogni domenica una trentina di giovani uomini si riuniva in tutti i quartieri e paesi d’Italia per giocare a calcio e fare a botte fuori dagli spogliatoi, mentre il mondo preparava la carbonella per il barbecue di guerre e conflitti in cui viviamo oggi. Non posso dire di essere nostalgico, ma per quel che mi riguarda l’artisticità nichilista dei falli di Materazzi è la migliore rappresentazione dei primi dieci anni del duemila.
I falli di Materazzi sono il mio Arancia Meccanica, ecco. Qui sotto ci sono otto suoi falli, quelli che preferisco, catalogati a seconda della loro violenza (quanto dolore può aver provocato da uno a cinque?), della loro artisticità (quanta fantasia era necessaria da uno a cinque?) e della gratuità (quanto non era necessario, sempre da uno a cinque?), a cui ho abbinato un brano di inizio secolo che potrebbe fargli da colonna sonora.