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Crescere con Marco Belinelli
25 ago 2025
Dal contado bolognese al titolo NBA: il percorso del Beli nel basket.
(articolo)
20 min
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IMAGO / Icon Sportswire
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Nel romanzo forse più ardito e complesso dell’intero Novecento, Paradiso dello scrittore cubano José Lezama Lima, è scritto che la vecchiaia di un uomo comincia quando muore sua madre. È una frase potente e suggestiva, e credo se ne possa tentare una declinazione sportiva sicuramente meno tragica, ma altrettanto piena di malinconica consapevolezza: la vecchiaia di un uomo comincia quando si ritira il campione che più ha segnato le tappe della sua gioventù.

Sono i pensieri che ho in testa da qualche giorno, esattamente da quando Marco Belinelli ha annunciato il suo ritiro dal basket, con un post sui suoi canali social di impronta volutamente minimalista e per questo più efficace. Marco Belinelli è nato nel 1986, ha soltanto due anni in meno di me, è quindi un mio coetaneo. È diventato uno dei miei idoli da quella partita contro gli Stati Uniti di un giovane LeBron James ai Mondiali del 2006, quando segnò 25 punti in un’esibizione sfrontata di talento enormemente più grande di un fisico al tempo decisamente poco robusto.

Nella sua carriera sportiva mi ci sono proprio immedesimato fino al midollo, soprattutto quando nell’autunno del 2008 è andato a giocare in NBA, scelto al draft dai Golden State Warriors. Credo che l’intensità del mio trasporto passionale per Belinelli sia stata dovuta al fatto che la sua carriera, soprattutto i tredici anni trascorsi negli Stati Uniti, sia coincisa con le tappe che hanno segnato la mia crescita personale, che sono tappe comuni nella vita dei ventenni: il passaggio dal liceo all’università, il trasferimento dalla provincia alla grande città, il fatidico ingresso nel mondo del lavoro.

In ogni step della carriera di Marco proiettavo in piccolo le mie vicende biografiche, e allora andare negli Stati Uniti diventava il passaggio dal paesino di provincia alla grande città, i primi canestri americani sulla baia californiana il primo contratto lavorativo e il primo stipendio che finisce sul tuo conto corrente, mentre l’anno a Toronto è l’esperienza andata male, un capo che non ti vuole e un luogo di lavoro da lasciare subito. La fiducia accordatagli da Chris Paul a New Orleans diventano le prime persone che credono veramente in te e ti dicono che ce la potrai fare, la tripla delle “big balls” ai playoff con i Bulls la conferma della tua crescita, il titolo NBA vinto a San Antonio il primo grande traguardo professionale, quello da festeggiare con gli amici più cari stappando una buona bottiglia, pagata finalmente con i tuoi risparmi.

Non è casuale che lo sport sia nato due millenni e mezzo fa in Grecia, adattando per gli spazi delle sue gare la forma architettonica dei teatri, proprio perché attori e atleti condividono almeno in parte un identico destino, quello di offrirsi a chi guarda come uno specchio. L’idolatria è poi diventata qualcosa in più di una passione sportiva: una passione intellettuale. Nella mia volontà di fare dello sport un oggetto di studio e ricerca culturale, l’esperienza americana di Marco Belinelli mi ha inizialmente spinto a indagare e approfondire tante cose apparentemente di contesto o marginali, dai caratteri così particolari e unici della cultura sportiva americana ai motivi storico-politici che li hanno generati, dai meccanismi organizzativi e manageriali delle sue grandi leghe sportive alla complessa e conflittuale vicenda razziale che da sempre caratterizza l’NBA più di ogni altra, fino ad arrivare al ruolo e al significato della vittoria nello sport, oggetto sfuggente come la sua dea alata ma decisivo.

Nel corso del tempo ho sempre di più seguito la sua carriera americana come si fa per un grande amore intellettuale, dove la passione spinge a indagare ogni anfratto della vita e delle opere dei propri artisti, filosofi o registi preferiti, interrogandosi sui significati e le evoluzioni, registrando tutto, catalogando tutto. La prima città americana visitata nella mia vita non è stata New York o Boston o Chicago o Los Angeles, bensì San Antonio, dove più di una fortissima paura di volare poté la passione sportiva e il desiderio di veder giocare il proprio idolo sportivo dal vivo.

Vedere l’immagine postata sui social che annunciava il ritiro è stato quindi un colpo al cuore. Una pagina importante della vita che si chiude, quindi un momento profondo, carico di grande impatto emotivo e anche di grande dolore, che come sappiamo dai nostri avi greci è sempre fonte di meditazione e riflessione.

Quando il proprio idolo sportivo si ritira ci imbattiamo in un carattere costitutivo dello sport a cui non sempre si presta la dovuta attenzione: il suo essere un grande teatro dell'incomunicabilità tra le generazioni.

È un tema universale della letteratura, Shakespeare ne ha tratto il Re Lear, e nello sport questa frattura diventa quasi sempre insormontabile. Qualche anno fa l’ex rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi, grande latinista ma anche grande tifoso virtussino e pesarese, scrisse un’accorata memoria sulla sua profonda passione per il basket e sulla particolarità della sua doppia militanza. In quell’intervento Dionigi parlò di alcuni significati filosofici del basket, con riflessioni in grado di stimolare e arricchire tutti, per poi citare una lunga serie di giocatori del passato, coincidenti in grande prevalenza con giocatori ammirati nella sua giovinezza, soprattutto in quella fase della vita in cui si ha suppergiù gli stessi anni di chi si vede giocare, fatto che genera un legame più intenso, diretto e coinvolgente, come tutte le esperienze degli anni giovanili della propria esistenza terrena.

Qui la mia reazione fu completamente diversa: quei nomi per me non significavano nulla. Non perché fossero ignoti, anzi alcuni erano molto noti, da Mike Sylvester ad Aza Nikolic, ma perché per me erano emotivamente vuoti, non avendoli mai visti giocare. Fantasmi, ombre, come quelle incontrate da Ulisse nella sua discesa all’Ade. Per vivere lo sport, la storia dello sport non serve a niente, e lo dico da persona che dedica molta parte del proprio tempo al suo studio. Non c’è nessun passato, se non hai visto qualcuno giocare. È un’esagerazione ovviamente, nello sport inteso come fatto sociale e culturale da studiare il passato serve, illumina, apre scenari e connessioni, è indispensabile. Ma nello sport inteso come rito emotivo no. Con buona pace di Proust e della sua madeleine, non c’è nemmeno nessun ricordo che tu possa salvare se il campione che ami perché ha i tuoi stessi anni e appartiene alla tua stessa generazione non potrà più giocare. E non ci sarà nemmeno niente da trasmettere a chi non ha potuto vederlo in azione.

Anche qui sto esagerando: i meccanismi eterni della gloria, il trasmettersi di bocca in bocca tra le generazioni del ricordo dei grandi campioni - e oggi di clip YouTube in clip YouTube, di storytelling in storytelling - rappresenta una discreta e fondamentalissima forma di trasmissione della conoscenza sportiva, ma è una forma secondaria, in niente paragonabile a quella vera, che resta quella della partecipazione diretta. Le carriere degli atleti durano troppo poco, un po' di più delle fioriture dei ciliegi così care ai giapponesi proprio per la loro caduca ed effimera intensità, ma molto meno di altre cose.

La musica può riunire più generazioni nella longevità di alcuni artisti, lo stesso può fare il cinema o la letteratura. Lo sport no. Nemmeno il tifo, potente collante intergenerazionale, può porre rimedio a questa catastrofe. L’unico aspetto positivo di un ritiro è che solo il tramonto di una carriera ci consente di abbracciare con lo sguardo la totalità, e ricavarne delle riflessioni. Da questa prospettiva Marco Belinelli è stato fondamentalmente tre cose: un grande provinciale (in un senso descrittivo e non negativo del termine, come vedremo tra poco), un grande campione cooperativo, un grande artigiano. Esploreremo tutti e tre questi significati, in maniera analitica, cercando di evitare inutili celebrazioni retoriche.

IL GRANDE PROVINCIALE
Chi è cresciuto da bambino o giovane adolescente nell’Italia degli anni Novanta sa che l’idea di sogno sportivo più grande, maestosa e apparentemente irrealizzabile era al tempo quella di giocare in NBA (figuriamoci vincervi un campionato). Sognare di vincere il Pallone d’Oro era sì un sogno, ma con la prossimità tangibile di connazionali che ce l’avevano fatta. L’NBA no, era un mondo lontanissimo e ad accesso limitato, in cui i primi minuti sul parquet di Stefano Rusconi con la maglia dei Phoenix Suns o i diciotto punti di Enzino Esposito al Madison Square Garden, in una inutile partita di fine regular season per giunta persa con largo scarto, avevano il sapore di conquiste lunari.

Questo particolare rapporto tra l’Italia e l’NBA è un caso-studio che andrebbe aggiunto ai tanti contenuti nel bel saggio che una storica di rango come Victoria De Grazia scrisse qualche anno fa sull'impero irresistibile, quello americano ovviamente, capace di imporsi nel Dopoguerra non solo con la superiorità della propria forza militare, ma anche attraverso la persuasione. Far sognare i propri sudditi delle province lontane, Italia compresa, con il fascino della società dei consumi e dei media, dei primi supermercati, dei primi frigoriferi e dei primi prodotti in scatola, poi dei primi fast-food e dei primi centri commerciali, tutte invenzioni americane di mille che abbiamo per la prima volta conosciuto soprattutto tra anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, e che proprio il basket contribuì a popolarizzare nella società italiana e nel suo tessuto provinciale attraverso sponsorizzazioni ancora oggi iconiche. Tutte inizialmente vissute come irresistibili, e così anche l’NBA, di cui l’Italia, in un primato poco conosciuto, è stata il primo paese al mondo a trasmetterne le immagini fuori dal suolo americano, grazie all’intuito di Bruno Bogarelli, scomparso qualche anno fa. Sembra un reperto archeologico, ma c’è stata non troppi decenni addietro un’Italia di gente radunata nei cinema di provincia per guardare con sguardo sognante le registrazioni di partite giocate la settimana prima dall’altra parte dell’oceano.

La NBA è stato anche il sogno di Marco Belinelli, che probabilmente lo ha sognato più di tutti, più di Bargnani, Gallinari e Datome, senza nulla togliere alle loro importanti carriere, e che lo ha sempre raccontato in quasi tutte le sue interviste. En passant, la forza irresistibile dell’impero NBA funziona ancora. Da qualche anno la principale competizione cestistica giovanile under 13 che si disputa nel nostro Paese, che ha anche un’appendice scolastica, porta i nomi e i colori delle franchigie NBA, con i livelli di partecipazione più alti d’Europa. A uno spietato esame realistico questo torneo appare una pubblicità gratuita a un campionato teoricamente rivale del nostro, che toglie spazio al legame con i nostri club, li nasconde alla vista delle nuove leve appassionate di basket, indebolendone la forza presente e futura per portare acqua a un grande mulino che non ci dà indietro nulla in termini economici. Una forma sportiva dell’imperialismo.

Se dirlo appare fuori luogo e sconveniente è perché l’NBA è molto più di una lega sportiva per noi italiani, è un codice culturale della contemporaneità, seducente, attrattivo, impossibile da contestare… una forma sportiva dell’impero irresistibile appunto. D’altra parte alcuni grandi intellettuali del Novecento ci hanno insegnato che il potere nella società contemporanee è considerabile tale perché si fa piacere, non perché si faccia temere o detestare. Il sogno americano di Marco Belinelli è in realtà figlio di un doppio provincialismo: quello di chi proviene dall’Italia di provincia, rispetto ai nati in grandi città. Quell’Italia che vive tra i contadi che per secoli furono terreno di scontro per il dominio tra le grandi città italiane e i loro potentati. Per quanto vicina, San Giovanni in Persiceto non è Bologna, sorge nella terra di confine tra Bologna e Ferrara, i persicetani furono sempre dominati dai bolognesi, e la storia è costellata di loro numerose rivolte contro le istituzioni felsinee.

È l’Italia di provincia di cui è stato figlio anche Kobe Bryant, da questo punto di vista grande personaggio arci-italiano, che esaltava il nostro provincialismo ogni volta ammirato e stupito nell’ascoltare le sue parole nella nostra lingua. Le radici provinciali di Marco Belinelli sono rintracciabili anche nella circolarità degli affetti che lo ha sempre accompagnato lungo tutta la sua carriera, come una vera e propria bolla protettiva, un fortilizio affettivo saldamente radicato sul territorio persicetano o nei comuni limitrofi. I familiari e i fratelli, la moglie Martina, lo storico gruppo di amici. Il suo sogno americano è diventato anche quello di Alessandro Saponaro da Castelmaggiore, che lo seguì da subito negli States per fargli da cuoco e tassista e che poi negli anni è diventato un importante agente immobiliare a Miami. Unico sconfinamento, ma sempre in terra emiliana, la P.R. Elisa Guarnieri, di Fiorenzuola d’Arda.

La realizzazione estrema del sogno provinciale non è però l’anello della vittoria ottenuta nel 2015 con gli Spurs. Certo, Marco Belinelli è l’unico italiano a possederlo, e il possesso esclusivo potrebbe durare a lungo, ma in fondo l’NBA degli anni Dieci e Venti del nuovo millennio è una lega sempre più dominata da giocatori internazionali e in particolare europei, oggi seguiti per la NBPA, l’associazione dei giocatori della lega, da un altro italiano che sta vivendo il sogno americano in tonalità cestistiche, Matteo Zuretti, dalla Stella Azzurra di Roma Nord ai grattacieli di New York.

La vera realizzazione del sogno è sapere che il presidente degli Stati Uniti - al tempo Barack Obama, - sa chi sei, grado supremo dell’esaltazione dell’orgoglio provinciale. Nelle pagine centrali di un altro bel libro scritto da un grande sportswriter americano come Alexander Wolff, genialmente intitolato The audacity of hoop e dedicato all’analisi della profonda passione cestistica di Obama, troviamo un Beli intimidito ed emozionato nella Sala Ovale della Casa Bianca dietro al “presidente del basket” che, nel ricevimento ufficiale dei San Antonio Spurs vincitori, di lì a poco pronuncerà la frase «you have Marco Belinelli, who we miss on the Bulls».

IL CAMPIONE COOPERATIVO
Marco Belinelli è stato un campione vincente, ma la sua vittoria con gli Spurs possiede dei caratteri particolari. Il mondo dell’antichità greco-romana conosceva solo gli sport individuali, non quelli di squadra in cui il successo è ripartito tra i vari componenti. Tuttavia noi moderni appassionati sportivi continuiamo a essere antichi nella ricerca anche nei secondi dell'eroe vittorioso, del posseduto dagli dèi, del più forte e quindi del più capace di generare e catturare attenzioni.

Marco Belinelli non è stato questo tipo di vincitore, e per questo la sua leggenda in Italia è minore, non paragonabile a quella dei campionissimi, da Rossi a Sinner. In parte dipende da quella che Niccolò Machiavelli definiva “qualità dei tempi”: il successo del cestista persicetano, la virtù nel linguaggio del segretario fiorentino, si è associato al percorso discendente di uno sport popolarissimo nell’Italia di inizio anni Novanta, e che poi è via via divenuto sempre più periferico nelle passioni e nelle attenzioni degli italiani, eccezion fatta per alcuni ancoraggi locali ancora forti, ma incapaci di diffusione esterna.

La stessa NBA ha un nucleo molto solido di appassionati, ma molto ristretto. Il suo successo planetario è basato su altri fattori, non sulla visione delle partite. La gloria narrata nel libro-epopea di Mario Arceri è dileguata, anche per i risultati della nazionale maggiore, ma non certo solo per quello. In parte dipende anche dal ruolo avuto nel titolo vinto con gli Spurs, ma anche lungo quasi tutto l’arco della sua carriera americana: un ruolo di supporto, anche se importante (nella stagione 2013-2014 fu ad esempio il secondo giocatore più utilizzato in regular season).

Non un gregario quindi, termine riduttivo e in fondo dispregiativo. Non può essere un semplice gregario uno dei principali e più forti giocatori europei dell’ultimo ventennio. Nemmeno uno specialista del tiro da tre, come sbrigativamente viene ancora oggi giudicato da occhi inesperti. Marco Belinelli è stato un campione cooperativo. Ha vinto un titolo prestigioso testimoniando in maniera esemplare questo valore sportivo che ha anche un grande significato culturale. Non voglio forzare con il piano storico-politico, inventando un determinismo che non esiste tra l’Emilia terra fondativa ed elettiva della cooperazione e lo stile di gioco di un suo campione cestistico. Mi riferisco più ad altri aspetti, uno ancestrale, l’altro moderno. Gli studi e le ricerche dello psicologo americano Michael Tomasello sono da sempre per me un laboratorio fecondo di idee per comprendere lo sport. Nel suo libro più recente ci sono pagine fondamentali sulla caccia come grande modello del carattere cooperativo degli umani, una collaborazione che nella sua teoria, frutto di numerose sperimentazioni sulle grandi scimmie antropomorfe e sui bambini, è alla base del linguaggio umano e soprattutto dello sviluppo che il linguaggio ha portato all’ingrandimento dei nostri cervelli e delle nostre capacità cognitive. È infatti attraverso il linguaggio che riusciamo a cooperare e collaborare, differenziandoci dalle altre specie animali.

Se vi sembra tutto troppo astruso, sappiate che sono state condotte delle ricerche su come parlarsi e comunicare di più in campo tra compagni di squadra conduca all’aumento delle probabilità statistiche di vittoria. Gli sport di squadra sono infatti i grandi eredi contemporanei della caccia primitiva. E come nella caccia ha valore chi fa bene il proprio compito, magari quello di fornire informazioni utili per avvistare la preda, e non solo il più bravo ad affondare per primo l'arma sul suo corpo, anche nello sport il contributo corale è fondamentale. Gli sport di squadra manifestano al più alto grado lo spirito della cooperazione, che ha una sua gerarchia, che è composto di egoismi, ma che è intrascendibile. Sappiamo dalla grande sociologia novecentesca che anche nelle dinamiche del capitalismo moderno, apparentemente fondato sull’individualismo, in realtà a predominare sono gli aspetti cooperativi e collaborativi condensati all’interno delle organizzazioni aziendali, contro altre organizzazioni concorrenti ovviamente, e lo sport con il suo agonismo vi corrisponde perfettamente.

Tutti noi ogni giorno nelle nostre esperienze lavorative apprezziamo l’importanza di chi riesce a collaborare in maniera diligente e armonica, facilitando o migliorando il lavoro degli altri, e al contrario detestiamo quelli che danneggiano questi rapporti. Marco Belinelli è stato un campione responsabile, cooperativo, corale. La sua capacità nei movimenti senza palla e nell’eseguire i tagli per cui qualche settimana fa è stato a sorpresa elogiato dal campione dei Boston Celtics Jaylen Brown, che in un endorsement di grande prestigio lo ha riconosciuto come il giocatore più difficile da marcare incontrato in carriera, sono l’illustrazione perfetta di questo spirito cooperativo: mi sfianco per smarcarmi e offrire più possibilità di passaggio vincente al mio compagno che porta la palla, come opportunità per collaborare assieme al successo della nostra caccia/organizzazione aziendale. Non è una caratteristica che Beli ha forgiato sotto la guida di Popovich a San Antonio, ma sicuramente il picco della sua carriera raggiunto negli Spurs non è casuale. Quella texana è stata infatti una delle squadre di basket più cooperative e altruistiche degli ultimi decenni. Era talmente corale il gioco degli Spurs da produrre echi visionari, trasportandoci idealmente nello spirito delle avanguardie artistiche della Russia rivoluzionaria degli anni Venti del secolo scorso, dove il grande regista teatrale Vsevolod Mejerchol'd pensò ad una figura di attore capace di fare dello stare insieme la ragione dello spettacolo.

Mejerchol’d arrivò a eliminare i costumi sostituendoli con la prozodezda, la tuta di lavoro degli operai, nell’idea che tutti gli attori avessero lo stesso peso al fine di rendere lo spettacolo una perfetta sintesi di linguaggi, senza che uno prendesse il sopravvento sugli altri. A questo proposito Mejerchol’d non metterà mai in scena Shakespeare, perché nelle sue opere il personaggio principale è sempre al di sopra degli altri, ma chiederà a Majakovskij di scrivere dei drammi corali dove ogni personaggio avesse la sua importanza decisiva. Mejerchol’d per giustificare tale scelta chiamerà in ballo proprio la nozione di coro, cioè quella particolare forma dello spettacolo della Grecia classica in cui non ci sono personaggi che dialetticamente si affrontano, come in tutto il dramma ottocentesco, ma piuttosto un’unica voce che sta insieme e genera senso.

Come il gioco degli Spurs del 2014, in cui lo stare insieme generava “armonia e bel canto”, in cui le doti di ognuno erano necessarie alla riuscita della sinfonia. Anche negli ultimi anni alla Virtus Belinelli ha mantenuto questo ruolo di giocatore corale, e quasi ogni allenatore lo ha elogiato per questo. Solo in nazionale in alcune partite decisive si ricorda un suo maggiore protagonismo, un suo maggiore portar palla per risolvere da solo alcune situazioni non sempre efficace, generato però più da deficienza del contesto che da una volontà egoistica, in una leggera e in fondo perdonabile hybris sempre punita però dagli dei del basket.

IL GRANDE ARTIGIANO
Un’altra immagine indelebile della carriera di Marco Belinelli è la sua nuovamente storica vittoria nella gara da tre punti dell’All Star Game 2014, anche qui traguardo esclusivo per un giocatore italiano. Negli ultimi anni Beli ha raccontato e illustrato in molte interviste (ad esempio qui) il lavoro meticoloso per perfezionare il suo tiro dalla distanza, dai tiri all’indietro emulando Kobe dei primi anni della sua carriera italiana alla pulizia successiva appresa negli States, con tiri molto più equilibrati, per poi riprendere negli ultimi anni del suo ritorno in Italia anche i tiri fuori equilibrio.

Nel costante lavoro di perfezionamento va citata anche la finta con cui ingannava i difensori per conquistarsi un tiro smarcato e quindi maggiormente efficace in termini statistici. I giocatori di basket, soprattutto i tiratori, sono dei grandi lavoratori manuali, anche se grazie alle neuroscienze sappiamo che non esiste nello sport un’astratta separazione tra il lavoro intellettuale e cognitivo. Per un grande filosofo italiano come Giordano Bruno, la mano era la grande creatrice della civiltà. Saper fare con le mani, costruire, perfezionare a bottega il gesto è il segno distintivo del lavoro artigianale. Un grande economista, docente e uomo politico che spese decenni della propria vita professionale nella Bologna capitale europea del basket, Beniamino Andreatta, amava ripetere che per essere persone degne e cittadini altrettanto degni bisognasse prendere ispirazione dai nostri avi artigiani del Medioevo, famosi per costruire in maniera perfetta gli oggetti decorativi degli altari delle nostre chiese anche nel retro, che non sarebbe stato visibile ai fedeli radunati di fronte agli officianti del rito.

Una meticolosità che il rapporto con il tiro manifesta in un grado altissimo, in una lenta e costante costruzione nel tempo. C’è un bellissimo libro scritto da un giovane scienziato dello sport canadese, Joel Cressman, purtroppo non tradotto in italiano, dedicato ai segreti della costruzione dei grandi atleti coreani del tiro con l’arco, del pattinaggio di figura, o nel caso di Son nel calcio. Atleti che da piccoli si sono esercitati per le fatidiche 10 mila ore necessarie all’eccellenza, e anche oltre. Addirittura Son fino ai 15 anni di età si allenava in maniera ossessiva solamente sui fondamentali, guidato dal padre ancora più ossessionato e in lotta contro il sistema calcistico coreano basato sui tornei scolastici. Il segreto della loro perfezione sportiva non è tanto nel cumulo orario, quanto nel piacere provato nell’esercitarsi per così tanto tempo, guidato dalla progressiva soddisfazione del padroneggiamento sempre migliore di una tecnica.

Compito di ogni atleta è perfezionarsi sempre, godendo dei minimi guadagni ottenuti di volta in volta. Un percorso guidato dalla propria interiorità, più che comandato da pressioni esterne, nonostante il forte ruolo parentale nelle società asiatiche. È la stessa molla di chi realizza (o realizzava) scarpe, manufatti, oggetti, usando l’intelligenza delle proprie mani. È la stessa molla che ha guidato un ragazzino sognante del contado bolognese a diventare un silenzioso e grande artigiano dello sport italiano.

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