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La storia più incredibile della March Madness 2018
30 mar 2018
30 mar 2018
La cavalcata di Loyola University-Chicago fino alle Final Four va persino oltre la retorica della Cenerentola — anche perché a guidarla è una suora.
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«Benedici gli studenti, perché possano realizzarsi sui libri e sul campo;

Benedici gli allenatori, perché possano guidare la propria squadra al successo;

Benedici gli arbitri, perché possano avere precisione in decisioni cruciali per il gioco

Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo.»

Dalla folla applausi e amen, poi il microfono si spegne. Palla a due, cigolio di scarpe. In sottofondo, uno stanco «Let’s go Ramblers». È un pomeriggio come tanti altri nel Joseph Gentile Center di Loyola University, palestra piccola e accogliente nel North Side di Chicago. A farla da padrone sono un visibile crocifisso affisso sulla parete, legato all’ispirazione gesuita dell’università, e lo stendardo del titolo NCAA del 1963, ormai lontanissimo ricordo. La signora che ha appena condotto la preghiera, direttamente dal cerchio di centrocampo, è Jean Dolores-Schmidt, localmente nota come Sister Jean: una suora ex giocatrice e allenatrice, cresciuta in California e finita nel Midwest dopo lunghi pellegrinaggi, da oltre vent’anni guida spirituale della squadra.

L’arzilla signora è da sempre il volto simbolo di questa università, uno dei tanti universi sommersi in cui si sviluppa la vita sportiva della metropoli. A scandire il ritmo delle partite non sono vittorie e sconfitte, ma rituali inconfondibili per la comunità locale: il rumore della ferrovia sopraelevata, l’umore instabile di Lake Michigan, le torte fatte in casa vendute all’ingresso della palestra. E la protezione simbolica della Madonna della Strada, la chiesa che raccoglie ogni domenica studenti e atleti, e che rappresenta l’ultimo baluardo contro le intemperie che vengono dal lago.

Difficile pensare a un mondo più pacato, infinitamente distante dalle ossessioni che animano le università di punta della NCAA. Se ne accorse anche Marco Calvani, attuale allenatore di Reggio Calabria, che visitò proprio Loyola per qualche mese di aggiornamento nell’ottobre del 2014. Eppure, senza che nessuno se ne sia ancora reso bene conto, alla Final Four di San Antonio che comincia domani notte ci saranno proprio loro: i Ramblers. Al termine di una cavalcata che rimarrà per sempre nella storia dell’università, e ha trasformato Sister Jean in una stella hollywoodiana, fotografata e raccontata da ogni angolo degli Stati Uniti.

La corsa

Difficile capire bene cosa sia successo. Oppure, forse fin troppo semplice. Dopo una solida stagione conclusa con la vittoria della propria conference, Loyola si è qualificata al torneo NCAA per la prima volta dal 1985. Ottimo risultato, che ha comprensibilmente attirato le simpatie della città di Chicago, in una stagione che, oltre al consueto disastro delle università cittadine, ha propinato lo strazio del tanking dei Chicago Bulls. Non esattamente un bel vedere, da qualunque punto la si guardi.

Peccato solo che quello che doveva essere un obiettivo raggiunto è diventato invece un punto di partenza: due vittorie nei primi due turni, entrambe a fil di sirena, contro Miami e Tennessee; poi, agli ottavi, una rimonta vincente su Nevada, anch’essa coronata da un tiro a fil di sirena; infine, un’autorevole vittoria nella Elite Eight, contro una Kansas State che nemmeno doveva trovarsi lì, e che si è rivelato l’avversario più morbido di tutto il torneo. E così, nel tumultuoso evolversi di una Madness particolarmente imprevedibile, i Ramblers si sono trovati in mano il biglietto per San Antonio, dove sfideranno Michigan nella prima semifinale del Torneo NCAA.

Ma la natura rocambolesca delle vittorie e la buona sorte che deve esserci per vincere partite come queste non devono far passare in secondo piano il capolavoro tattico di coach Porter Moser, alla sua quinta stagione sulla panchina dei Ramblers. Loyola ha vinto eseguendo benissimo in attacco, soprattutto nei possessi decisivi, e mostrando un sistema difensivo equilibrato, capace di far fronte anche ai limiti fisici della squadra. Con un solo giocatore in rotazione oltre i 2.05, i Ramblers si sono fatti strada distribuendo le responsabilità sia davanti che dietro, e producendo una pallacanestro non solo efficace, ma pure molto gradevole da vedere. Significativo che, in una squadra in cui cinque giocatori sono in doppia cifra di media e nessuno supera i 13, pure le imprese allo scadere siano state distribuite equamente traDonte Ingram, Clayton Custer e Marques Townes, i tre eroi che hanno avuto una giornata di immensa popolarità ciascuno. Un successo che comunque impallidisce al cospetto del più improbabile e potente fenomeno di culto che ha accompagnato la corsa dei Ramblers.

(Foto di Tom Pennington/Getty Images)

La stella non è in campo

Dalla preghiera a metà campo ai microfoni di tutte le reti americane, per giunta puntati addosso con insistenza. Senza fare una piega — anzi mostrando di gradire le attenzioni — Sister Jean è diventata un oggetto di culto internazionale, abilmente posizionata tra il sacro e il profano. La sua storia, valorizzata dai reporter locali — tra cui Shannon Ryan, eccelsa cronista di college basket del Chicago Tribune, e narratrice delle gesta della suora da tempi non sospetti — è rapidamente sfuggita al controllo. L’energica signora che prega con i giocatori prima delle partite, nota nel campus per integrare le dritte spirituali con consigli tecnici e dettagliati scouting report sugli avversari, è così diventata il simbolo di questo torneo. L’eroina che ha ricevuto complimenti e attenzioni da tutti, incluso Barack Obama; e forse la provvidenziale faccia pulita che serviva alla NCAA dopo una stagione in cui non sono mancate le storie torbide.

Sister Jean ha seguito la squadra a Dallas e ad Atlanta, senza mai venir meno alle sue mansioni di supporto emotivo e spirituale; le sue preghiere sono state mandate in onda in diretta; l’abbraccio della gente è stato così caloroso che persino consumare un pranzo in santa pace è stato sostanzialmente impossibile. E così, mentre si decuplicavano le sue apparizioni in tv — tra cui anche nel celeberrimo show Good Morning America — è diventata il personaggio più "twittato" del torneo. Molto più dei giocatori che hanno condotto Loyola a questo traguardo storico. Un paradosso, ma nemmeno troppo. Normale che, in un ambiente sportivo così incentrato sulla comunità locale, sia stato proprio il leader della comunità ad assumere il ruolo principale. E pure normale che l’ondata di popolarità sia stata sfruttata in tutti i modi dall’università stessa, che ha lanciato una speciale linea di merchandisingproprio utilizzando il nome e l’immagine della suora. Inutile dire che ha già raggiunto picchi di popolarità stellari.

Il peso della storia

Comunque vada a finire questo fine settimana, la corsa dei Ramblers nel torneo 2018 rimarrà una pagina storica dell’università. Non l’unica, però. E, almeno nell’istante in cui stiamo scrivendo, nemmeno la più famosa. Al momento attuale, i Ramblers sono infatti l’unica squadra dell’Illinois ad avere vinto un titolo NCAA. Accadde nel 1963, un’era così lontana che è ormai dimenticata da tutti. La portata storica di quella vittoria fu dovuta in gran parte al fatto che Loyola infranse la tremenda regola non scritta che limitava l’utilizzo di giocatori afro-americani in quintetto, presentandosi in finale con ben quattro atleti di colore nello schieramento di partenza (qui la storia viene raccontata bene).

Erano tempi di tensione e segregazione, in tutti gli sport, a tutti i livelli. Mississippi State, avversario dei Ramblers nel primo turno del torneo, dovette scappare in fretta e furia dai confini dello stato per battere sul tempo un’ingiunzione del governatore che voleva bloccare la partita contro Loyola, in quanto incompatibile con le leggi del Mississippi che proibivano le partite tra squadre miste. I Ramblers batterono Cincinnati in una finale tiratissima, celebrata dal famosissimo urlo «We won, we won!» del commentatore radio Red Rush, scomparso nel 2009. Il trionfo dei Ramblers non cambiò le cose nell’immediato, ma lanciò un messaggio forte in un’epoca delicatissima. Che viene ricordata più per assurdi record statistici, come i 100 punti di Wilt Chamberlain, che per le implicazioni sociali e storiche delle gesta degli atleti di colore che scendevano in campo in quel clima, college o NBA che fosse. Ci è voluta la folle corsa di queste settimane e riportare alla luce un evento colpevolmente lasciato da parte nella ricca storia del basket a Chicago.

Sister Jean, ai tempi ancora in California, non poteva sapere che quella sarebbe diventata la sua università. Figuriamoci se le avessero detto che, 55 anni dopo, ne sarebbe diventata l’ambasciatore davanti a tutto il mondo. Del basket, e non solo.

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