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Dario Saltari
Marcelo vs Felipe Luis
26 mag 2016
26 mag 2016
Sabato si sfideranno anche due interpretazioni del ruolo dell'esterno basso, oltre che due archetipi opposti della brasilianità.
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Dario Saltari
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Forse basterebbe guardare in faccia Filipe Luis e Marcelo per afferrare tutta la differenza che passa tra i due. Uno con il viso pallido da minatore, lo sguardo disilluso, quasi triste, i capelli bagnati appiccicati al cranio, tenuti indietro da una fascetta anni ’80. L’altro mulatto, gli occhi sorridenti da bambino, la mimica facciale di un giullare, i capelli ricci che sfidano la forza di gravità e vanno verso il cielo. Filipe Luis e Marcelo sono diversi, molto diversi, quasi opposti, al punto che il fatto che convivano nello stesso universo mi rassicura sulla mia capacità di stupirmi.

 

Eppure entrambi rappresentano, a loro modo, due archetipi della brasilianità. Filipe Luis è nato a Jaraguá do Sul, nello stato più ricco e benestante di tutto il Brasile, Santa Catarina, dove la maggior parte degli abitanti è bianca come lui perché discende dalle antiche migrazioni tedesche, austriache, italiane, polacche, ungheresi. Una tradizione talmente viva che a Blumenau, 65 chilometri a sud da Jaraguá do Sul, fanno l’Oktoberfest. E infatti il cognome di Filipe Luis non è Luis, come si potrebbe pensare, ma Kasmirski, definitiva eredità del suo nonno paterno, fuggito in Brasile dalla Polonia durante la seconda guerra mondiale. L’altra metà delle sue radici, quelle di sua madre, invece, è piantata in Italia, grazie alla quale ha ottenuto passaporto comunitario.

 

Marcelo è invece il simbolo della mescolanza carioca, quella che i turisti erroneamente attribuiscono a tutto il Brasile. Nato a Rio de Janeiro, cresciuto nel quartiere di Catete, Marcelo ha avuto un’infanzia stereotipica: a ballare con il pallone tra i saliscendi delle strade di Rio, la spiaggia e il mare. Famiglia ovviamente proletaria, padre pompiere, madre insegnante, Marcelo ha una di quelle storie che fanno commuovere noi turisti della miseria. Da piccolo non poteva permettersi di giocare per il Fluminense e allora il nonno, Pedro, si mise a fare due, anche tre lavori per dargli 15 real al giorno e pagarsi l’autobus per andare al campo. I soldi guadagnati con il primo contratto giovanile li diede a lui.

 

In

del 2011 a lui dedicata dal canale tematico del Real Madrid parla di tutto ciò che noi europei ci aspettiamo da un brasiliano: la gioia di vivere, la musica, il ballo, il calcio di strada, i furti nei sottopassaggi.

 

Eppure, sportivamente, Filipe Luis e Marcelo partono dallo stesso punto di partenza, il futsal (più o meno la versione indoor del calcetto). Ma da lì i passi sono in direzione opposta. Filipe Luis si è fatto modellare dall’Europa, tecnicamente e tatticamente, passando dal Figueirense ad Ajax, Real Madrid B e Deportivo La Coruña prima di arrivare ad un grande club. In

concessa poco meno di due anni fa al sito del Chelsea dice che, nonostante il suo gioco abbia ovviamente alcuni aspetti brasiliani, “la parte tattica è principalmente europea”.

 

Marcelo, invece, si è presentato in Europa come il miglior prospetto di terzino del suo paese, un frutto esotico che tutti i principali club europei volevano provare. Aveva offerte da Real Madrid, Siviglia, CSKA e Juventus, dice nell’intervista a Real Madrid TV.

 

Ed è forse anche solo per questa caratterizzazione estetica che pensiamo a Filipe Luis come un terzino

, bravo a difendere, quindi sostanzialmente europeo, e a Marcelo come un terzino invece tipicamente brasiliano, estroso nella metà campo avversaria ma sbadato quando c’è da marcare gli avversari. Quando questa dualità si ripropose in nazionale, ad esempio, Dunga

: “Quante volte [Marcelo] è andato in avanti? Venti. Quanti gol ha segnato o costruito? Nessuno. Quante volte siamo stati presi alle spalle della nostra difesa? Tre o quattro”.

 

Ma per quanto quest’idea sia superficialmente vera, deriva pur sempre dalla nostra stereotipizzazione calcistica per cui i geni europei rendono bravi a difendere e i geni brasiliani rendono bravi ad attaccare. Per lo stesso motivo, ci stupisce sapere che mentre Filipe Luis è

esterno alto e solo successivamente è diventato terzino, Marcelo è invece sempre stato terzino, e solo a volte adattato ad esterno alto. Forse è scontato, ma Filipe Luis non è bravo a difendere perché ha degli avi europei, è bravo a difendere perché ha imparato ad utilizzare la sua tecnica e il suo corpo in quel senso.

 



A proposito di questo, c’è una dichiarazione molto interessante del terzino dell’Atletico Madrid

circa un anno fa al sito del Chelsea da cui vorrei partire. La domanda è qual è il miglior consiglio che abbia mai ricevuto nella sua carriera. La risposta è un estratto di saggezza di Dorival Junior, suo allenatore al Figueirense: “Mi disse che il mio corpo era uno strumento. Se sei un ingegnere hai il martello o il computer, ma il mio strumento è il corpo. Mi spiegò di prendermi cura del mio corpo, stare attento al cibo che mangiavo e assicurarmi che dormissi abbastanza. […] Il tuo corpo deve essere sempre pronto, me lo ripeto sempre. Avrò un sacco di tempo [dopo essermi ritirato,

] per godermi le altre cose della vita”.

 

E al di là della questione della brillantezza fisica, comunque necessaria per un terzino di una squadra di Simeone o Mourinho, e dell’etica del lavoro quasi calvinista, che lo allontana ancora una volta dallo stereotipo brasiliano, vorrei concentrarmi proprio sull’utilizzo del corpo come strumento di difesa o attacco, che mi sembra essere una degli aspetti principali che tecnicamente distingue Filipe Luis da Marcelo.

 

Più in particolare, il terzino dell’Atletico concepisce davvero il suo corpo nella sua interezza come uno strumento inscindibile. E con questo intendo dire che Filipe Luis preferisce mantenere l’avversario, in fase difensiva, o il pallone, in fase offensiva, il più possibile vicino a sé, in modo da poter utilizzare il corpo per i suoi scopi, come per esempio frapporsi fra il pallone e l’avversario non appena quest’ultimo se lo allunga anche il minimo.

 

In fase di non possesso, Filipe Luis raramente permette ai suoi avversari di girarsi faccia alla porta accorciando lo spazio anche prima che il suo avversario riceva il pallone e trasformando ogni uno contro uno in un duello corpo a corpo. L’essere sempre vicino all’avversario gli permette di riuscire quasi sempre nell’anticipo o di allontanare il pallone nel caso in cui il suo dirimpettaio riuscisse a girarsi palla al piede.

 

La stessa concezione unitaria del corpo spiega perché il terzino brasiliano ricorra solo come ultima possibilità alla scivolata (quando deve intercettare un pallone che è molto lontano dal suo asse più che altro si piega sulle ginocchia e allunga il sinistro, in un gesto simile ad una mossa di capoeira), e abbia uno stile quasi cestistico nei duelli aerei, con dei salti perfettamente in verticale in cui il busto e le braccia non escono quasi mai dal proprio cilindro di competenza (un fondamentale di cui è invece praticamente privo Marcelo).

 

Quando invece l’avversario ha spazio per avanzare, Filipe Luis non concede mai la profondità, aspettando e cercando di indirizzarlo con il busto verso la zona preferita, e cioè quella del suo sinistro. A questo proposito, c’è da dire che il terzino dell’Atletico utilizza esclusivamente il sinistro non solo per colpire il pallone ma anche nei contrasti. Se l’avversario riesce a portare il pallone dall’altro lato, Filipe Luis, invece di utilizzare il destro e rompere l’unità del suo corpo (la gamba sinistra da una parte e la destra dall’altra, con il rischio di subire un tunnel o piantarsi a terra), preferisce ruotare il busto di 180 gradi ed utilizzare sempre il sinistro. Un gesto che compie con una velocità davvero sorprendente.

 



Marcelo parte invece dall’idea opposta, e cioè che la destrutturazione del proprio corpo non rappresenta necessariamente la rottura di un’unità difensiva, ma che possa essere invece anche un’opportunità da cogliere, soprattutto in fase offensiva.

 

Il terzino del Real Madrid raramente accorcia sull’avversario col giusto tempismo e ancor più raramente lo accompagna direzionandolo col busto. Più che altro, cerca di prevedere cosa farà il suo avversario, affrontandolo a viso aperto, o tentando anticipi forzati, con un largo uso di scivolate spettacolari o allunghi. Marcelo, insomma, si prende senza troppi patemi d’animo il rischio di essere saltato, una cosa che Filipe Luis di solito preferisce evitare col fallo (e infatti ne commette molti di più: 0,89 ogni novanta minuti contro 0,58).

 

In questo senso, al di là della diversa concezione del proprio corpo, la distanza tra i due è rappresentata anche da una diversa fiducia nei propri mezzi tecnici ed atletici, e in quelli dei propri compagni. Marcelo è sempre convinto di poter superare l’avversario in velocità o di capire le sue intenzioni in fase di non possesso, senza preoccuparsi dell’eventualità che qualcosa possa andare storto.

 

Su questo non può non aver influito il fatto che Marcelo in Europa abbia giocato solo col Real Madrid, sempre coperto da centrali di livello stellare. Da questo deriva ovviamente anche la sua rilassatezza tattica. Il terzino del Real infatti molte volte non si cura degli inserimenti degli esterni alti avversari, salendo direttamente sui terzini e recuperando la posizione trotterellando. Una possibilità che nell’universo calvinista di Felipe Luis non è nemmeno concepita.

 



 

In definitiva, credo che a cambiare tra i due sia l’atteggiamento nei confronti del caos prodotto dall’imprevidibilità delle scelte dei 22 giocatori in campo. Marcelo pensa che il caos possa essere previsto e quindi sostanzialmente controllato, indirizzato verso i propri fini. Filipe Luis parte invece dal presupposto che il caos debba essere risolto, e cioè eliminato, per portare avanti una buona difesa o un buon attacco.

 

Su questo, ancora una volta, influisce anche il collettivo in cui i due giocatori sono inseriti. Il Real Madrid vuole infatti arrivare alla vittoria tramite il controllo del possesso e la massimizzazione delle occasioni (quindi, più o meno, segnare un gol più dell’avversario). L’Atletico, invece, vuole arrivare allo stesso risultato passando per la strada opposta: il controllo dello spazio e la minimizzazione degli errori (quindi, più o meno, prendere un gol meno dell’avversario).

 

Tutto ciò ha modellato l’atteggiamento dei due anche in fase di possesso. Filipe Luis concepisce infatti lo spazio come un bene finito, che può solo esaurirsi, non aumentare. Il terzino dell’Atletico avanza fino a quando l’avversario glielo concede, di solito il limite dell’area, e poi, quando lo spazio si esaurisce, fa la cosa più semplice: un cross (non a caso quasi sempre dalla trequarti, quasi mai dal fondo) o uno scarico verso un compagno vicino.

 

È il motivo per cui, tatticamente, Filipe Luis non si allontana quasi mai dalla linea del fallo laterale: trovare spazio centralmente di solito è molto difficile, a meno che non si sorprenda l’avversario in transizione. Una caratteristica che comunque non è per forza negativa in termini assoluti, perché lo rende particolarmente utile ad attaccare il lato debole della squadra avversaria.

 

E questo comunque non vuol dire che per un difensore sia facile affrontarlo. Al di là della grande capacità di difendere il pallone con il corpo già detta, infatti, Filipe Luis riesce anche a mantenere una velocità molto alta con il pallone tra i piedi e sa cambiare direzione in una frazione di secondo.

 

Al contrario di Filipe Luis, Marcelo pensa che lo spazio possa essere creato, soprattutto attraverso l’accelerazione o il dribbling. Questo lo porta ad avere una varietà di soluzioni decisamente più ampia nella trequarti avversaria: dal filtrante dalla trequarti all’incursione centrale, dal cross dal fondo al tiro dalla distanza (effettua 0,69 tiri ogni 90 minuti, contro i 0,25 del terzino dell’Atletico).

 

Indubbiamente il terzino del Real Madrid ha capacità creative maggiori rispetto a Filipe Luis (effettua più del doppio dei passaggi chiave: 1,75 ogni novanta minuti contro 0,76) e può essere quindi molto utile per creare superiorità al centro quando si aggiunge al centrocampo accentrandosi (una caratteristica, questa sì, molto comune nei terzini brasiliani: da Maicon a Dani Alves fino ad arrivare a Bruno Peres). Nella trequarti avversaria Marcelo si comporta sostanzialmente da trequartista, o almeno da regista alto.

 

E questo è determinato da una parte dalla fiducia nelle proprie capacità tecnico-atletiche, come già detto, dall’altra dall’atteggiamento delle due squadre nei confronti dell’errore. Tentare di creare spazio nella trequarti avversaria con un terzino, infatti, prevede anche la possibilità di perdere il pallone e rendere quindi la propria squadra vulnerabile alle transizioni avversarie. Una possibilità che nell’Atletico Madrid, in cui il bene primario da difendere è la compattezza difensiva, non è contemplata. In tutti e due i casi, quindi, le necessità tattiche dei due collettivi si compenetrano perfettamente con le caratteristiche tecniche dei due giocatori.

 

Ma questo non può ovviamente avvenire in Nazionale, dove i due si fanno concorrenza a vicenda per una maglia da titolare, e l’allenatore è ogni volta costretto a scegliere tra due delle mille anime del Brasile.

 

Marcelo, con il suo stile fatto di accelerazioni, pause, strappi, doppi passi, assimilabile al barocco eccessivo sudamericano o alla samba. La destrutturazione del gesto tecnico come la cascata di baracche colorate della favela di Rocinha a Rio de Janeiro. Oppure Filipe Luis, con la sua corsa costante e senza variazioni, priva di finte o bluff, simile a quella di un treno ad alta velocità che viaggia su binari prestabiliti. Il minimalismo potente dei grattacieli di San Paolo.

 

 

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