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Marcell Jacobs era programmato per vincere
12 ago 2021
12 ago 2021
Intervista allo staff che ne ha curato la preparazione a Tokyo.
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I fotogrammi della finale dei 100 metri del primo agosto scorrono nella memoria al rallentatore: il Kokuritsu kyōgijō di Tokyo vuoto che diventa buio, le luci di scena che accolgono i corridori, la falsa partenza del britannico Zharnel Hughes, poi il via e quegli interminabili 9 secondi e 80 centesimi, prima del grido liberatorio che ha consacrato Lamont Marcell Jacobs. Il clamoroso finale dei dieci minuti più importanti della storia italiana. Nessuno avrebbe potuto prevedere la doppietta olimpica dell’atleta delle Fiamme Oro. Nessuno avrebbe potuto pensare che un ragazzo nato a El Paso, Texas e cresciuto a Desenzano, Brescia si sarebbe seduto a capotavola in un pranzo a cui gli italiani non avevano mai partecipato. Quasi nessuno, in realtà.

«Marcell era pronto, è un atleta fortissimo. Abbiamo lavorato su punti importanti della gara come la partenza, un fondamentale in cui non eccelle in senso assoluto, ma che ha migliorato. Il suo punto forte è lo sprint dopo i 25-30 metri: abbiamo puntato forte su quello, perfezionando i movimenti», spiega Paolo Camossi, ex triplista e allenatore dell’olimpico dal 2015. Jacobs ha una potenza fuori dal normale, come racconta il dottor Alberto Marcellini, suo fisioterapista dal 2020: «Spesso, durante gli allenamenti, devo mettermi in piedi dietro ai blocchi di partenza perché Marcell ha uno strappo talmente forte che li sposta. In gara non può farlo perché i blocchi sono fissati a terra, ma questo fa capire di che atleta stiamo parlando».

Il percorso di crescita del centometrista è stato costante e non ha tralasciato neanche un fattore: a 18 anni, nel 2012, Jacobs aveva un personale sui 100 metri di 10”68, millequatrocentotrentunesima prestazione al mondo. Ora, dopo nove anni, il suo 9”80 è il secondo nel ranking, dietro al 9”77 dello statunitense Trayvon Brommell.

Se si giudica il solo 2021, i numeri sono sconvolgenti: 9”95 a maggio, poi 9”94 nelle batterie a Tokyo, 9”84 in semifinale, prima della prestazione che gli è valsa l’oro (ovviamente record italiano ed europeo).

Jacobs sembra inarrestabile, ma la sua preparazione conta decine di dettagli che bisogna tenere sotto controllo. Camossi è molto chiaro, anche sulla questione della pista, che secondo molti era molto veloce: «La pista è sicuramente stata d’aiuto, ma lo era per tutti. Sui 100 metri poi è un vantaggio relativo, infatti favorisce soprattutto i percorsi a ostacoli e le lunghe distanze. Mondo, l’azienda produttrice (che vanta anche la creazione dell’oggetto migliore mai prodotto dall’essere umano, il Super Santos, ndr.), ha fatto un lavoro eccellente con un tracciato che è un rotolo di gomma steso a terra. Usain Bolt nel 2009 a Berlino fece il record del mondo (9”58) su una pista colata, del tutto differente. Mi aspetto che ai prossimi mondiali di Eugene, Oregon, la tecnologia andrà ancora avanti».

Quanto alle scarpe, che hanno fatto discutere gli esperti di mezzo mondo e che sono state criticate anche da Bolt stesso, l’allenatore di Jacobs ha ricostruito la vicenda: «Quando abbiamo fatto il record europeo sui 60 metri indoor (6”47 lo scorso 6 marzo a Torun, in Polonia), indossava ancora il vecchio modello. Lo sponsor ci ha proposto questo tipo di calzatura, quindi abbiamo pensato di fare dei test con le vecchie e con queste, per poi poter comparare i risultati. All’inizio Marcell non le sentiva molto comode, però si è reso conto che gli offrivano una maggiore elasticità nella fase finale della corsa. I tempi registrati erano gli stessi. A monte però c’è un discorso da fare: se World Athletics le ha approvate vuol dire che sono regolari e tutti possono usarle».

Non c’è solo il perfezionamento tecnico nella storia di Marcell Jacobs.

Il suo oro arriva dopo un percorso di undici mesi con la mental coach Nicoletta Romanazzi, che lo ha aiutato a conoscere sé stesso. «È un atleta incredibile che però ha corso spesso con il freno a mano tirato», spiega l’esperta, che segue anche altri atleti della spedizione olimpica italiana. Il problema principale era nel suo rapporto con eventi clou, come le finali: «Prima di iniziare questo percorso con me era insicuro, subiva tanto ciò che succedeva intorno a lui, subiva gli avversari. Aveva razionalmente un ottimo potenziale, ma quando andava in gara perdeva questa sicurezza. Certo, avevamo preventivato che questa Olimpiade sarebbe stata diversa dalle altre a causa delle restrizioni anti Covid, ma anche lì ci siamo preparati. Bisogna cambiare il tipo di significato che diamo alle cose e Marcell in questo è eccezionale: ha sfruttato il tempo da solo per concentrarsi, per scomporre le sue prestazioni e affinare i dettagli, per allenarsi. Ora Jacobs è un atleta molto più propositivo. È chiaro che avere un pubblico o una famiglia che ti segue in viaggi intercontinentali è meglio, ma i professionisti devono imparare a “funzionare” lo stesso. Poi ci sono casi limite: Benedetta Pilato (clamorosamente eliminata nelle batterie dei 100 metri rana) ha sofferto la mancanza del suo allenatore e della sua famiglia, ma ha sedici anni, è un discorso differente». Il mental coaching sta assumendo sempre più importanza nello sport, ma le difficoltà nel riconoscimento ufficiale della professione sono tante. Romanazzi, che segue anche Luigi Busà (oro nel karate kumite 75kg), Viviana Bottaro (bronzo nel karate kata), Alice Betto (settimo posto nel triathlon dopo aver saltato Londra 2012 e Rio 2016 per infortunio) e Jeannine Gmelin (canottiera svizzera, quinta nel singolo femminile), è preoccupata perché sa che «è impensabile allenare il corpo tralasciando la mente». Per questo, l’elezione di Federica Pellegrini nella componente atleti del Cio può essere un punto di svolta. La Divina ha sempre dichiarato di voler combattere per il riconoscimento di un supporto che spesso è cruciale per gli atleti, soprattutto dopo un anno e mezzo di chiusure, allenamenti cancellati, protocolli, mascherine, solitudine.

Veloce, allenato, fisicamente pronto, concentratissimo: «Quando ho visto Marcell rimanere fermo durante la falsa partenza di Hughes, mentre tutti gli altri hanno seguito il britannico ho pensato “ok, ci siamo”» racconta Romanazzi. Effettivamente era difficile pensare altro: in un momento di tensione massima, Jacobs ha saputo tenere la testa solo sull’obiettivo finale, come se all’interno dello Stadio Olimpico di Tokyo corresse lui e lui soltanto.

In questo senso, i 100 metri piani sono, a livello sportivo, la più grande dimostrazione di sé stessi al mondo, ma la staffetta 4x100 mette in gioco altri fattori. Lavoro di squadra, strategia, tempismo, capacità di comunicare, rendono il lavoro forse più difficile. Nella finale della 4x100 femminile delle Olimpiadi di Berlino del 1936, il quartetto tedesco composto da Emmy Albus, Käthe Krauß, Marie Dollinger e Ilse Dörffeldt, che aveva stabilito il record del mondo in semifinale, fu squalificato in finale sotto gli occhi di Adolf Hitler mentre stava dominando, a causa della caduta del testimone nell’ultima frazione.

Secondo Camossi però, la preparazione è pressoché la stessa: «La staffetta non è tanto diversa a livello di allenamento. Bisogna provare i cambi, ma quelli dipendono molto dal momento: puoi farli bene per anni e poi sbagliare all’ultimo. È tutta una questione mentale».

Combinare prospettiva individuale e capacità di vedersi in una squadra potrebbe sembrare un lavoro difficile e spesso lo è, anche in altre discipline sportive, ma Nicoletta Romanazzi racconta che il lavoro con Jacobs sotto questo punto di vista non è stato praticamente fatto perché non ce n’era bisogno: «Marcell è sempre stato abituato a lavorare in gruppo e si trova bene con gli altri, quindi non è mai stato necessario. È una persona generosa che sa attrarre a sé gli altri e questo è fondamentale. Sa perfettamente che da solo non può andare da nessuna parte». I suoi due ori sono dunque frutto di un lavoro di squadra. Anche e soprattutto quello vinto nella competizione individuale.

Ora, al termine di un’Olimpiade leggendaria e di una cerimonia di chiusura che lo ha visto portabandiera, tutti si chiedono quale sarà il futuro di Marcell Jacobs. Secondo il suo allenatore la strada è tracciata: «9”80 è un tempo rilevantissimo, ma non è inaspettato. Dopo aver fatto il record europeo a Torun, ho detto ai membri del centro di medicina per lo sport del Coni che avrei voluto portarlo a compiere 4,60 movimenti al secondo e 45 appoggi. Loro hanno fatto due conti e hanno capito che stavo parlando di un tempo intorno ai 9”77. Ero certo che avrei potuto metterlo nella condizione di fare questo. A Tokyo ha fatto 4,59 movimenti al secondo e 45 appoggi e 1/3 di piede. È venuto fuori un 9”79 diventato 9”80 dopo la correzione per il vento a favore. Tutto secondo i piani, più o meno». Tutto secondo i piani anche quando l’allenatore scrisse il pronostico sul tempo che il velocista azzurro avrebbe fatto in batteria a Tokyo: «Non voglio passare per un barbaro, perché le stanze degli atleti all’interno del villaggio olimpico sono di cartongesso e vengono abbattute dopo la fine dell’evento, ma il giorno delle gare ho scritto all’interno della porta della sua camera 9”93. Marcell ha fatto 9”94. Il primo agosto mi ha chiesto di fare lo stesso ma non l’ho accontentato… avrei comunque scritto 9”95 per la semifinale perché pensavo sarebbe stato un po’ teso, e 9”84 per la finale. Ha migliorato le mie aspettative, ma giravamo intorno a questi tempi, anche perché durante tutto l’anno ha dimostrato di essere al 102% della sua forma. Quello che mi stupisce non è tanto la sua prestazione eccellente, quanto quelle sottotono degli altri. Tutti vedevano Brommell già con la medaglia al collo, invece non si è qualificato nemmeno per la finale. Fermo restando che con 9”80 avrebbe potuto vincere anche contro l’americano che al momento è il numero 1 nel ranking mondiale».

Il calcolo scientifico e la previsione delle prestazioni sono fattori determinanti nella preparazione. A maggio un infortunio all’adduttore sinistro costrinse Jacobs a saltare il meeting di Rieti, che lo avrebbe visto gareggiare contro Filippo Tortu. I dati prevedevano una prestazione intorno ai 9”85 (che all’epoca era sotto al record europeo), testimoniando che si stava andando verso una prova olimpica senza precedenti. I numeri c’erano, bisognava solo far combaciare ogni singolo particolare. A partire dal recupero fisico.

«Siamo stati molto cauti con Marcell nel suo percorso di recupero. Non ci si può permettere di rischiare quando le Olimpiadi si avvicinano», racconta Marcellini, che sente la responsabilità di mettere le mani sui muscoli più importanti del mondo: «È un lavoro che mette pressione e che ora ne metterà di ulteriore, alla luce di quello che Jacobs rappresenta per il nostro paese e per lo sport mondiale. Proprio per questo se è al 90% non gareggia, perché non servirebbe a niente. Il lavoro è sia di rigenerazione muscolare, sia di prevenzione. Se lui sta bene, va».

Va, ma quanto può andare? E per quanto tempo ancora? Secondo Camossi i tempi sono cambiati: «Una volta all’età di Jacobs (27 anni il prossimo 26 settembre) iniziava il declino, ma ormai ci sono atleti di 35 anni che vincono medaglie nell’atletica. Secondo me Marcell può migliorarsi e può fare tranquillamente le prossime due Olimpiadi».

Ora però, con tre anni per prepararsi a Parigi 2024, iniziano le insidie più grandi, almeno a livello di gestione dello stress fuori dalla pista. Nicoletta Romanazzi ha già preventivato il carico di attenzioni che inevitabilmente il campione riceverà: «Le aspettative degli altri sono pericolose, perché spesso gli atleti cercano di compiacere chi gli sta intorno. Dovremo lavorare duramente per convincerlo a pensare solo per sé stesso, ponendosi degli obiettivi personali. Quello che gli altri si aspettano non deve essere un problema suo».

Corpo, mente, staff, sono le componenti fondamentali per un successo storico, che ha fatto scoprire al mondo la storia di un atleta determinato a fare bene, un centometrista formidabile che ha potuto contare su un’organizzazione capillare. Marcell Jacobs, Filippo Tortu, Lorenzo Patta, Fausto Desalu indicano oggi la strada per costruire il movimento dello sprint italiano. Certo, un vecchio adagio dice che non si costruiscono le case partendo dal tetto, ma se in garage hai la Cupola del Brunelleschi forse è meglio tirarla fuori e costruirci una bella basilica sotto.

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